Le prossime elezioni europee, a dispetto dello scarso interesse che sembrano suscitare, incideranno non poco sul nostro futuro. Non tanto, come taluni ritengono, per l’influenza che potranno avere sul governo e sugli assetti politici interni. Questo è soltanto il riflesso di un provincialismo duro a morire. Incideranno, invece, sul destino stesso dell’Europa. Ed è davvero un peccato che si sia buttata al vento, ancora una volta, l’occasione di un dibattito forte, articolato, profondo sull’Europa tra le forze politiche in campo, lasciandosi attrarre invece dalla bagattelle politiche nostrane.
Viviamo un tempo di grandi incertezze, in cui gli antichi caposaldi su cui poggiavano gli equilibri internazionali sono svaniti. Siamo passati, in un tornante della storia di pochi decenni, dall’ordine mondiale sancito dopo la Seconda guerra mondiale ad un disordine globale, con punte di asprezza bellica in molte parti del globo.
Di fronte a questo complessivo sconvolgimento, l’Europa appare incerta, debole, frastornata, divisa, incapace di offrire risposte all’altezza della situazione e delle nuove sfide.
In un recente volume, Paolo Guerrieri e Pier Carlo Padoan hanno enucleato dalla prossima agenda europea tre questioni principali - la crescita economica, la presenza internazionale, il processo di integrazione – quali elementi centrali per un rilancio dell’Europa.
In verità, ce ne sarebbe un’altra che tutte le comprende e su cui ci soffermeremo più in là: la difficoltà dell’Europa di diventare un soggetto politico, con una forte identità e un’anima comune.
Dopo la fine di Bretton Woods, ossia di un sistema globale dettato dall’egemonia del dollaro e degli Stati Uniti, l’economia europea ha imboccato il sentiero della crescente integrazione come risposta alle crisi ricorrenti.
Questo processo, pur diversificato, è stato caratterizzato, secondo gli autori del saggio, inward looking, ovvero da un ruolo centrale delle forze per l’integrazione interna.
Per proseguire lungo questa direzione, non bisogna esitare nell’affrontare il tema della sostenibilità economica, tecnologica, di sicurezza, in una parola del modello di crescita dell’Unione Europa, che è stato rimesso in discussione dalla crisi energetica e dall’acuirsi dei conflitti geopolitici.
La risposta dell’Europa è affidata al Green Deal e alla transizione digitale. Obiettivo tutt’altro che alla portata di mano se non si rafforza il baricentro della crescita sostenibile europea alimentando la domanda interna e il mercato unico.
Tutto ciò implica una radicale inversione di rotta rispetto ai programmi prevalenti fino alla crisi del debito sovrano. Il Next Generation EU, con l’immissione poderosa di finanziamenti, successivo alla crisi Covid-19, rappresenta un modello basato su stimoli di crescita di entrambi i lati della domanda e dell’offerta. L’uso di titoli “europei” (i famosi Eurobond al centro, in passato, di ingiustificate riserve) per sostenere la massa dei “prestiti” forniti agli Stati potrà essere uno strumento efficace per sostenere investimenti pubblici e riforme strutturali, a condizione che offrano un rendimento, economico e politico, i cui effetti non potranno che vedersi soltanto nel medio-lungo tempo.
Il quadro degli impegni su questo versante, peraltro, non è affatto chiaro, dal momento che ci sono Paesi che non intendono rendere permanete tale strumento. Senza una chiara visione che aiuti ad affrontare il problema dei costi imminenti a fronte dei benefici futuri, si rischia di restare impantanati. E di veder crescere il divario nei confronti degli Stati Uniti e della Cina, in particolare nelle politiche industriali e tecnologiche.
Il ritardo tecnologico dell’Europa è disarmante di fronte a una competizione globale divenuta aggressiva per fattori soprattutto geopolitici, dove sicurezza ed economia si intrecciano.
L’unica risposta possibile a questa sfida imponente è quella di una comune politica industriale e tecnologica della UE che superi le rendite nazionali divenute ormai insufficienti.
Ci vorrebbero, insomma, politiche e interventi su scala europea, una sorta di versione europea della DARPA (Defence Advanced Research Agency) degli Usa, ossia una Agenzia per i progetti di ricerca avanzata di difesa, con il compito di sviluppare tecnologie per trasformazioni di base. L’intelligenza artificiale, in tale contesto, diventa decisiva.
Va da sé che, per affrontare queste sfide, occorrono ingenti capitali, sia sul versante pubblico che su quello privato. Senza ulteriori riforme del sistema bancario e l’unione dei mercati di capitali tutto questo non sarà possibile. Su tale versante sarà decisivo superare le forti resistenze della Germania e dell’Olanda.
L’intreccio tra economia e sicurezza è un fattore ormai fondamentale nelle relazioni internazionali.
La guerra in Ucraina ha rappresentato un segnale di allarme potente e posto un tema ormai imprescindibile: il tema della difesa europea.
Per troppo tempo ci si è cullati sull’alloro, nella illusoria convinzione di una stabilità perenne degli assetti internazionali e dello scudo offerto dagli Usa e dalla Nato.
Ormai è chiaramente percepibile che, nella crescente competizione tecnologica con la Cina e nel profilarsi di sfide geopolitiche inedite, l’Europa, se non vuol essere schiacciata tra i nuovi blocchi di potere, deve attrezzarsi e raggiungere rapidamente un livello adeguato di capacità militare e di sicurezza, compresa quella cibernetica, sostenendo lo sviluppo di un’industria militare europea. Non c’è tempo da perdere. Siamo già in ritardo.
Mentre, sul piano dei rapporti internazionali vanno adottate nuove iniziative europee nei confronti dell’Africa, un continente che è destinato a giocare un ruolo di primo piano per il futuro del pianeta e che ha un valore strategico enorme per l’Europa.
Un continente, si badi, dove la presenza cinese e non solo rappresenta il segno di una neo-colonizzazione dai tratti distintivi a livello globale.
E’ persino ovvio che la presenza Europea in Africa non possa ricalcare le esperienze del passato, ma vada inglobata in un più ampio e articolato disegno strategico che richiede la riforma e il rafforzamento delle istituzioni internazionali, dalla Banca mondiale al WTO. E’ un po’ quello che con il Piano Mattei, sta cercando di favorire il governo Meloni.
Si tratta, inutile sottolinearlo, di un cammino arduo e complesso, al quale, però, non si può rinunciare.
Come pure, irrinunciabile, è il tema dell’avanzamento dell’integrazione e quello, ad esso connesso, delle progressive cessioni di sovranità in comparti pubblici il cui valore supera l’interesse dei singoli Stati per confluire in un sistema di governance unitaria.
Dal clima alla sicurezza energetica, dall’autonomia tecnologica alla difesa, abbiamo visto come si tratti di beni comuni, la cui scala di valore non può essere efficacemente garantita nello scacchiere separato dei singoli Stati. Pena la perdita di incisività nella competizione globale.
Nel primo decennio del Duemila sono entrati a far parte dell’UE ben 12 paesi, per la maggior parte dell’Europa orientale. Si è trattato del più consistente allargamento mai realizzato nella storia dell’Unione. Un fatto storicamente rilevante, visto che per lo più sono paesi che facevano parte del blocco sovietico o avevano fatto parte dell’Unione Sovietica.
Il tutto è avvenuto con una accelerazione che non è stata accompagnata da alcuna riforma dell’architettura istituzionale, né del sistema decisionale, rimasto ancorato al principio dell’unanimità. L’allargamento, peraltro, si è rilevato un successo per i paesi subentranti, anche se i benefici non si sono distribuiti in modo uniforme.
Ma l’impatto sul resto dell’Europa è stato nel complesso negativo.
“La percezione diffusa – ricordano in Europa sovrana Guerrieri e Padoan – fu che l’allargamento era avvenuto troppo rapidamente ed era stato troppo ampio, permettendo ai nuovi paesi di sfruttare a loro vantaggio i bassi costi del lavoro e le loro arretratezze economico-sociali, trasformando così il processo di entrata in un gioco a somma zero”.
Da qui seguì, come sappiamo, una forte ostilità nei confronti di ulteriori possibili allargamenti, ad eccezione della sola Croazia nel 2013.
La guerra in Ucraina ha radicalmente cambiato le cose. Nel 2022 l’UE ha accettato la candidatura di Ucraina, Moldavia e Bosnia-Erzegovina e avviato i negoziati di adesione con l’Albania.
Le motivazioni geopolitiche, come è facile intuire, stanno insomma prevalendo rispetto ad ogni altra questione. Mantenendo l’attuale architettura istituzionale, senza peraltro occuparsi di quel che tecnicamente viene chiamata “capacità di assorbimento” (politiche di bilancio, fiscali etc.), il rischio che l’UE possa implodere non è affatto secondario. Per evitarlo occorrono meccanismi e regole stringenti, oltre a politiche comuni.
Veniamo ora all’aspetto, a nostro avviso, più rilevante.
Al dato che tutto comprende e su cui si fatica a trovare il bandolo della matassa. Ci riferiamo al discorso sovente sottaciuto dell’identità europea. Spesso si dà per scontato quel che scontato non è. Ossia il fatto che uno Stato europeo degno di tal fatta ancora non esiste nella mente e nel cuore degli europei. Eppure, basterebbe rileggere la “Dichiarazione di Parigi” del 7 ottobre 2017, anniversario della battaglia di Lepanto quando l’Europa cristiana fermò l’avanzata islamica, firmata da alcuni tra i più importanti intellettuali europei, capeggiati dal compianto filosofo conservatore britannico Roger Scruton, per rilanciare l’Idea di unità continentale, affermare i valori fondanti della civiltà europea e la sua sovranità intangibile.
Si tratta di un “manifesto” che elenca i caratteri e le virtù della “vera Europa”, in alternativa a quella “falsa” costruita da sedicenti europeisti. Il documento si apre con questo preambolo: “ L’Europa ci appartiene e noi apparteniamo all’Europa. Queste terre sono la nostra casa; non ne abbiamo altra. Le ragioni per cui l’Europa ci è cara superano la nostra capacità di spiegare o giustificare la nostra lealtà verso di essa.
Sono storie, speranze e affetti condivisi. Usanze consolidate, e momenti di pathos e di dolore. Esperienze di riconciliazioni e la promessa di un futuro condiviso. Scenari ed eventi comuni si caricano di significato speciale: per noi, ma non per altri. La casa è un luogo dove le cose sono familiari, e dove veniamo riconosciuti per quanto lontano abbiamo vagato. Questa è l’Europa vera, la nostra civiltà preziosa e insostituibile”. E ancora: “Il futuro dell’Europa riposa in una lealtà verso le nostre tradizioni migliori, non un universalismo spurio che impone la perdita della memoria e il ripudio di sé…L’Europa vera è, e sempre sarà, una comunità di nazioni a volte chiuse, e talvolta ostinatamente tali, eppure unite da un’eredità spirituale che, assieme, discutiamo, sviluppiamo, condividiamo e sì, amiamo”.
Per dirla con Ernesto Galli della Loggia, l’UE ha mancato a quello che avrebbe dovuto invece essere il suo primo compito: fare gli europei.
Nel solo modo in cui ciò è sempre avvenuto: recuperando il senso della storia, dei valori (anche religiosi) cui essa ha dato vita, dell’unicità e della grandezza dell’una e degli altri.
Senza un progetto politico, è bene non dimenticarlo, è arduo dar vita agli Stati d’Europa e affermare l’identità dei popoli.
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