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Come influisce l'aumento delle spese militari sull'andamento dell'economia italiana

Tra ricerca di sicurezza, attuali finanziamenti distribuiti in varie voci di bilancio e nuove tecniche di offesa e di difesa. Le nuove frontiere degli armamenti per garantire la pace futura.

Per due lunghi anni l’Italia si è riempita di virologi ed epidemiologi, più o meno competenti e preparati, che sono scesi in una grande arena immaginaria, dove i professionisti della sanità si sono confrontati con la gente comune, improvvisatasi esperta di microbiologia, difese immunitarie, contagi e cure, in un estenuante e risibile confronto.

Ora che l’attenzione generale, suo malgrado, si è spostata sull’argomento, drammaticamente diverso, del conflitto Russia-Ucraina, costatiamo che il meccanismo dei comunicatori e degli opinionisti si è replicato in modo analogo e quasi speculare, sia sul piano dell’informazione che su quello della competenza, e nei bar si parla disinvoltamente di strategie militari e armamenti, degli spostamenti del fronte e della capacità della diplomazia.

Così, se prima siamo stati bombardati su tutto ed il contrario di tutto (abbiamo visto che persino l’OMS prendeva fischi per fiaschi, prima minimizzando i pericoli del virus, poi ritardando ad ammettere che fosse una pandemia), in questa occasione i media hanno scaricato sul mondo ogni tipo di notizia, attingendo a piene mani dati ed immagini della guerra, spesso senza nemmeno filtrare la propaganda, che compromette e distorce persino le realtà più evidenti.

Anche questa volta, purtroppo, l’imparzialità e la ricerca della verità spesso sono state messe da parte per la notizia tout-court ed abbiamo osservato come l’ideologia cercasse di ammettere, se non di legittimare, anche i peggiori eventi che un crudele conflitto può generare, con negazionisti ed interventisti, pacifisti e guerrafondai, che hanno aperto discussioni e confronti, sovente sterili e cinici, sulla pelle di quelli che soffrono le tragedie del conflitto.

Non vogliamo tuttavia soffermarci sull’analisi della guerra, argomento fortemente divisivo anche quando si cerca l’obiettività, ma parlare in particolare di uno dei tanti problemi collaterali che la guerra ha reso impellente, perché impatta sull’opinione pubblica italiana: la decisione sull’aumento delle spese militari.

Nel ventaglio politico, che va dagli ultrapacifisti ai falchi, si è visto di tutto, con posizioni variegate e distinguo, secondo gli orientamenti, le sensibilità personali e le tendenze dei partiti, ma inspiegabilmente restano poco approfonditi tre aspetti fondamentali del problema: “quanto”, “come” e “perché” l’Italia deve spendere negli armamenti.

Il primo interrogativo riguarda il quantum, cioè l’importo della spesa: se fosse valido l’impegno del 2006, il peso per l’Italia corrisponderebbe a 32,2 miliardi di euro (pari al 2% del PIL di allora di 1.614,8 miliardi di euro), mentre attualmente si parla di 35,6 miliardi di euro (calcolando la stessa percentuale sui 1.781,2 miliardi di euro del PIL 2021): a quale cifra si deve fare riferimento? Ci sono dubbi, anche perché il Ministro Guerini (PD) parla addirittura di 38 miliardi di euro all’anno; forse perché pensa ad un forte balzo del Prodotto Interno Lordo nel 2028 e fa il generoso…

La verità è che le spese militari italiane sono sempre state rimescolate (sarebbe il caso di dire mimetizzate) tra diverse voci del bilancio dello Stato; ad esempio la “Press Release” della NATO stimava di ricevere contributi italiani nel 2020 per 1,7 miliardi di euro ma se si cercano riscontri nella contabilità dello Stato italiano quei contributi sono allocati nei bilanci di altri Ministeri, come quello dello Sviluppo Economico, non risultano nelle immediate disponibilità del settore della Difesa e non sono facilmente individuabili, in quanto iscritti nel Fondo Missioni Internazionali.

Sulla carta le altre spese, quelle tipiche del Dicastero della Difesa, sono in parte più trasparenti; nel prossimo triennio saranno pari a circa 24,6 miliardi (il 3,2% del bilancio dello Stato e l’1,4% del PIL) con un’incidenza mantenutasi quasi costante dal 2016.

La ripartizione della spesa, invece, per le recenti decisioni, da quest’anno vedrà crescere gli investimenti (armamenti e strutture) quasi del doppio rispetto alla spesa corrente (personale e funzionamento). Va chiarito inoltre che il Ministero suddivide le spese in 3 “Missioni” (e diversi “Programmi”) dai nomi didascalici: Difesa e sicurezza del territorio, Sviluppo sostenibile e tutela del territorio e dell'ambiente e Servizi istituzionali e generali delle amministrazioni pubbliche. La prima si prende oltre il 93% (24,2 Mrd) delle disponibilità totali, ripartendo il 67% di tali risorse tra carabinieri e le forze terrestri, marittime e aeree (sostanzialmente addestramento e mantenimento dell’efficienza operativa-impiego) e assegnando quasi il 23% delle spese complessive (17,4 Mrd) alla Pianificazione generale delle Forze Armate (attività dello Stato Maggiore Difesa e degli organismi dell'area di vertice); praticamente quanto è stato l’aiuto statale contro il caro bollette.

La seconda raccoglie meno del 2% e destina la quasi totalità delle risorse finanziarie al pagamento degli stipendi del personale e delle spese di funzionamento del Corpo forestale dello Stato (in precedenza gestite dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali ora assorbito dall'Arma dei Carabinieri), mentre l’ultima, con poco meno del 5%, sostiene economicamente i servizi alle Istituzioni ed alla Pubblica Amministrazione.

Le ultime voci trovano qualche difficoltà a rientrare nella Difesa nazionale propriamente detta ma riguardano sempre il controllo del territorio.

Il secondo interrogativo attiene il “come” si deve spendere.

È la più complessa delle domande e forse quella oggi più disattesa in termini prospettici. La spesa per armamenti infatti nasce da una precisa strategia di comportamento dell’esercito in caso di eventi bellici e deve fare riferimento alla teoria generale di Ordinamento e Impiego delle Grandi Unità militari, correlata al tipo di conflitto che si deve affrontare.

Si comprende quindi che una cosa è spendere per l’esercito italiano, altro è rinforzare il proprio ruolo nell’inquadramento NATO, altro ancora è contribuire al bilancio di funzionamento dell’Alleanza Atlantica. Sono tre direzioni divergenti, che derivano dallo scenario prevedibile in termini politici e militari ma che si sviluppano nelle dimensioni diverse di Nazione, Comunità Europea e ambito NATO, anche se collegate e coordinate gerarchicamente.

Il fatto che non si sappia bene cosa s’intenda fare lo possiamo addebitare alla necessità di segretezza che avvolge molte tematiche della Difesa italiana (compresi molti bandi di forniture) ma certo, se abbiamo visto che gli stessi russi hanno sbagliato la strategia militare iniziale, dobbiamo ammettere che tutti i paesi della UE non hanno avuto la capacità di prevedere lo scoppio del conflitto (né tentare efficaci azioni sul piano diplomatico per evitarlo). Perciò quando si parla di armamenti per il futuro, certamente in ritardo rispetto all’accaduto, c’è anche la preoccupazione che sia un’azione scoordinata, sentendo le opinioni e le recenti dichiarazioni dei tanti Capi di Stato europei.

Ci si chiede anche se la corsa agli armamenti non sia spinta da una NATO che sembra più soffiare sul fuoco che tentare di spegnerlo, mirando più ad assicurarsi un ruolo più forte nel Vecchio Continente che a fare gli interessi dell’Europa.

All’ultimo interrogativo dell’an, cioè i motivi della spesa, ha cercato di rispondere Draghi, riferendosi ad impegni presi nel vertice NATO di Riga (Lettonia) del 28 e 29 novembre del 2006; purtroppo il Nostro prende un granchio perché si rifà agli annunci nella conferenza stampa a margine del vertice, cui partecipò Arturo Parisi (Margherita) in qualità di Ministro della Difesa del Governo Prodi.

Infatti, in tale occasione, alla richiesta della NATO all’Europa di finanziare la propria riorganizzazione (operazione di cui non si conoscevano ancora i contenuti) non seguì assolutamente alcun impegno formale ma - secondo l’espressione usata dal portavoce NATO - un generico invito a “lavorare” sull’argomento.

È invece durante il Vertice dei Capi di Stato e di Governo della NATO del 4-5 settembre 2014 in Galles che viene deciso in modo più netto l'obiettivo decennale di riportare le spese per la difesa al livello del 2% del PIL, anche perché il conflitto in Ucraina era già scoppiato e preoccupava non solo i paesi della UE.

Sorvolando sul fatto che tale posizione non era stata autorizzata preventivamente dal Parlamento, va comunque ricordato che l’allora Primo Ministro Renzi, sottolineò come, in presenza di piani con forte aumento delle spese per la difesa, sarebbe stato necessario informare puntualmente la pubblica opinione europea, spiegarne i contenuti e, soprattutto, non differire ancora l'avvio di una vera politica di difesa a livello europeo che prevedesse indirizzi comuni e rendesse possibili investimenti mirati e una razionalizzazione delle spese nazionali. Purtroppo, negli otto anni successivi, nessuno ha cercato di spiegare alla Nazione quale fosse la ratio dei nuovi armamenti né di far ratificare espressamente dalle Camere l’impegno governativo, per cui - se non fosse scoppiata la guerra nel 2022 - sarebbe restato tutto sotto traccia, anche per i media, alla faccia della chiarezza e dei diritti all’informazione della pubblica opinione.

I nuovi armamenti, Caro Draghi, non si dovrebbero motivare per vecchi impegni ma spiegando come questa spesa dia risposte più concrete alla ricerca di sicurezza che vuole la gente, facendo anche capire che, proprio con determinate e specifiche spese, l’Italia e l’Europa stanno difendendo la pace futura.

Invece, al contrario, le domande restano ancora da sciogliere ed aumentano; ad esempio, se la tipologia del conflitto attuale stia modificato le tecniche di offesa e di difesa pensate fino a ieri o se gli eserciti europei stanno aggiornandosi e coordinandosi con una prospettiva di difesa oppure di deterrenza, oppure chi saranno i fortunati fornitori dei nuovi armamenti all’Italia. L’interrogativo più difficile, comunque, resta quello sulla nostra economia, in forte crisi: si può permettere un tale livello di spesa militare quando paga ogni anno 65 miliardi di oneri finanziari per l’indebitamento pregresso, che il PRN renderà ancora più pesante?

La risposta dobbiamo lasciarla ai nostri figli, anche se temiamo di conoscerla già.


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