Il ventesimo Congresso del Partito Comunista consacra la presidenza dell'uomo più forte di Pechino.
Tracciata la strategia di egemonia mondiale e di conquista dei mercati internazionali. La questione di Taiwan.
Si è aperto domenica 16 Ottobre il ventesimo Congresso del Partito Comunista cinese.
L’appuntamento quinquennale è di altissimo valore politico e simbolico e, di fatto, decide la linea politica cinese interna ed esterna degli anni a seguire.
Quest’anno il “conclave rosso” riscriverà in un certo senso la storia della Cina, visto che sarà soprattutto ricordato per aver inaugurato il terzo mandato di Xi Jinping, rendendolo il leader più potente dai tempi di Mao Zedong.
Nel corso dell’ultimo Congresso Nazionale infatti, nell’ottobre 2017, il Presidente della Repubblica popolare cinese, aveva già consolidato la sua politica di accentramento dei poteri, emendando la Costituzione ed eliminando il vincolo dei due mandati per la carica di presidente della Repubblica Popolare.
Nella sua persona sono concentrate contemporaneamente le tre cariche più importanti dello stato, essendo a capo della Commissione militare centrale, Segretario generale del Partito Comunista e Presidente della Repubblica Popolare, avendo perciò il controllo sia degli affari economici che delle decisioni in materia di politica estera.
Con la sua rielezione si aprirà una fase epocale della storia cinese, che ha visto nei dieci anni passati sotto la presidenza di Xi un progressivo slittamento da una presidenza collegiale a quella di un leader onnipotente con un incarico teoricamente a scadenza illimitata, visto che di fatto, non ha annunciato alcun programma per la sua successione. Non è un segnale da poco.
I circa 2300 membri selezionati del partito – che rappresentano i suoi 95 milioni di iscritti – sono stati convocati nella Grande sala del popolo, la sala del palazzo di piazza Tiananmen a Pechino, dove si svolgono le attività più importanti del partito.
Hanno deciso chi saranno i nuovi nomi che copriranno le cariche intermedie e chi rimarrà a far parte della cerchia più ristretta di Xi Jinping.
La struttura piramidale dell’Assemblea Nazionale del popolo, quale organo supremo del potere dello stato, prevede la presenza di circa 400 membri del Comitato centrale d’élite del PCC, fra cui i venticinque membri del Politburo e il gruppo super ristretto del Comitato permanente, composto da un massimo di nove uomini. Sono loro che formano l’organo decisionale più importante cinese, dopo il segretario generale, e di cui si attendevano i nuovi nomi e le riconferme.
L’attesa più grande è anche quella che riguarda il nuovo premier, che sostituirà l’uscente vice segretario generale, Li Keqiang, che ha già alle spalle due mandati e ora è ufficialmente fuori anche dal Comitato centrale. Come spiega Giulia Pompili per Il Foglio, la scelta più probabile sembra ricadere proprio sul fedelissimo di Xi, Li Qiang, portando un enorme segnale di continuità nella classe dirigente, ma che al tempo stesso dovrà fare i conti con il lascito della politica di ferreo lockdown portata avanti durante la pandemia, che ha causato non poco malcontento tra la popolazione, oltre al problema economico.
L’altra ipotesi precedentemente messa in conto verteva sull’attuale vicepremier Hu Chunhua, la cui nomina avrebbe potuto mostrare la volontà di Xi di scendere a compromessi con l’altra fazione del partito.
Questa scelta rappresenta effettivamente il barometro che da indicazione di quanto margine di manovra avrà Xi e quanto invece avrebbe potuto cedere alle varie fazioni rivali.
Opposizioni in realtà già bloccate in partenza, vista la recente repressione sfrenata di alti funzionari, travestita da operazione anti corruzione da parte del partito.
Il Congresso appare sempre di più una cerimonia di consolidamento del potere di Xi, il cui tentativo (vincente) è quello di circondarsi il più possibile di fedelissimi e di trattare ogni rivale politico come vero e proprio traditore.
Una vera e propria “tolleranza zero” a più ampia estensione.
D’altra parte, il punto chiave del discorso di apertura della cerimonia è stata la sicurezza, termine nominato ben 50 volte, subito seguito da “sfide” e “rischi”.
La priorità cinese è chiara, e non sorprende: portare un’unità politica dentro e fuori il Paese, allontanandosi dalle mire puramente economiche e di sviluppo perseguite in passato.
D’altronde, malgrado l’ascesa della potenza cinese degli ultimi dieci anni, rimangono aperte tante domande a cui il Presidente dovrà dare una risposta. Primo fra tutti il rallentamento economico, esacerbato dalla politica zero Covid che tuttora Pechino non accenna ad abbandonare, promuovendo un Paese sempre più chiuso nei confronti del mondo esterno. La stessa “via della seta”, (la Belt and Road Initiative) dopo il grande boom iniziale ha visto l’interesse internazionale man mano scemare, un po’ per la contro risposta statunitense degli anni di Trump, che ha cercato di contrastare l’espansionismo economico cinese in termini di influenza internazionale, un po’ perché Pechino non ha saputo mantenere le promesse di uno sviluppo economico condiviso con i Paesi che ricevevano i suoi investimenti.
C’è il problema di sicurezza territoriale, che include chiaramente Taiwan, progetto di “riunificazione” a cui Xi non vuole rinunciare, a costo di prendere “tutte le misure necessarie per fermare i movimenti separatisti”.
Se effettivamente si faccia riferimento ad un’invasione vera e propria non possiamo ancora dirlo, ad oggi l’opzione più probabile rimane quella dello stritolamento economico sull’isola.
C’è la questione dell’amicizia “senza limiti” con Putin, amicizia che in un certo senso sta diventando un po’ stretta. Se alla fine di febbraio i piani di Mosca potevano far comodo alla Cina, che è stata ad osservare e ad organizzare i suoi piani politici per gli anni a venire (non per ultimo il Congresso stesso), adesso l’imprevedibilità di Putin inizia a non essere troppo gradita. Se non fosse che Pechino non può ancora abbandonare completamente l’appoggio della narrativa russa, soprattutto letta in chiave anti statunitense e di contenimento della visione occidentale, che continua – dal punto di vista orientale – a promuovere un atteggiamento aggressivo e una mentalità “da guerra fredda”. Dal canto nostro, è vero che dovremmo aumentare gli sforzi per coinvolgere la potenza cinese in rapporti più positivi, tornare a trattarla prima come concorrente economico e non solo demonizzarla come rivale politico.
Il problema è che possiamo fare solo supposizioni e ognuno può dire un po’ la sua su questa partita.
Il nostro rischio è quello di sapere sempre meno e non avere i mezzi di contrastare questo potere che, seppur più lentamente, continua ad avanzare. Specialmente dopo la pandemia, la leadership cinese sta promuovendo una politica di segretezza che non solo limita l’accesso alle informazioni, ma sta portando il Paese stesso verso una chiusura sempre più netta. Spiega Simone Pieranni – esperto di Cina e fondatore di China Files, agenzia editoriale – che è come se la Cina stia cercando un consenso internazionale per dimostrare al mondo che può proporre un modello alternativo ma autonomo di ordine.
Questo è pericoloso non soltanto per la crescita culturale ed economica cinese, che vedrebbe un arretramento inevitabile, ma soprattutto per l’acutizzarsi di quei sentimenti nazionalisti latenti che – la storia ci insegna – aumentano di molto il rischio implosione.
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