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Luigi Musacchio

Richter, il dipingere dopo tutto


Gerhard Richter

"Painting after all” (Dipingere dopo tutto), è la massima, il memento e la fede di Richter (1932) nella pittura. Una tale dichiarazione di fede-amore nei confronti di un’arte, tra l’altro da Richter considerata tra le qualità innate dell’uomo, richiamerebbe – se non fosse per il grumo di tempo e significato che le separa – quella altrettanto significativa di Leonardo, che alla pittura riconosceva il primato nella rappresentazione, la più verosimile, della realtà. Ciò detto, va, altresì, riconosciuta all’affermazione di Richter un valore aggiunto, rinvenibile – è facile intuirlo – in tutta l’oggettività e in tutto il significato della parola “immagine”. E qui arriva subito l’urgenza di affermare che non si tratta, poi, tanto dell’immagine “classica”, quanto, piuttosto, di “quella”, sorprendentemente nuova, scaturita – con tutto il suo potenziale nel mondo della comunicazione multimediale – dall’invenzione della fotografia. Si potrebbe parlare, in questo caso, di “Galassia Gutenberg 0.2”, o, forse meglio – per le molteplici espansioni ed applicazioni cui la medesima invenzione è pervenuta – più propriamente di “Galassia Bill Gates”.

Non si vuole, di proposito, neppure ripetere per cenni la storia della “realtà virtuale”, della “realtà aumentata”, di quella “immersiva” e, da ultimo, l’iperstoria del “metaverso”; ma occorre farsene e darsene una ragione: l’arte, nelle sue più diverse accezioni, poteva restare immune o indifferente di fronte a questi sconvolgimenti di portata rivoluzionaria? Ancora una volta, l’intuizione di un artista apre il sipario delle suggestioni futuristiche collegate alla fruizione, presente e “futura”, dell’immagine. Questo artista, Gherard Richter, interrogandosi – è qui la “trovata” – sull’ipotesi che la pittura non poteva restare celebrata solo negli annali della storia dell’arte, “ripesca” e opportunamente rivisita e rielabora questa “immagine” sotto l’”illustre” specie della pittura – sì, proprio quella dell’arte con tela e pennello – e, in una tenace e indefessa “pratica quotidiana”, secondo la testimonianza del critico Hans Ulrich Obrist , la eleva a espressione geniale, degna di continuare, anche nel secolo XXI, la connaturata attitudine umana, già presente nelle incisioni rupestri, della narrazione del proprio tempo, intrisa di bisogni, ansie e speranza.

Richter, allora, non perde tempo e, già dall’età di sedici anni, lo si vede preso dal lavoro come praticante pubblicitario e come pittore di scenografie teatrali. È il suo battesimo nell’arte: a 32 anni, nel 1964, può vantare la sua prima personale di pittura presso la Galleria Schmela di Düsseldorf, fino all’allestimentno, nel 2002, della quarta retrospettiva 40 Years of Painting.

Occorre, però, mettere più a fuoco il suo itinerarium ad picturam. Si direbbe che gli inizi lo vedono come un instancabile collezionista di fotografie che, a tutt’oggi, raccolte nella enciclopedica Atlas hanno raggiunto il corpus di oltre 5000 immagini, successivamente raccolte in 700 Fotobilder (quadri fotografici) tematici. La sua cura collezionistica presenta, naturalmente, un risvolto significativamente rivelatore della sua vena artistica. Richter vuole riconoscere alla realtà la sua primordiale e primaria importanza: niente, allora, più della fotografia può realizzare questa aderenza al reale e la fedeltà alla sua rappresentazione. Da questo punto di vista, la fotografia, nella sua multiforme collocazione si propone come testimone, occhio specchiante, di paesaggi naturali, di nature morte, di ritratti di uomini illustri come di amici e familiari, di scene pornografiche, di vicende terroristiche (la Brigata Baader-Meinhof), come, delle più raccapriccianti visioni dei lager nazisti.

Le fotografie pongono dunque all’artista l’”occasione” di vedere la realtà non necessariamente secondo un ordine di importanza precostituito e, di più, lo sollevano dalla “fatica” dell’inventare. Da qui, egli trae quella che è vista come la sua “cifra” personale: la fotografia, ancella fedelissima nella riproduzione di immagini reali, integra una visione che Richter sintetizza e ripropone “a strati” di colore. In tal modo quella prima visione, offertasi come un ready-made, un oggetto già pronto all’uso, si fa e diviene motivo di elaborazione pittorica secondo tecniche affatto personali (e rimaste per lo più segrete). L’arte di Richter consiste in questa “elaborazione”, che può partire dalla raffigurazione più vicina alla pittura tradizionale (soprattutto avvalendosi di una squisita tecnica della sfocatura) per arrivare a risultati, mai troppo sorprendenti, di pittura astratta.

Il “teatro” delle sue pitture tradisce l’estemporaneità delle medesime fotografie, che – occorre ricordarlo, per un pittore nato a Dresda e vissuto interamente in epoca hitleriana – non lesinano scene di guerra e, come si è detto, immagini dei famigerati lager. Trasfuse in pittura, queste fotografie, come in Mustang-Staffel (Squadrone di Mustang), acquisiscono forse un alcunché di più “degno” nell’essere rappresentate: come se la pittura conferisse loro (alle fotografie) quella “nobiltà” a cui possono solo aspirare essendo di per sé, sempre, meri “effects” di un semplice “clic” tecnologico. A questo insperato blasone, la pittura aggiunge alla fotografia un’alea di “immortalità” e di “spettacolarità” a cui il fotogramma non pare in grado di pervenire.

Domanda: «In questo modo, tuttavia, Richter, trascurando di riportare nelle sue opere gli elementi propri della pittura (forma, armonia, spazialità, bellezza in sé) non ne provoca anche la fine?». Possibile, congrua risposta: «Di quella certa pittura, sì. Ma incarna anche la sua resurrezione, la sua reinvenzione, in modalità inusitate, sempre suggestive».

Tutto ciò non impedisce, tuttavia, ai critici dell’avanguardia debole (parente strettissima del pensiero debole) di vedere in artisti quali Pollock, Kooning, Motherwell, Newman, nello stesso Richter, maldestri tentativi di “sortite creative”, di un’indebita appropriazione del “visibile” sotto forma di inette forme rappresentative. Alla fine, sui muri della storia dell’arte contemporanea vengono affissi manifesti funerari con un’unica scritta: “La pittura è morta”. E il più malvagio soggiunge tra i denti: «E non da ora, ma dai cubisti, futuristi e dadaisti delle prime avanguardie».

A tal riguardo, può risultare illuminante una querelle tra Cesare Brandi e Dino Buzzati, riportata dallo studioso Vincenzo Trione: «Nel 1968 il critico osservava: «La pittura non esiste più e i pittori che continuano a dipingere con i pennelli sono come i “numeri in ritardo” del lotto». La replica di Buzzati: «Sono convinto che fra non molto si tornerà precisamente alla pittura dipinta; e che sui giochetti oggi di moda si faranno belle risate». A ben vedere la “pittura dipinta” non è ancora tornata e non pare neppure di avvertire scrosci di risate.

Talché non resta che guardare e ascoltare intorno. L’arte, appannaggio dell’uomo, non può autoestinguersi; ma, come l’araba fenice, è in grado di risorgere dalle sue stesse ceneri. Ovvero, è possibile ancora credere nella folta schiera di artisti, che giocano nel campo largo dell’immaginazione, e che, affaccendandosi nelle modalità a loro più consone, interrogano il “visibile” nel tentativo – o, meglio, nella speranza – di carpirne i presagi e, forse, anche i più reconditi messaggi rivolti al futuro.



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