Al tempo delle sezioni, dei circoli, dei centri studi, dei campi scuola e della militanza.
Sulle rovine delle vecchie case politiche demolite non è stato costruito nulla. Il cantiere è deserto.
Se la democrazia dei partiti è sostanzialmente finita, e lo dimostrano i travagli per cercare le candidature ai vertici delle amministrazioni rappresentative, come si dice non senza ragione da più parti, quali sono le forme attraverso le quali si realizza il consenso?
I politologi cercano risposte perlopiù insoddisfacenti, articolandole attorno a ragionamenti astratti. La gente non vede più operare quelle organizzazioni che, per quanto malmesse in alcuni periodi della nostra storia recente e meno recente, e per quanto degenerate in quella che genialmente venne definita «partitocrazia», costituivano tuttavia le cinghie di trasmissione tra le istanze popolari e il potere.
Oggi dove sono finite?
I partiti li ho criticati abbastanza nel passato per sopravvalutarne l’importanza.
Ma di fronte al nulla politico che ci avvolge, come non avvertire una sorta di nostalgia per quei benedetti/maledetti partiti? Sì, confesso il mio profondo disagio.
I loro riti congressuali, assembleari, correntizi; le loro manifestazioni di piazza, le mobilitazioni a cui davano vita, la ricerca di impossibili assoluti ai cui talvolta ingenuamente si dedicavano; le sezioni, i circoli, i centri di studi e di formazione, i campi scuola; i volantinaggi, le proteste, i tentativi (sovente disperati) di sensibilizzazione sui piccoli e grandi temi, la distribuzione domenicale del giornale, l’attacchinaggio, il ciclostile: tutto questo, e molto altro ancora, mi manca.
Come mi manca il sentimento dell’avventura civile a cui i migliori nei partiti si sacrificavano con maniacale dedizione.
E mi mancano pure le liti furenti e le generose, commosse riappacificazioni.
Mi manca la vita che c’era nella politica delle chiacchiere e dei sentimenti; nelle baruffe e nelle utopie, nell’ostilità selvaggia verso l’avversario e il riconoscimento, quando se lo meritava, del suo valore; la gratificazione in un rigo conservato come un cimelio da parte del dirigente, del capo, del leader e la mortificazione di non essere stato all’altezza del compito assegnatoti.
Mi mancano le mani tese della gente dopo i comizi, gli applausi delle piazze colme o quasi deserte, i suggerimenti di gente umile che faceva la fila davanti alle sezioni per segnalare problemi reali, minuti o irrilevanti.
Mi manca l’entusiasmo dei militanti, l’affetto dei simpatizzanti, l’ammirazione degli elettori. E mi mancano tantissimo le icone cui ci si ispirava e le bandiere lacere e le memorie degli anziani e le insofferenze dei giovani. Sì, l’assenza dei partiti mi fa assai male.
Come mi fa male questa democrazia degli oligarchi, plastificata, mediatizzata, tutt’altro che innocente, priva di passioni, di entusiasmi, di virtù.
Mi fanno male i giovani che vogliono diventare assessori, gli assessori che vogliono fare i deputati e i senatori, i deputati e i senatori che vogliono arrivare laddove neppure loro riescono a immaginare.
E mi fanno male le risse televisive, le parole senza idee, la povertà polemica condita di volgarità, l’uso della diffamazione sistematica per distruggere, annientare, uccidere moralmente e civilmente l’avversario.
Soffro ricordando famiglie politico-culturali e vecchie ideologie che davano un senso all’appartenenza davanti alla nullificazione parlamentare di battaglie che dovrebbero coinvolgere la gente, farla partecipare e invece la si sottrae all’impegno, la si oscura seppellendola sotto impressionanti quantità di strilli d’agenzia.
I partiti. Li abbiamo demonizzati, impiccati all’albero dell’ignominia, affossati, gettati nel dimenticatoio insieme con tutte le cose inutili e dannose. Non esistono più e gli oligarchi hanno preso i loro posti, più famelici e arroganti di come Marco Minghetti, Ruggero Bonghi, Francesco de Sanctis o, più prossimi a noi, Giuseppe Maranini, Giacomo Perticone, Carlo Costamagna avevano rappresentato l’ingerenza dei partiti politici nella pubblica amministrazione, la corruzione a cui tendevano, la vita spregiudicata che conducevano.
Oggi si rivoltano nella tomba. Come ci si rivolta un Roberto Michels, il più grande studioso dei partiti politici del Novecento, che faticherebbe riconoscere la paretiana circolazione delle élite nelle cooptazioni da parte degli oligarchi di consiglieri circoscrizionali e di parlamentari, per non dire di amministratori pubblici e manager di Stato.
Ma queste sono cose da studiosi, appassionanti almeno per qualcuno di noi, ma non per i cittadini che faticano a riconoscere nei nuovi soggetti artificiali, in questi Frankenstein della politica che vediamo nascere e morire nello spazio di pochi anni o addirittura di pochi mesi, le vecchie “comunità” ideali o di “interessi” nelle quali bene o male si ritrovavano. Del vecchio partito politico è rimasta soltanto la sbiadita immagina (piuttosto malconcia) dalla quale secondo Michels generavano le oligarchie le quali, tuttavia, erano pur sempre espressioni di una volontà popolare e non personalistica, selezionate in base a criteri se non proprio oggettivi e soddisfacenti, quantomeno legate al territorio, ai bisogni diffusi, al patrimonio ideale che animava i sostenitori dei movimenti.
E le oligarchie, diceva lo studioso, erano inevitabili poiché i compiti da svolgere, la complessità dei fenomeni da fronteggiare, la specializzazione presupponevano conoscenze a cui non tutti si potevano dedicare. Erano oligarchie legate fisiologicamente alla forma-partito.
La quale, secondo Max Weber, è «un’associazione rivolta a un fine deliberato, sia esso “oggettivo” come l’attuazione di un programma avente scopi materiali o ideali, sia “personale” cioè diretto a ottenere benefici, potenza e pertanto onore per i capi e seguaci, oppure rivolto a tutti questi scopi insieme».
Che cosa siano oggi i partiti, questi partiti, o per lo meno le presenti «associazioni di partiti» (una contraddizione in termini) nessuno sa più dirlo.
E non è un bene per la democrazia. Come non è un bene che le nuove formazioni politiche si siano aggregate sulla spinta di necessità imposte da un sistema elettorale e non per motivazioni ideali (o weberianamente “personali”) senza superare vecchie identità al fine di dare luogo a inedite sintesi capaci di interpretare il «nuovo», il «cambiamento» come pure si diceva qualche anno fa.
« Chi ama la politica come una delle più alte espressioni dello spirito,
si sente terribilmente solo »
Si può avere nostalgia di ciò che non c’è più e rimpianto per quel che poteva essere e non è stato? Girando per l’Italia ed incontrando la gente più diversa negli ultimi anni, ho constatato che una cosa almeno era chiara a loro e a me: sulle rovine delle vecchie case demolite, non è stato costruito nulla.
Il cantiere è deserto.
E chi ama la politica come una delle più alte espressioni dello spirito, si sente terribilmente solo.
Ma di questa solitudine agli oligarchi non importa molto. I partiti morti non rinasceranno.
Ma quelli che s’illudono di essere vivi non faranno in tempo a passare alla storia.
Se la democrazia riuscirà a trovare nelle fibre della società civile le sue ragioni, forse la giostra si rimetterà in moto e la politica riprenderà a correre.
Per andare non si sa dove, come è sempre stato, comunque ben oltre questo deserto che ci assedia con i suoi talk show, con le sue convention che assomigliano tanto a varietà televisivi, con le improvvide dichiarazioni di improvvisati tuttologi capaci di pronunciare parole prive di idee senza mai arrossire neppure una volta.
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