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Immagine del redattoreSilvano Moffa

Regione Lazio: sanità e rifiuti, i tasti dolenti

Le elezioni regionali del Lazio sono alle porte e vale la pena cominciare a tracciare il consuntivo della gestione Zingaretti.

Uscito di scena con qualche mese di anticipo per imboccare il portone di Montecitorio, l’ex presidente della Pisana lascia dietro di sé una situazione amministrativa e finanziaria tutt’altro che positiva.

La Regione Lazio è pesantemente indebitata.

Ha contratto mutui con banche e istituti finanziari che si scaricheranno sulle generazioni future e con cui dovranno fare i conti i prossimi amministratori.

In termini di addizionali, la fiscalità regionale ha toccato livelli estremi, costringendo i cittadini a un surplus di tassazione che non trova eguali nella Penisola. Insomma, altro che rose e fiori.

Nella narrazione che ha accompagnato Zingaretti in questi ultimi tempi c’è una certa propensione ad edulcorare la pillola, facendo apparire bianco quel che è nero.

Prendiamo due settori: la sanità e la gestione dei rifiuti.

Nel 2019 la sanità della Regione Lazio è uscita dal commissariamento.

La cosa è di per sé positiva.

Mai nella storia repubblicana avevamo assistito ad un commissariamento così pervicacemente reiterato nel tempo e per di più affidato nelle mani della stessa Regione che ne era responsabile a causa di scelte sbagliate, comportamenti omissivi, gestioni allegre delle risorse.

Ma è sufficiente il superamento del regime commissariale per abbandonarsi in lodi sperticate nei confronti di Zingaretti e del suo assessore D’Amato, candidato dal Pd ad assumerne l’eredità?

Vediamo. Secondo i dati del Ministero della Salute, nel 2011, il Lazio aveva complessivamente 72 strutture di ricovero pubbliche. Sei anni dopo, nel 2017, sono scese a 56, con un saldo negativo di 16 strutture. In particolare, nel 2011 il Lazio aveva 46 ospedali a gestione diretta, nel 2017 appena 33. A Roma, il Forlanini, il Santa Maria della Pietà, il San Giacomo hanno chiuso. Il San Filippo Neri, il Sant’Eugenio e il San Camillo sono stati ridimensionati. Si tratta di nosocomi storici, alcuni dei quali altamente specializzati. Come il Forlanini, eccellente luogo di cura per le infezioni polmonari tra i più prestigiosi d’Europa, lasciato morire nonostante la straordinaria lotta per la sua sopravvivenza condotta dal professor Massimo Martelli, un luminare del settore.

Per non parlare del numero esorbitante di ospedali chiusi o depotenziati nelle province. Paradossale il caso di Colleferro, comune che ho avuto l’onore e l’onere di guidare per più di un mandato tra gli anni Novanta e i primi del Duemila. Il centro è importante per la sua collocazione geografica, tra Roma e Frosinone, per il bacino di utenza particolarmente vasto e per le aree interne, oltre che per la sua vocazione industriale e logistica. Dopo averne scongiurato la chiusura e aver realizzato un ampliamento consistente della struttura ospedaliera, vocata a diventare DEA di primo livello, dotandola di moderne sale operatorie e un pronto soccorso all’avanguardia, il nosocomio è stato progressivamente depotenziato e privato dei reparti essenziali, come quelli di neonatologia, pediatria, ostetricia, ginecologia. Il caso di Colleferro non è il solo, purtroppo.

Basta fare un giro nella regione per rendersi conto di quanto sia stata pesante la scure di Zingaretti e iniqui i tagli inferti alla sanità pubblica.

Secondo alcuni studi, negli ultimi dieci anni in Italia sono stati sottratti al sistema sanitario circa 40 miliardi di euro e persi oltre 25 mila posti letto per degenza ordinaria nelle strutture di ricovero pubblico. Nel Lazio si è toccata la cifra di 3.700 posti letto in meno, una dotazione media di 2,9 posti letto per mille abitanti, nettamente al disotto della media del 3,7 prevista per legge.

Un disastro. Per non parlare delle liste d’attesa che si sono dilatate del 90 per cento. A fronte di questo disfacimento del settore pubblico, la “cura” Zingaretti ha fatto bene ai privati.

Ciò è davvero paradossale se si pensa che i fondi sanitari sono garantiti da una quota consistente di denaro pubblico sotto forma di spesa fiscale e che buona parte di questa alimenta business privati. In sostanza siamo sempre noi cittadini a pagare la sostituzione del sistema pubblico con quello privato.

Il termine “sostituzione” è tutt’altro che improprio. Questo, in effetti, è il punto centrale. Qui nessuno vuole infierire contro la sanità privata. Ma sta di fatto che da complementare essa è diventata sostitutiva di quella pubblica. L’esternalizzazione ha spesso fatto registrare la rinuncia del pubblico a svolgere funzioni che pure avrebbe potuto garantire. Il tutto finanziato con i soldi dei contribuenti. Vi sembra normale?

Il quadro complessivo è reso più fosco dalla mancanza assoluta di una politica regionale tesa a potenziare il presidio territoriale costituito dai medici di famiglia.

Su questo versante si registra un calo di circa il 7 per cento nel numero dei medici di base e una cronica mancanza di dialogo, rapporti e scambi di informazioni tra medici di famiglia e medici ospedalieri, con le conseguenze che non è difficile immaginare per il malato e l’efficacia complessiva del sistema di assistenza. In Italia abbiamo, peraltro, la percentuale di medici più anziana d’Europa. Il Lazio non è da meno. Se raffrontiamo la nostra situazione con altri Paesi europei, come la Francia e la Germania, scopriamo ritardi e svantaggi preoccupanti. Contiamo 80 medici di famiglia per 100.000 abitanti contro i 100 in Germania e i 140 in Francia. In un recente articolo su Il Corriere della Sera Giuseppe Lauria Pinter ha ricordato come le liste di attesa siano associate alla disponibilità dei servizi erogati essenzialmente dagli ospedali pubblici. Ne consegue che il problema debba essere affrontato considerando il rapporto tra domanda e concreta possibilità di offerta in termini di densità di personale (non solo medico) al netto di quantità e qualità delle prestazioni stabilite e controllate. In assenza di disponibilità entro termini ragionevoli, i cittadini si rivolgono al privato e questo spiega il fatto che la nostra spesa per le cure private è tra le più elevate d’Europa.

Insomma, se non si mette mano ad una rivisitazione dell’attuale modello le cose non potranno che peggiorare.

I dati ci dicono che dove si è affermata e valorizzata l’integrazione tra pubblico e privato, come in Francia e Germania, si sono ridotte la spesa individuale e le liste d’attesa. Superare la contrapposizione tra pubblico e privato, a cominciare dal Lazio dove i fenomeni illustrati appaiono più acuti, per imboccare la strada di una compartecipazione pubblico-privata corretta ed efficace, è la strada maestra per correggere le storture della attuale gestione.

Ora veniamo al capitolo dei rifiuti, altra nota dolente.

Il piano rifiuti elaborato dalla Regione, come si sa, non prevedeva impianti di termovalorizzazione né contemplava soluzioni alternative capaci di risolvere un problema che si trascina da anni e che vede la Capitale costantemente in emergenza e le restanti province del Lazio alle prese con elevati costi di gestione, tariffe pesanti e scarsa efficienza del servizio prestato.

I poteri commissariali affidati dal governo Draghi al sindaco Gualtieri, fautore dell’impiantistica, sono serviti da un lato a liberare Zingaretti dall’imbarazzo e dall’altro per impostare un piano rifiuti diverso. Resta la singolarità, per non dire altro, di voler costruire un termovalorizzatore nella Capitale il cui costo , secondo le dichiarazioni dello stesso sindaco, si aggirerà intorno ai 600 milioni, quando ne erano stati impegnati poco meno di una decina per il revamping di quello di Colleferro, inopinatamente chiuso dalla Regione dietro pressione dello stesso sindaco del comune della valle del Sacco il quale, in barba alla coerenza e smentendo se stesso, ha sostenuto a Palazzo Valentini, sede della Città metropolitana, il “piano Gualtieri”. Come dire: il Termovalorizzatore è una ricchezza per Roma, non per Colleferro. E siccome non tutte le ciambelle vengono con il buco, ecco arrivare un’altra tegola che rischia di provocare molti più danni di quanto se ne potessero immaginare. Eh sì, perché sono state già avviate dalla Regione Lazio le procedure per lo smantellamento del Termovalorizzatore pubblico di Colleferro (a quanto pare, sarà impiantato da un privato nel Nord Italia) per far spazio ad un mega impianto di biodigestione. Di che cosa si tratta? All’interno del giornale dedichiamo un approfondimento tecnico al tema, cercando di spiegare le ragioni che collidono con l’idea di realizzare un impianto di tal fatta nell’area dove insiste il termovalorizzatore dismesso. Qui ci limitiamo a osservare come il mega impianto di trattamento meccanico-biologico di rifiuti umidi richieda spazi consistenti, tra i 20 e i 25 ettari, per la collocazione di serbatoi, silos, capannoni, tettoie, vasche, edifici, piattaforme tecniche, strade, piazzali. Per non parlare dell’imponente volume di camion “bilici” che attraverseranno in entrata e in uscita il centro urbanizzato. Se nel biodigestore saranno convogliate 500 mila tonnellate di rifiuti all’anno, si calcola che dovranno essere impiegati almeno 120 camion al giorno. Non ha senso localizzare in un centro abitato impianti così imponenti. Soltanto per fare un raffronto, nel termovalorizzatore esistente, e ora chiuso, confluivano ogni giorno 40 camion. Peraltro, i mezzi trasportavano il Cdr, ossia un derivato dal rifiuto del tutto inodore, e non il rifiuto tal quale, ossia sostanza organica da smaltire.

Il caso di Colleferro non è il solo che configura la malagestio del sistema dei rifiuti nella Regione governata da Zingaretti. Non sfugge il costo inaudito che i cittadini laziali continuano a subire per la mancanza di una programmazione adeguata oltre che per la chiusura di discariche ancora capienti e la cancellazione degli impianti di Abano e di Malagrotta. Vale la pena ricordare che quando Zingaretti si è insediato, nel 2013, il piano regionale rifiuti prevedeva 4 impianti di termovalorizzazione: due in funzione, quelli di San Vittore e Colleferro, quello di Malagrotta, in costruzione, e quello di Albano, per il quale c’era l’autorizzazione a costruire. Oggi ce n’è uno solo, quello di Acea a San Vittore.

Zingaretti prima ha cancellato dal piano quello di Albano, poi ha chiuso quello di Colleferro, di proprietà della Regione e di Ama, e, infine, ha tolto di mezzo anche quello di Malagrotta, che è terminato, potrebbe entrare in funzione e produrre idrogeno. Intanto, i rifiuti del Lazio continuano ad alimentare impianti esistenti fuori regione e all’estero. Dal danno la beffa. I rifiuti che portiamo altrove, pagando cifre da capogiro per smaltirli, producono energia che riacquistiamo a caro prezzo. E’ un’idiozia.

Altro che scelte lungimiranti!


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