Ha ragione Carlo Nordio, un magistrato di lungo corso che certo non ha peli sulla lingua, a scrivere che “la prima reazione emotiva alla pronuncia della sentenza di Palermo che ha stracciato anni di indagini devastanti per gli imputati, costose per la giustizia, e umilianti per il Paese, sarebbe stata quella di rivolgere ai magistrati che Sciascia definiva professionisti dell’antimafia le parole indirizzate da Cromwell al Parlamento, e che Leo Amery ripeté a Chamberlain dopo l’umiliante disfatta della Norvegia :”Troppo a lungo avete occupato quel posto per quel poco di bene che avete fatto.
Andatevene, e sia finita con voi.
In nome di Dio, andatevene”.
Di fronte al castello di accuse imbastite da un nucleo di Pm per sostenere un teorema giudiziario che ha lambito le più alte cariche delle Istituzioni, infangato la reputazione di eccellenti servitori dello Stato come i generali Mori e Subranni, il colonnello De Donno, coinvolto il senatore Dell’Utri, risultato del tutto estraneo alla vicenda, ma anche lui esposto come gli altri ad un terrificante fuoco di ignominie, al bombardamento mediatico di un giornalismo d’accatto abituato a fare copia-incolla delle veline diramate dalle Procure, dando per scontato quel che scontato non è e per definitivo un giudizio ancor prima che il percorso processuale fosse giunto a conclusione; ecco, di fronte a tutto questo, dire “Basta! Andate via!” è il minimo che si possa implorare.
Eppure, ne siamo certi, non accadrà nulla.
Quei Pm rimarranno al loro posto. Nessuno risponderà per il solo fatto di aver imbastito un processo così squinternato senza neppure portare a sostegno una prova degna di nota.
Proprio da questo punto vogliamo partire, per una analisi meno emotiva.
In attesa delle motivazioni della sentenza, quel che rileva è il fatto che il giudice di appello abbia riconosciuto come non reato la cosiddetta “Trattativa”.
Definirla tale, in verità, è stato già un grossolano errore, una forzatura. Secondo l’accusa, con la Trattativa lo Stato sarebbe venuto a patti con la mafia e avrebbe raggiunto un accordo, una sorta di do ut des: io, Stato, concedo a te, criminale, un regime carcerario più leggero e tu, mafioso, la smetti di ordire attentati contro politici, giudici, poliziotti e carabinieri.
La Trattativa come presupposto di uno scambio di favori. Sappiamo tutti che non è la prima volta, e neppure sarà l’ultima, in cui apparati dello Stato decidano di instaurare rapporti con ambienti criminali per venire a capo di questioni complesse e spinose, al fine di scongiurare danni maggiori. Ricordiamo casi clamorosi di “trattative” più o meno segrete.
Il caso Cirillo, esponente della Dc sequestrato dalle Brigate Rosse, per la cui liberazione lo Stato pagò il riscatto; il dirottamento della nave di crociera Achille Lauro, nell’ottobre 1985, compiuto da un gruppo di terroristi palestinesi che sfociò, poi, nella crisi di Sigonella, la più grave crisi diplomatica del secondo dopoguerra tra l’Italia e gli Stati Uniti.
Di Trattativa si parlò anche in occasione del sequestro Moro e sappiamo come andò a finire. Né sono mancati abboccamenti e scambi di denaro con organizzazioni terroristiche e banditi di ogni fatta, sia a livello internazionale che interno, quando sono state in gioco vite umane oppure è stata messa a rischio la sicurezza stessa dello Stato.
Insomma, da che mondo è mondo, gli apparati dello Stato si muovono in questa direzione, con oculatezza e la segretezza necessaria.
Quel che conta è il risultato. In questa circostanza sono finiti sul banco degli imputati funzionari di altissimo profilo come il generale Mario Mori, capo dei Ros, artefice dell’arresto di Totò Riina, ossia del capo dei capi di Cosa Nostra. E si è inflitta una gogna giustizialista al senatore Dell’Utri, il quale nella questione non c’entrava nulla, tirato in ballo con l’evidente obiettivo di coinvolgere nell’affaire Silvio Berlusconi.
Ora, finalmente, si è palesato, anche a Palermo, un “giudice a Berlino” e i contorni della questione sono stati chiariti sul versante della legittimità dei comportamenti assunti dagli imputati. Recuperata la loro onorabilità scalfita, ci chiediamo se e quando gli italiani potranno sentirsi definitivamente al riparo dalle scorribande giustizialiste, e molto spesso ideologiche, di una certa parte della magistratura che ha fin qui procurato enormi danni di immagine al Paese e distrutto la vita di tante persone perbene.
Il pensiero corre anche a Bruno Contrada, a capo della Criminalpol di Palermo all’epoca della strage di via D’Amelio dove morì in un attentato il giudice Paolo Borsellino. Condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti accaduti quando questo reato non era neppure previsto nel codice penale, lo Stato italiano è stato chiamato dalla Corte europea dei diritti umani a risarcirlo per i danni morali subiti e a procedere alla revisione del processo.
Processo culminato, nel 2017, nella sentenza della Cassazione che ha dichiarato “ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza di condanna”, accogliendo di fatto la pronuncia dei giudici di Strasburgo.
Ora che sul piano del diritto i fatti hanno trovato la loro corretta interpretazione, resta aperta, ripetiamo, la domanda iniziale: perché si è incardinato e lasciato durare così a lungo un processo che non si teneva in piedi in alcun modo e si è permesso che il fango travolgesse impunemente quegli apparati dello Stato che avevano la sola colpa di aver fatto il proprio dovere?
Per quanto si fatichi a cercare una logica in questo affastellarsi di congetture, ipotesi farlocche, disgustose confessioni di pentiti artatamente costruite per sostenere l’accusa, di raccapriccianti reportage giornalistici e televisivi a sostegno degli Ingroia, Di Matteo, Terensi, Tartaglia, ossia della pletora dei Pm che con tanta alacrità hanno condotto le indagini e costruito i dossier, troviamo soltanto una spiegazione.
Per inciso, per alcuni di loro, tanto per rammentare a chi lo avesse dimenticato come funziona il “sistema Palamara”, si sono aperte folgoranti carriere politiche grazie a questo processo.
Se la Trattativa si è rivelata una colossale bufala giudiziaria è perché quelle indagini e quei dossier erano ispirati dalla ossessione di storicizzare il connubio Stato-mafia, imprimendo un marchio di infamità e la vergogna del tradimento ai protagonisti di un’epoca segnata dal sangue di tanti innocenti. Si sono deliberatamente politicizzati fatti che, invece, andavano osservati sotto altra luce e da ben differenti angolature.
Ai giudici compete la ricerca della verità e garantire la giustizia. Un compito alto, nobile, arduo. Qui si misurano le dimensioni della loro missione e della stessa convivenza civile. Non spetta ai giudici scrivere la storia. Questo ha voluto ricordare la Corte d’appello di Palermo. Ed è un messaggio luminoso nella notte della giustizia.
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