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Aleksej Navalny, assassinio di un eroe



"Vladimir Putin ha ucciso mio marito”, ha affermato in un video, da Bruxelles, Yulia Navalnaya, la moglie di Aleksej Navalny, l’ex blogger russo finito dai sicari del Cremlino, nell’estremo nord della Siberia, dopo persecuzione e stenti dal dicembre scorso nella prigione oltre il Circolo Polare Artico, dove non c’è vita, ma solo desolante solitudine circondata da  - 40 gradi di temperatura.  Ed ha continuato:  “Nell’uccidere Aleksei, ha ucciso metà di me, metà del mio cuore, metà della mia anima.

Ma ho ancora l’altra metà e questa mi dice che non ho alcun diritto di mollare. Continuerò l’opera di Aleksej Navalny, continuerò a lottare per il nostro Paese».

La Russia è ancora più fredda in questi giorni di dolore. Nessuno ha la libertà di ricordare con un fiore l’eroe caduto in un gelido gulag, certamente avvelenato dopo stenti e lunghi giorni di isolamento,  o è accadeva nell’Urss di Stalin e di Brezhnev.

Le similitudini sono impressionanti.

E Putin, per quanto si guardi bene dal rivendicarlo, è un gangster comunista, allevato nei “confortevoli” istituti dove si forgiava la classe dirigente di criminali politici: i “migliori” magari diventavano agenti del KGB, come l’attuale satrapo del Cremlino che si appresta tra poche settimane a ridiventare presidente della Federazione Russa,inevitabilmente con un plebiscito pilotato.

Ma tutti ricorderanno che Aleksei  Anatolevich Navalny è morto da eroe. Laddove neppure i lupi latrano. Si è spento durante l’ora d’aria, il 16 febbraio scorso, avvelenato dal Novichok, come altri dissidenti prima adì lui, accasciandosi sul suolo ghiacciato.

Vani sono stati i tentativi di rianimarlo, sia nel carcere che lo ospitava e trentasette minuti dopo in ospedale dove è arrivato con una flebo infilata nel braccio. Una morte tutt’altro che improvvisa. L’hanno ucciso, poco per volta, iniettandogli dosi massicce di veleno,  con le insopportabili condizioni nelle quali lo avevano ridotto,  con il freddo polare della sua piccola cella di 3 metri per 2. Un omicidio programmato. Come tanti altri, a cominciare  da quello della giornalista Anna Politovskaja.

In un primo tempo aveva trovato un rifugio sicuro in Germania, ma non se la sentiva di stare lontano dalla sua Russia per quanto dominata da una gang di assassini guidata da un uomo che ritiene di essere uno statista, invece è un vecchio manutengolo dei servizi segreti in pensione, sia pure dorata, il cui divertimento è assassinare popoli come i georgiani, i ceceni, gli ucraini; appropriarsi di Donbass e Crimea; sorvegliare i dissidenti, perfino quelli vicini al suo entourage.

Navalny si era scelto Vladimir Putin come competitore.

Perché aveva scorto nel capo del Cremlino il satrapo che non si arrestava contro niente e nessuno pur di tenere in scacco il suo stesso popolo e minacciare quelli vicini che finge di trattare come “amici”.

“Questo regime e Vladimir Putin hanno personalmente la responsabilità di tutte le cose terribili che hanno fatto al nostro Paese, alla mia famiglia e a mio marito”. Così Yulia, la moglie di Navalny. E quante altre mogli potrebbero dire lo stesso?

Navalny era un nazionalista, un tradizionalista, un patriota che non poteva vivere lontano dalla sua terra dove era tornato sapendo che la vita sarebbe stata dura e breve.

Di questi oppositori al mondo ve ne sono pochi, ma quando emergono sanno farsi riconoscere nella maniera più clamorosa: con la morte eroica.

Ed il mondo, per quanto distratto, dovrebbe considerarli come avanguardie della libertà e nemici della tirannia.

Perseguitato a lungo, arrestato, detenuto, esiliato, costretto ad abbandonare la sua Patria, sia all’estero che in Russia Navalny ha fatto sempre sentire la sua voce attraverso il blog che animava dal quale le denunce di corruzioni e crimini addebitati alla cricca del Cremlino erano all’ordine del giorno.

Il compromesso non faceva per lui.

A lui era destinata la tetra e gelida prigione  di Kharp, nella Siberia del Nord, probabilmente ucciso da un ictus provocato da un’embolia arteriosa, come hanno scritto i giornali, ma neppure su questo vi è certezza almeno fino a quando non sarà effettuata l’autopsia ed il corpo che la madre attende che le venga restituito.

Ma c’é anche chi dice che sia stato ucciso a sangue freddo: notizie che fuoriescono, in maniera contraddittoria,  dalla colonia penale IK-3 a tutti nota   come «Lupo polare» dove Navalny era arrivato a Natale da un luogo non certo più ameno. Avrebbe potuto fare sue le parole di Anna Politkovskaja:  “Ma, alla fine, che cosa avrei combinato? Ho scritto ciò di cui sono stata testimone. E basta. Sorvolo espressamente sulle altre “gioie“ della strada che mi sono scelta.

Il veleno nel tè. Gli arresti.

Le lettere minatorie.

Le minacce via Internet e le telefonate in cui mi avvertono che mi faranno fuori. Quisquilie. L’importante è avere l’opportunità di fare qualcosa di necessario. Descrivere la vita, parlare con chi ogni giorno viene a cercarmi in redazione e che non saprebbe a chi altri rivolgersi. Dalle autorità ricevono solo porte in faccia: per l’ideologia al potere le loro disgrazie non esistono, di conseguenza neanche la storia delle loro sventure può trovare spazio sulle pagine dei giornali”.

La Politkovskaja, animatrice di  “Novaja Gazeta”, assassinata nel 2006 dai gangster del   Cremlino, come Novalny si batteva contro la corruzione degli oligarchi e la soppressione della libertà. Ora il nuovo eroe ha raggiunto la coraggiosa giornalista. Putin ha fatto spallucce sia in questa che in quella occasione.

Il mondo libero dovrebbe mettere in fila i crimini orchestrati dal satrapo di Mosca e non avere titubanze nello schierarsi contro di lui considerando i pericoli che incombono sui confini orientali dell’Europa.

Noi occidentali non possiamo perdere la partita decisiva nella contesa tra il mondo schiavizzato e quello libero. Bisogna scegliere dove e con chi stare. Questa volta nel nome di Aleksei Navalny, simbolo di libertà, come lo furono Solzenicyn , Sakarov, Sinjavskij, Maximov; e più vicini a noi, Politkovskaja, Livtinenko e decine di uomini e donne senza nome, ignoti nella loro stessa patria.



 

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