Committenza pubblica e scarsa qualità dei progetti alla base della crisi.
In un sondaggio che intendeva definire i principali elementi che motivano l’acquisto di una casa, le caratteristiche architettoniche occupano soltanto l’ottavo posto.
Con una società incolta i diretti responsabili di questo stato di cose - politici e costruttori - hanno guadagnato potere.
La qualità della vita, però, non si misura soltanto con parametri monetari come, da qualche tempo, sta avvenendo in Italia.
Prendiamo un calzolaio e la sua antica arte artigianale.
C’è chi fabbrica scarpe per ottenere un giusto guadagno; chi non si accontenta, e inventa nuovi modelli per diventare famoso e chi, più semplicemente, pensa di dover far felici i piedi dei clienti.
Dovremmo, allora, creare spazi per il benessere dell’uomo, piedi inclusi.
Per poter “far camminare” l’architettura, è necessario, prima di tutto, che nei programmi politici l’architettura rappresenti un obiettivo da realizzare in quanto espressione di civiltà e di innovazione.
Si parla continuamente di abusivismo, di non rispetto del paesaggio, ma non si parla mai di qualità del progetto o, meglio, se ne parla cercando di realizzare queste qualità attraverso una legge.
Ma questo non serve, è fuorviante.
Si badi: le leggi non sono inutili. E’ l’eccesso di legislazione che non va. Siamo il Paese con il più alto numero di leggi al mondo.
Un reticolo normativo che soffoca, comprime, annulla ogni attività creativa.
Per non parlare dell’eccesso di regolamentazione, di quel parossistico metodo di invadere ogni sfera del vivere civile e collettivo che imbriglia ogni volontà e annulla ogni intrapresa.
Va da sé che quanto più nutrito, ingarbugliato e confuso si presenta il quadro normativo, tanto più si amplia l’ambito del non rispetto, della non applicazione e dei mancati controlli proprio di quelle leggi che dovrebbero regolare ogni cosa.
L’architettura ha bisogno di respiro, di ariosità di pensiero.
L’architettura va fatta amare e conoscere fin dalle scuole elementari.
Va coltivata come una disciplina preziosa.
Come qualcosa che contribuisce al benessere collettivo e incide sui cambiamenti della società.
D’altra parte, nel mestiere dell’architetto dovrebbe occupare un posto preminente l’innovazione, la costante ricerca del nuovo, di modelli che interpretino i nuovi bisogni sociali dettando gusti e profili di una dimensione del vivere il cui livello qualitativo sia sempre più alto e soddisfacente.
Sicché, se l’architettura non viene considerata nel suo valore effettivo e pregnante, rischia di essere eliminata dagli stessi bisogni sociali.
E’ interessante riflettere, per esempio, su come in questi ultimi anni si è passati dalla bulimia del tanto, della decorazione, del riempire, all’anoressia, al dimagrimento.
Forme scarne e trasparenti.
Il vetro, la trasparenza che tutti gli architetti usano.
E la società accetta senza porsi la domanda se faccia bene al suo vivere, se produce emozioni.
Studi recenti sui comportamenti e le diversità di approccio a questa materia offrono una gamma assai variegata delle preferenze architettoniche.
In America prevale l’esaltazione della tecnologia.
In Giappone un mix di mistica e tecnologia.
In Svizzera è in uso una architettura compressa in pochi spazi.
In Spagna la tecnologia si accompagna alla poesia.
E in Italia?
Da noi il linguaggio architettonico è ancorato alle vecchie scuole.
Così abbiamo una generazione di giovani architetti priva di “nuovi maestri”.
La crisi italiana non è più crisi dell’architettura: è crisi della committenza.
In Olanda ci sono scuole di orientamento della committenza, sia pubblica che privata.
Scuole che forniscono elementi di base essenziali per ripensare le città, nelle dimensioni e nello sviluppo, nella armoniosa sintesi tra bellezza, rispetto della natura, uso corretto delle nuove tecnologie.
Urbanistica e qualità del costruire si coniugano e si integrano alla perfezione, imponendo stili e modelli del vivere collettivo: tutto quello che chiamiamo benessere, materiale e spirituale.
Da noi - ecco una nota dolente - in molti progetti risalta il completo disinteresse per la città.
La estraneità rispetto al contesto.
Il distacco tra il preesistente e il nuovo che non assurge neanche alle dimensioni della rupture che, invece, se immaginata con singolare spinta creativa, potrebbe rappresentare elemento di straordinaria efficacia, un segno perfettamente integrabile in quanto capace di esaltare le fattezze di quel che esiste e precede.
Ammettiamolo: il settore pubblico, in Italia, ha contribuito non poco allo sfacelo dell’ambiente in cui viviamo.
Si costruisce male.
Basta avvicinare l’occhio alle nuove costruzioni per coglierne limiti, errori, brutture.
Persino le riviste che, un tempo, erano palestre di novità, stimolo speculativo per menti aperte e cultura di avanguardia, sono terribilmente appiattite, omologate.
Le sfogli e trovi sempre le stesse cose.
Foto e immagini ripetitive che non trasmettono nulla, non danno emozioni, non incantano.
E dire che nel resto dell’Europa ci si interroga, molto più che in Italia, sulla professionalità dell’architetto e si dibatte sulle nuove dimensioni del sociale.
La stessa Pandemia che ha flagellato il mondo è diventata argomento di riflessione per studiare spazi appropriati e utili nell’esercizio del lavoro a distanza, nella configurazione di una abitazione che si dimensioni sempre più con riguardo ai nuovi bisogni della famiglia, dei giovani, degli anziani.
Così, mentre si assicura un successo di immagine, si trascura il benessere delle persone.
E non ci si confronta con la Storia e la Tradizione.
Perché, invece, non provare a restituire all’architettura il ruolo che le compete, ossia coniugare utilità, bellezza, valori etici, tensioni storiche?
E’ chiedere troppo?
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