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LA CINA È (TROPPO) VICINA

L'invasione dei prodotti cinesi a basso costo e la miopia dell'occidente.

L'Italia si deve dotare di una Authority per difendere il nostro mercato e la nostra salute.

Agli inizi degli anni ottanta lavoravo nella finanza industriale e mi capitò l’occasione di conoscere un importante imprenditore comasco della seta che aveva chiesto di aprire un’istruttoria per un mutuo dedicato ad ammodernare ed ampliare la sua fabbrica.

Gli affari gli andavano bene e con orgoglio mi raccontò che persino un’equipe cinese era venuta da lui e, dimostrando una grande ammirazione per quanto aveva realizzato, aveva accuratamente visitato il suo impianto di stampa sui tessuti, prendendo appunti e fotografando tutto, lasciandolo poi con infiniti inchini e sorrisi di gratitudine.

Dopo poco più di due anni il suo stabilimento aveva chiuso, un capo confezionato con tessuto cinese di seta stampata veniva venduto in Italia a meno del costo della tela grezza; un gap commerciale che era impossibile sopportare.

All’epoca la reazione delle associazioni del settore tessile alla guerra con la concorrenza orientale fu quella di imporre l’etichettatura dei componenti dei tessuti su tutti i capi di abbigliamento. Tuttavia il provvedimento normativo fu attuato con un piccolo particolare a beneficio anche dei nostri operatori: non erano previste particolari sanzioni per la falsa indicazione dei componenti. Naturalmente non soltanto i produttori di cravatte di seta ringraziarono i politici però, da quel momento, la qualità degli articoli ebbe una brusca virata in favore delle microfibre sintetiche.

Anni dopo, con la famigerata “via della seta” (un attributo che sembra un’ironia dopo la premessa) tantissimi industriali del nord scoprirono che delocalizzare la produzione in Cina consentiva una produzione a costi bassissimi di mano d’opera e fiorirono le succursali e le sedi secondarie, da dove i loro prodotti arrivavano in Italia, nonostante i costi di trasporti triplicati, con un cospicuo margine aggiuntivo per gli imprenditori nostrani.

Cominciò in questo modo una migrazione tecnologica dalla nostra nazione alla Cina, nemmeno troppo sotterranea, di cui solo dopo decenni si cominciarono a comprendere gli effetti.

Si disse “è la conseguenza naturale della globalizzazione dei mercati”, ma il fenomeno cominciò a manifestare i propri effetti negativi quando i prodotti made in Cina cominciarono ad invadere l’Europa a prezzi pari ad un terzo dei nostri, dai casalinghi alla ferramenta e utensileria, dall’abbigliamento al piccoli elettrodomestici.

Ricordo ancora che quando, alle soglie del 2000, si parlò di rinnovare l’immenso parco di contatori elettrici in Italia, il colosso ENEL, allora quasi monopolista del settore energetico, decise di adottare il prodotto della Jabil (ditta americana con stabilimenti di produzione in Cina) perché costavano qualche dollaro in meno e si acquistavano senza IVA rispetto ai prodotti italiani. Peccato che l’indotto del prodotto nazionale (energetici, occupazione, contributi previdenziali sulla mano d’opera, fiscalità) avrebbe reso di gran lunga più conveniente una commessa italiana per il nostro Stato - anche in termini di PIL - ma in nome del libero mercato la scelta si orientò verso l’estero.

Il resto è storia recente; la Cina, spinta da un mercato interno capace di sostenere qualunque tipo di produzione, lanciò un programma di potenziamento di tutti i settori produttivi fino a diventare una potenza mondiale capace di contrastare qualunque competitor ma soprattutto diventando un partner commerciale da tenere sempre in considerazione se non da temere.

Spesso si sono alzati alti lai di dumping verso i prodotti cinesi, con accuse (veritiere) che il colosso orientale, pagando poco la mano d’opera in termini orari, con l’assenza di contributi previdenziali, inquinando a piacimento aria ed ambiente e non curandosi della sicurezza dei luoghi di lavoro, faceva concorrenza sleale con gli altri produttori mondiali ma nessuno ha mai voluto far nulla per il timore di contromisure.

Scartata la soluzione dei dazi, impraticabili nel libero mercato e fonte di sistematiche contromisure da parte dei cinesi, si è cercato in Europa di imporre direttive stringenti sui bandi internazionali che evitassero la concorrenza scorretta ma, attraverso sistematiche triangolazioni con ditte ed aziende distribuite nel modo, anche questa misura si è dimostrata inefficace (non si dovrebbe nemmeno citare il recente caso delle mascherine FCA prodotte interamente in Cina con prezzi aumentati dall’intermediazione).

Si assiste ad una sistematica debolezza del mondo occidentale nei confronti dei Cinesi che sa più di autolesionismo che di miopia. Basti pensare al fatto che il marchio della CE che doveva contrassegnare la produzione made in Europa e stato (ironicamente e sfacciatamente) imitato dall’identico marchio CE (China Export) senza che mai nessuno facesse nulla per evitare la confusione nel consumatore.

Ma il declino dell’industria italiana sotto i colpi dei prodotti cinesi non completa il quadro.

La Cina sta moltiplicando gli sforzi per acquisire hub portuali, aeroportuali e di logistica stradale per prepararsi le basi di una vera e propria invasione anche dei prodotti alimentari.

È noto infatti che le produzioni di scala per la grande distribuzione europea non possono essere affrontate da piccoli player e un gigante capace di trattare volumi 30-50 volte maggiori dei più grandi operatori europei avrebbe gioco facile nell’imporsi sui mercati occidentali, come ha già fatto nella fornitura dei beni industriali.

Da anni siamo sommersi da prodotti agricoli cinesi come pomodori, riso, aglio etc. Nel futuro si assisterà ad un’offerta di prodotti alimentari cinesi, anche attraverso l’offerta on line, destinati a far saltare la logica dei prodotti di nicchia e delle specialità DOP e DOCG. La vicenda del grano canadese al glifosato dovrebbe averci insegnato qualcosa; farà male ma costa tanto di meno!

Come difendersi? Ci rimane ancora poco ma qualcosa si può fare e nel segno della reciprocità e non ricorrendo ad inutili dazi economici.

La Cina ad esempio ha costituito la AQSIQ, un organo amministrativo ministeriale direttamente sotto il Consiglio di Stato della Repubblica popolare, responsabile della qualità nazionale, della metrologia, del controllo delle materie prime di entrata-uscita, import-export di sicurezza alimentare, certificazione e accreditamento, standardizzazione, nonché amministrativo-forze dell’ordine; una specie di NAS “al quadrato”.

Così un virus può uscire ma non può arrivare nulla in Cina senza il preventivo e puntuale controllo del loro ente. Tuttavia, se pensiamo che da noi sono arrivati dall’Ucraina bastimenti di grano radioattivo e ce ne siamo accorti dopo che la pasta, da cui era stata fatta, era già in distribuzione nei supermercati, lo sconforto è grande!

Il provvedimento necessario all’Italia è di carattere legislativo/normativo per garantire elevati standard di qualità ai prodotti importati dall’estero (specie se alimentari), pesantissime penali - come deterrenza - per chi non li rispetta e controlli veri e sistematici sull’import alimentare.

Una vera autority dotata di poteri specifici a difesa del nostro mercato e della nostra salute.

Solo in questo modo ci potremmo difendere dalla concorrenza sleale e/o dall’immettere sui nostri mercati prodotti pericolosi per la salute, scadenti o contraffatti.

Chi in Italia non volesse questo provvedimento, esclusa l’ipotesi dello stupido di professione, sarebbe probabilmente un operatore abituale della contraffazione alimentare e come tale da escludere da subito dal contesto operativo, alla stessa stregua di chi viene da lontano con gli stessi intenti.

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