Manzoni, per avere una sola volta ecceduto in un episodio di effettivaa spregiudicatezza e sfrontatezza, è passato per essere considerato non tanto l’esprit de finesse quanto l’esprit terrible dell’arte contemporanea italiana.
Detto ciò, verrebbe da chiudere all’istante il discorso, per non dar seguito a chi vorrebbe ridurre la storia di questo artista ad una sorta di figura eccentrica, tutta presa dalla ricerca ossessivo-compulsiva dei materiali, di ogni altro mezzo e del modo non solo di sbalordire ma anche di scandalizzare il pubblico degli osservatori.
Volendo, peraltro, tracciare un profilo di questo artista per quella che è stata la sua indole, ovvero la sua totale adesione, fino al tormento della ricerca intuitiva o almeno concettuale dell’”opera d’arte”, si chiede ora al cortese lettore di predisporsi ad entrare in un suo immaginario atelier e ad osservare, con una certa doverosa attenzione, l’universo dei suoi “oggetti”, eseguiti nei materiali i più vari e comunque assurti a singolari e significative opere d’arte.
Occorre solo un po’ di pazienza; ma, alla fine della “visita” di questo “ATELIER MANZONI” – se ne può esser certi – ci si sorprenderà con un senso di divertita, certamente, e di interrogativa ed estraniante soddisfazione. Prego, ci si accomodi, dunque, e con rispetto:
· 1950 – 1955: Paesaggi e ritratti del tutto tradizionali
· 1957: Quadri bianchi, senza colore (Achromes) (cosparsi di sostanza gessosa: vi compaiono solo linee geometriche)
· 1958: Tele leggere immerse in un miscuglio di gesso, colla e caolino (minerale argilloso). Sono tele con pieghe di diverse dimensioni (tele “grinzate”)
· 1959: 45 Corpi d’aria: comuni palloncini riempiti d’aria. Fiato d’artista: palloncini destinati ad essere gonfiati dall’artista stesso, sigillati e fissati su una base di legno. Tubi di cartone contenenti linee arrotolate di varie dimensioni, etichettate con l’indicazione della lunghezza, del mese e dell’anno di esecuzione
· 1960: Sfere di plastica destinate ad essere sostenute da getti d’aria. Cilindro di zinco ricoperto da fogli di piombo, contenente la linea più lunga (7200 metri. Sic!). Uova sode, firmate con l’impronta del pollice dell’autore, distribuite al pubblico e mangiate sul posto, in occasione della sua performance: la Consumazione dell’arte, dinamica del pubblico, divorare l’arte.Tele cucite a macchina, cotone idrofilo a quadri, cloruro di cobalto, polistirolo e vernice fosforescente
· 1961: Basi magiche: semplici piedistalli destinate a sostenere chiunque vi salga sopra elevandolo così ad opera d’arte. Certificati di autenticità rilasciati a persone “firmate” dall’artista. Scarpe destre firmate di Franco Angeli e Mario Schifano. Merda d’artista: barattoli del peso di 30 grammi ciascuna, da vendere ad un equivalente valore in oro. Socle du monde (Base del mondo): parallelepipedo in ferro e bronzo, capovolto al suolo per eleggere il mondo ad opera d’arte. Pallini di ovatta, fibre di vetro e fibre artificiali, peluche e paglia
· 1962: “Michette” milanesi (panini), sassi e pallini di polistirolo espanso, pacchi di carta da giornale o da imballaggio sigillati con corda, piombo e ceralacca. Cartella con fotolitografie.
All’uscita dall’Atelier, si è forse presi da un dubbio che frulla come un pensiero nero e che subito prende forma di domanda: «Ma l’arte dov’è?». Attenzione. E’ questo il punto esatto in cui occorre fare, come si dice, “mente locale” e non indursi nella facile tentazione di considerare ciò che si è visto – come direbbe lo stesso Manzoni – dei meri “giuochetti formali”. Quegli oggetti rappresentano, a doveroso e ben vedere, non muti simulacri di conati artistici frustrati, ma testimonianze ancora “parlanti” di una lucida ricerca nell’ambito di una teoria artistica da Manzoni perseguita con fede e tenacia nella sua pur breve esistenza.
Se non bastano a confermarlo le sue opere, che, nel loro susseguirsi, “percorrono” un tracciato definito e “pre-corrono” in anticipo alcune forme d’arte quali la relazionale, la concettuale e la body-art, soccorrono alcuni suoi scritti e, tra questi, in particolare, Libera dimensione (Testo pubblicato, in italiano, inglese e francese, in “Azimuth”, n. 2, Milano, 1960). L’ispirazione e la vivezza di questo lavoro rappresentano, forse, il versante più illuminato della querelle artistica di quegli anni. Manzoni scrive: « Il verificarsi di nuove condizioni, il proporsi di nuovi problemi, comportano, colla necessità di nuove soluzioni, nuovi metodi, nuove misure: non ci si stacca dalla terra correndo o saltando; occorrono le ali; le modificazioni non bastano: la trasformazione dev’essere integrale». Il piglio tipicamente giovanile dell’artista soncinese si fa sguardo acuto sull’allora “stato dell’arte”: a tutte le varianti possibili dell’astrattismo, del surrealismo, dell’iperespressionismo, Manzoni oppone le sue “ali” e suona la carica della “trasformazione integrale”.
E alla guida di questo novello movimento, non solo con le parole ma anche coi fatti, si pone, già dal 1957, lui stesso. Nell’autunno di quell’anno, infatti, realizza una serie di dipinti bianchi, che subito dopo, però, informa ed avverte che proprio “bianchi” non sono bensì Achromes, cioè “senza colore”: è l’annuncio clamoroso, anche per lui, della fine dell’immagine tradizionale. Di questa, infatti, sugli Achromes, non restano che delle linee geometriche appena rilevate. É già la “dimostrazione”, la “prova provata” di quanto meditata e profonda sia la sua riflessione sul necessariamente “nuovo” da additare nel panorama non solo italiano ma anche europeo. Queste opere fanno il paio, tra l’altro, con le Superfici (queste, però, sì “elaborate”) dell’amico Enrico Castellani. Ma è già l’annuncio, quanto mai imminente, del dissolvimento del “quadro”, ovvero del “quadrilatero” (telaio e tela), classico campo visuale dell’espressione pittorica.
Infatti di lì a poco: «Per questo io non riesco a capire i pittori che, pur dicendosi interessati ai problemi moderni, si pongono a tutt’oggi di fronte al quadro come se questo fosse una superficie da riempire di colori e di forme, secondo un gusto più o meno apprezzabile, più o meno orecchiato. Tracciano un segno, indietreggiano, guardano il loro operato inclinando il capo e socchiudendo un occhio, poi balzano di nuovo avanti, aggiungono un altro segno, un altro colore della tavolozza, e continuano in questa ginnastica finché non hanno riempito il quadro, coperta la tela: il quadro è finito: una superficie d’illimitate possibilità è ora ridotta ad una specie di recipiente in cui sono forzati e compressi colori innaturali, significati artificiali. Perché invece non vuotare questo recipiente? Perché non liberare questa superficie? Perché non cercare di scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di una luce pura ed assoluta?» (Libera Dimensione, ibidem).
D’ora in poi, nella produzione artistica di Manzoni non appariranno più “quadri”, ma oggetti e oggetti (come si è visto), anonimi arnesi nelle mani dell’artista, a cui non resta che la chiarificazione intuitiva, l’inventio.
Si tratta di una posizione suffragata anche da un pensiero filosofico col quale l’artista ha una certa dimestichezza: è il tempo più maturo dell’esistenzialismo (Marcel, Sartre, Camus, Heidegger), con le schierate avanguardie della “noia” e della “crisi esistenziale”, per le quali a soffrirne le ambasce è il singolo individuo alla ricerca di un “io” più consapevole del proprio “esserci” e del proprio “fare”.
All’annullamento fisico dell’immagine figurale si accompagna, inevitabilmente, la riduzione ontologica dell’artista. Giusta allora la riflessione di Manzoni: «L’opera d’arte trae la sua occasione da un impulso inconscio, origine e morte di un substrato collettivo, ma il fatto artistico sta nella consapevolezza del gesto; consapevolezza intuitiva, poiché tecnica propria dell’attività artistica è la chiarificazione intuitiva (inventio)… Consumato il gesto, l’opera diventa dunque documento dell’avvenimento di un fatto artistico» ( Testo firmato da Camillo Corvi-Mora, Piero Manzoni, Ettore Sordini, Giuseppe Zecca, 9 dicembre 1956).
Non si può lasciare il dire su Manzoni senza una nota succedanea relativa all’episodio a dir poco più “scomposto” della sua carriera, ovvero la sua neodadaista Merda d’artista.
Prima domanda: «Fu vera “gloria”?», cioè «Fu vera m…. quella contenuta nei novanta barattoli?». Possibile prima risposta: «Bastava aprire il barattolo», ma con ciò distruggendo l’”opera d’arte”. Nota a margine dell’amico Agostino Bonalumi: «Qualcuno vuole constatarlo? Faccia pure. Non sarò certo io a rompere i barattoli».
Cronaca divertente o scandalizzata a parte, è giusto ricordare che, dei 90 esemplari di Manzoni, il numero 4 si trova al Tate Modern di Londra, il numero 80 al museo del Novecento di Milano e il numero 12 al MADRE di Napoli. Si può anche dubitare che basti questo a fare del “lavoro” di Manzoni vera “opera d’arte”.
Ma dopo la Fontana di Duchamp (stesso clamore, stesso scandalo), perché non includere la “M….” tra le opere più significative della neoavanguardia italiana, se non altro per il suo portato innovativo, per il suo significato di condanna della mercificazione artistica e per la sua valenza d’arte relazionale e concettuale?
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