Il mito del Santo Graal nasce come appendice a quello di Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda. Il nome Graal deriva dal latino medievale “Gradales”, ossia vaso o recipiente in genere, mutatosi poi nel francese “graal” e tale rimasto perché furono dei poeti francesi, come vedremo, i primi a rielaborare tutta la saga dei cavalieri celti.

Ma c’è anche la versione che vuole il nome Graal derivato da “garales”, un boccale con il quale i monaci bevevano il brodo di pesce durante il periodo della quaresima, ma, ovviamente, la prima interpretazione è quella più nota e accreditata.
Alla base dell’ispirazione mistica concorrono elementi tratti dal vangelo apocrifo di Nicodemo e da scritti similari che narrano le presunte vicende di Giuseppe d’Arimatea, miscelati assieme a narrazioni ricavate da leggende celtiche.
Alla base dell’ispirazione narrativa, invece, c’è il chierico Nennio, cronista bretone del IX secolo, probabile autore di una “Historia Brittonum”, finita di scrivere attorno all’826, che, nonostante sia stata in seguito variamente manipolata, rappresenta una fonte notevole per la storia della Britannia di quel periodo. Per quanto concerne più strettamente il Santo Graal, è il primo documento che contiene riferimenti e annotazioni attorno a re Artù e al mago Merlino.
Nennio è iperbolico nelle descrizioni delle virtù umane e belliche di Artù, quindi si sarebbe tentati a non considerarlo credibile, senonché, cento anni più tardi, gli “ Annales Cambriae “, ossia gli Annali Gallesi, dato che Cambria era il nome latino medievale del territorio oggi chiamato Galles, il cui autore è rimasto anonimo, tornano a riproporre diversi dettagli, anche se in maniera molto meno eclatante che nell’Historia Brittonum, tra i quali, dal punto di vista storico, assume particolare importanza il riferimento alla battaglia del Monte Badon, che Artù combatté contro i Sassoni nell’ultimo decennio del V secolo, ossia tra il 490 e il 500.
Ma la narrazione leggendaria attorno ad Artù, le sue origini, la sua nascita dovuta a un adulterio involontario della madre, la bella Igerna, il suo affidamento in tenera età a Merlino, e tutte le componenti dell’aggrovigliata storia, si devono al chierico inglese Goffredo di Monmouth, ch ne scrisse nella sua opera “Historia regnum Britanniae”, terminato nel 1136.
Chi era Artù? Per lo più viene considerato una figura leggendaria, al pari dei personaggi omerici, ma proprio per questo va ritenuto una figura storicamente esistita, come lo furono gli eroi dell’Iliade e dell’Odissea, pur se circondati da sovrapposizioni mitologiche e patriottiche esaltazioni autocelebrative, come capiterà anche per il ciclo di Cavalieri della Tavola Rotonda.
Anche sulla base dei ritrovamenti archeologici degli ultimi anni, riguardanti soprattutto incisioni su frammenti di pietra, si può considerare veritiero che Artù sia stato un re dei Bretoni, vissuto a cavallo tra i V e il Vi secolo, impegnato nel difendere la Britannia, ossia quella parte di territorio che al giorno d’oggi corrisponde al Galles meridionale e alla parte sud-occidentale dell’Inghilterra, dall’assalto degli invasori sassoni, provenienti dalla Germania.
Lui e i suoi sudditi erano inglesi educati secondo i canoni della civiltà romana e probabilmente si erano anche convertiti al cristianesimo in massa, per cui rappresentavano gli ultimi eredi della vecchia, gloriosa e civilissima romanizzazione isolana e, nel contempo, i precursori in larga scala di una nuova evangelizzazione che aveva soppiantato definitivamente le divinità celtiche, anche se non del tutto le componenti divinatorie, come nel caso dei poteri del Mago Merlino.
Ma come ci sono arrivate le narrazioni delle epiche gesta dei Cavalieri della Tavola Rotonda?
Ovviamente attraverso opere che, prendendo lo spunto dalle fonti già citate, lo hanno poi sviluppato e organizzato secondo ispirazioni artistiche ed esigenze di apologia politica da parte dei regnanti, cui faceva molto comodo rispolverare per proprio tornaconto tradizioni e legami risalenti al nobile re Artù e ai suoi eroi senza macchia e senza paura.
Il primo dei cantori fu il fine poeta, e sensibile artista francese, Chrétien de Troyes, vissuto nella seconda metà del XII secolo. Tralasciando le altre opere e limitandoci all’argomento in questione, Chrétien de Troyes scrisse il poema “Perceval o Le conte du Graal”, purtroppo incompiuto.
Dopo di lui fu la volta del tedesco Wolfram von Eschenbach, vissuto tra il 1170 e il 1220, che, una decina d’anni prima della morte, scrisse il suo “Parzival”, ricollegandosi nettamente al suo predecessore e portando a compimento la storia nella stesura che l’ha resa definitiva e popolare. Ma se i legami narrativi sono evidenti e dichiarati, ben diversa è l’impostazione della trama nel suo sviluppo, tanto dei personaggi, che delle vicende, che della personalità dei protagonisti.
A cominciare dal Graal, che dal calice usato da Gesù nell’Ultima Cena, secondo la versione di Chrétien de Troyes, per Wolfram von Eschenbach assume la forma di una splendida pietra preziosa dai poteri miracolistici e taumaturgici, in grado di tramutare persino cose inanimate in prelibati cibi e bevande.
Questo aspetto più soprannaturale von Eschenbach lo sottolinea spostando il teatro delle gesta della Cavalleria dal territorio di Camelot, nella cui reggia allignano insieme il sacro e il profano, il mistico e il godereccio, fortemente guerresco in ogni caso, a una cerchia ideale di adoratori ascetici del Santo Graal, di cui si può far parte solo se spinti da una vera e propria vocazione, quasi una chiamata diretta di Dio.
Qual è lo scopo di questa classe eletta? Trovare il Graal, custodirlo a costo della vita e metterne a frutto i prodigiosi poteri solo per santi scopi e per la diffusione del Vangelo.
Il “Parzival” è insieme poema cavalleresco, romanzo, percorso religioso di un simbolico cammino personale di fede, pervaso insieme di devozione cristiana e bellicismo, tanto attinente e caro allo spirito tedesco che, qualche secolo più tardi, vi attinse a piene mani Richard Wagner, il quale ne esaltò storia e caratteri in due memorabili opere: “Lohengrin”, del 1848, e “Parsifal “, del 1882.
Fu poi la volta di un altro francese, Robert de Boron, che verso la fine del XIII secolo, scrisse il poema in versi “Roman de l’Estoire dou Graal”, conosciuto anche con il titolo di “Joseph d’Arimathie”. Del poema “Merlin” s’è conservato solo un frammento iniziale, mentre dell’altra, importante opera “Perceval” s’è perduto tutto. Per fortuna della trama di entrambe s’è potuto salvare l’intero sviluppo perché sono state ridotte in prosa.
Anche de Boron rimane legato alla originale impostazione che vede il Santo Graal e i suoi eroi all’interno della saga dei Cavalieri della Tavola Rotonda iniziata da Chrétien de Troyes, ma con un’accentuazione personale ancora più avanzata in merito ai significati religiosi.
Segnalati brevemente i pilastri letterari che hanno dato vita all’intramontabile ciclo del Santo Graal, passiamo ai contenuti narrativi e alle loro significazioni, senza più distinguere l’una o l’altra fonte, ma assemblando in maniera ordinata tutte le componenti essenziali.
Nell’immaginario popolare il Graal sotto forma di calice ha netta preferenza sul Graal sotto forma di pietra preziosa e tale scelta verrà senz’altro adottata; al contrario, per il nome dell’eroe errante, alla più famosa versione di Parsifal, dovuta a Wagner, si preferirà il più pertinente e originale Perceval, creato da de Troyes.
La storia inizia con il Mago Merlino che raggiunge il suo ex allievo e protetto, Artù, ora re d’Inghilterra per essere stato l’unico a essere riuscito a estrarre Excalibur, la spada incantata, dalla roccia in cui era conficcata fino all’elsa.
Il Mago ragguaglia il e i suoi cavalieri su quello che sarà il loro compito dominante finché avranno vita: trovare in quale parte del mondo Giuseppe d’Arimatea avesse celato il calice usato dal Messia nell’Ultima Cena, lo stesso in cui il buon fariseo, discepolo segreto di Gesù, aveva anche raccolto alcune gocce del sangue e dell’acqua che colavano dalla ferita al costato del Maestro inchiodato sulla croce, ovverossia il Santo Graal.
A tale scopo Artù avrebbe dovuto radunare attorno a sé i più prestigiosi baroni e i più valenti cavalieri, costituendoli in un ordine cavalleresco nuovo ed esclusivo: quello della Tavola Rotonda.
Perché si tendesse alla perfezione e non si cedesse alla tentazione di involontarie gerarchie e classi nobiliari, la tavola attorno a cui Artù e i suoi seguaci dovevano sedere andava costruita, ovviamente, rotonda come pretendeva il titolo nobiliare e, sempre secondo le istruzioni di Merlino, tanto grande da ospitare centocinquanta posti. Uno di questi seggi doveva rimanere sempre libero, a disposizione di un misterioso cavaliere eletto, che un giorno vi si sarebbe seduto.
Seguendo alla lettera le disposizioni del Mago, re Artù, nella notte di Natale, nel corso della seduta inaugurale, giurò, assieme a tutti i cavalieri presenti, di dedicare la propria vita al compito di trovare e adorare il Santo Graal. In un solenne impegno di solidarietà e fratellanza, chiunque di loro si fosse trovato in gravi difficoltà sarebbe stato prontamente soccorso da tutti gli altri, accorrendo da dovunque si trovassero.
Ma il loro impegno non finiva lì: a testimonianza del loro amore per Cristo Redentore e per la giustizia, nel corso del loro cammino errante alla ricerca del Santo Graal, si sarebbero dovuti prodigare nel sostenere e difendere i deboli e gli oppressi contro le angherie e i soprusi dei malvagi e dei potenti corrotti nei quali via via si fossero imbattuti.
Alla fin fine era questo il compito reale che li attendeva: fungere da soldati di Cristo in veste di cavalieri solitari, poiché ognuno di loro sarebbe andato per conto suo, mettendo il proprio coraggio e la propria spada al servizio dei principi evangelici e del diritto naturale, con la purezza dell’agnello, ma non con la sola mitezza della preghiera, bensì con la violenza di un angelo vendicatore.
I temi ricorrenti sono ben risaputi: trepide fanciulle rapite e rinchiuse da biechi signorotti nei loro misteriosi manieri; nobili cacciati da usurpatori; contadini vessati; religiosi minacciati da miscredenti crapuloni; vedove e orfani alla mercé di aguzzini ecc. ecc.
Qualcuno ci lascia la pelle; chi la spunta torna a Camelot per raccontare la sua impresa, che da quel momento diventa immortale e si aggiunge alle altre nel luminoso curriculum della Cavalleria da lasciare ai posteri.
Il fondamento religioso, o più propriamente il trampolino metafisico che ha permesso lo slancio narrativo e fantasioso dell’epopea dei Cavalieri della Tavola Rotonda, e più in particolare del mistico Santo Graal, parte dal versetto 50 del capitolo 27 del Vangelo di Matteo, che dice:” Ma Gesù emise di nuovo un alto grido e spirò “, e ancor più dai versetti 33 e 34 del capitolo 19 del Vangelo di Giovanni:” Venuti però da Gesù e vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua “.
Gli evangelisti Marco e Luca riportano la stessa versione stringata di Matteo; solo Giovanni cita l’episodio della lancia, sottolineando volutamente il fatto che dalla ferita inferta al costato sgorgò sangue e acqua, ossia un’incarnazione del Verbo rivelatasi veramente umana proprio nell’incontestabile dimostrazione della morte. Gesù spira come qualsiasi uomo, ma il sangue e l’acqua che colano dalla sua ultima ferita assumono un valore simbolico di trascendenza che verrà ripreso anche nella formulazione del significato mistico del Santo Graal.
E Giovanni lo ribadisce, e lo ampia, nella sua prima Lettera, al capitolo 5, versetti 6-8:” Questi è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che rende testimonianza, perché lo Spirito è la verità. Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono concordi”.
Questo passo conosciuto come “comma giovanneo “, pur se, come sembra ormai appurato, sia stato introdotto qualche secolo più tardi per avallare, con un ulteriore apporto delle Sacre Scritture, il dogma della Trinità, sta di fatto che venne preso come testo originale dell’apostolo Giovanni, cosa del resto del tutto plausibile visto i concetti già espressi nel passo evangelico sopra citato. Acqua, sangue e Spirito, trinomio che ha avuto anche interpretazioni sacramentali, stanno a significare la presenza di Dio, Spirito nei Cieli, nell’acqua e sangue di Cristo-uomo nell’apoteosi d’amore della sua incarnazione secondo il progetto divino di salveza teso a ricondurre l’umanità verso la riconciliazione con il Padre e la redenzione dopo il peccato di Adamo ed Eva.
E le ultime gocce di acqua e sangue colanti dalla ferita nel costato del Figlio di Dio, ormai morto sulla croce, raccolte da Giuseppe di Arimatea nello stesso “ gradalis “ che Gesù aveva usato nell’Ultima Cena, costituiscono, in tutt’uno col recipiente che li contengono, il mistero del Santo Graal, la sua potenza sovrannaturale, il suo potere miracolistico in terra, il suo potenziale potere di preveggenza della vita eterna, la porta di accesso alla verità mistica di Dio pur essendo ancora vivi.
Come rinunciare alla possibilità di raggiungere la perfezione della vita terrena, staccati dalle passioni e dalle ambizioni diaboliche che rischiano fortemente di perdere e dannare l’anima per l’eternità, se è sufficiente cercare la fonte di questa speranza: il Santo Graal?
Ma questo desiderio di sacralità taumaturgica legato al Graal era inviso alle autorità ecclesiastiche romane perché in esso vedevano un concorrente potente della supremazia indiscussa della dottrina apostolica sancita dal Vicario di Cristo. Obiettivo che, invece, era perseguito dai prelati irlandesi, che volevano staccarsi realmente, nell’XI secolo, dalla gerarchia centralizzata di Roma e formare una chiesa locale con riti autonomi e rappresentanti clericali nominati in loco.
Lo sfruttamento delle leggende celtiche su Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda a fini politici e religiosi fu messo in atto con accanimento da parte dei re normanni dell’epoca, ma questo appartiene alla storia; ciò che qui conta è l'epica del Santo Graal, che trova l’incipit nei testi apocrifi menzionati all’inizio, i quali riportano l’iniziativa di Giuseppe di Arimatea, cui è dedicato largo spazio soprattutto nel vangelo di Nicodemo, inviato dall’apostolo Filippo in Britannia affinché si dedicasse alla conversione al cristianesimo dei nativi.
Giuseppe di Arimatea viene ricordato dagli evangelisti Matteo e Giovanni come il ricco e influente membro del Sinedrio che chiese, e ottenne, da Ponzio Pilato il permesso di prendere in consegna il corpo di Gesù e deporlo nel proprio sepolcro privato.
Questa particolare attenzione e devozione erano dovute al fatto che Giuseppe era diventato discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei. La sua figura, pertanto, è storicamente accertata e riconosciuta, così come la sua pietà umana e cristiana ante litteram.
La leggenda celtica volle poi farlo giungere sul suolo inglese dove costruirà la prima chiesa-convento sulla collina di Glastonbury, che all’epoca era quasi un’isola, dato che il mare arrivava a coprirne i bassipiani circostanti.
Giuseppe di Arimatea era partito dalla sua terra custodendo gelosamente il preziosissimo calice con dentro le gocce del sangue di Gesù, l’aveva deposto in un altare costruito in suo onore e intorno vi aveva edificato la chiesa- convento prima accennata.
Quando Artù conquistò il convento, all’inizio del Vi secolo, decise di fare della chiesa-vecchia, come veniva chiamata quella edificata da Giuseppe di Arimatea, il santuario centrale del paese.
Elencare tutte le varianti della leggenda pretenderebbe spazio e tempi imponenti. Basti citare quella che vorrebbe Artù essere stato a Glastonbury per liberare l’amata Ginevra prigioniera del re del Somerset, tale Melwas, già prima di assalire il convento e quindi di trovarvi sepoltura dopo la morte.
Glastonbury coinciderebbe con la mitica Avalon, e una certa conferma la si ebbe nel 1962 con la scoperta dello scheletro di un uomo, alto ben due metri e 40 centimetri, sepolto in un loculo nel suolo dell’abbazia risalente al XII secolo, attribuibile a re Artù per via di un’iscrizione tombale difficile da ignorare; il che non ha fatto che stimolare la curiosità e il numero dei visitatori dagli interessi più disparati.
Ai piedi della collina c’è poi un vetusto pozzo, il cui bordo è a pelo d’erba, noto come “Pozzo del calice “, dato che l’ennesima leggenda vuole che il Santo Graal sia stato nascosto sul fondo delle sue acque ferrose. E allora perché i Cavalieri della Tavola Rotonda si misero a cercarlo per ogni dove? Perché allora, molto più di adesso, le leggende si fondavano su indizi assai vaghi, e vedremo alla fine quanti posti, al giorno d’oggi, si vantino di essere stati depositari a lungo, oppure solo di veloce transito, o addirittura di attuale custodia, più o meno segreta, del miracoloso calice.
Si interessò attentamente del Graal e della lancia del centurione Longino anche Adolf Hitler, grande appassionato e cultore convinto dei poteri divinatori, tanto da organizzare e promuovere un'imponente spedizione tesa a individuare, e possibilmente raggiungere, la mitica Terra Cava, onde poterne sfruttare le presunte, sovrumane risorse in appoggio ai suoi progetti di conquista.
Una volta che del Santo Graal si persero le tracce, nell’arco di tempo che possiamo restringere tra il 50 e il 400 d.C., i Cavalieri della Tavola Rotonda, riuniti nel castello di Camelot, decisero che era arrivato il momento di rintracciarlo e che la sua ricerca sarebbe stata l’aspirazione e la gloria maggiore di tutta la Cavalleria.
Per questa impresa il candidato più rappresentativo e qualificato sarebbe stato l’intrepido e possente Lancillotto, il numero uno dei Cavalieri della Tavola Rotonda, ma aveva peccato, e peccato contro il suo re e contro Dio, che pure amava entrambi profondamente, per aver commesso adulterio con Ginevra, la moglie di Artù.
E’ destinato, quindi, a prenderne il posto suo figlio Galaad, giovane, puro, perfetto eroe senza macchia oltre che senza paura, che compie azioni prodigiose e finirà per trovare il Santo Graal, dei cui misteri viene reso partecipe, dopodiché morirà in stato di estasi, mentre una mano scesa dal cielo afferrerà il sacro calice, facendo svanire contemporaneamente tutto il leggendario mondo di Camelot.
Nelle narrazioni successive a quelle classiche ricordate, è proprio la figura di Galaad che va a sostituirsi a quella di Perceval, ma è quest’ultimo a mantenere il primato della fama e della simpatia popolari.

Al pari di Galaad, il taciturno gallese Perceval lascia Camelot alla ricerca del Santo Graal e nessuno meglio di lui incarna l’anelito verso la perfezione spirituale, il matrimonio mistico con la santità di Cristo, l’ascesi che non rinuncia né a dolori né a sacrifici pur di far vivere alla propria anima un’esistenza libera dalle schiavitù corporali.
Senza per ciò prescindere dal valore guerriero e da tutti gli ideali umani, compresi i bisogni e le urgenze pragmatiche, che non vengono esclusi, ma sono confinati decisamente in secondo piano.
Ed ecco in breve la vicenda fortemente affascinante delle vicissitudini morali e materiali di Perceval, in cui talvolta riecheggiano motivi e spunti dell’epica omerica. Perceval appartiene a una famiglia decimata per obbedire agli ideali della Cavalleria: suo padre e tutti i suoi fratelli sono morti con le armi in pugno. Sua madre, per evitare che anche l’ultimo dei suoi figli, ancora ragazzo, trovi la stessa nefasta sorte, lo tiene come segregato, evitando che esca e abbia contatti con il mondo esterno.
Ma un giorno capita un gruppo di cavalieri, imponenti e sfavillanti nelle loro armature, e il giovane si sente travolgere dal richiamo virile delle armi e della tenzone. Insensibile ai richiami della madre disperata, si aggrega ai cavalieri e si allontana con loro.
Appena giunto al castello di Camelot, uccide il Cavaliere Vermiglio e si impadronisce della sua armatura. Viene quindi addestrato da Gornemanz alle regole della gente d’armi, mentre l’illibata, bellissima Biancofiore gli accende il cuore di passione facendogli scoprire per la prima volta il sentimento travolgente dell'amore.
La grande felicità gli provoca il ricordo della madre abbandonata sicché decide di tornare a casa per riabbracciarla e chiederle perdono per il suo abbandono. Durante il percorso trova ospitalità nel meraviglioso castello del Re Pescatore, che soffre a causa di due ferite alla gamba, e qui Perceval vede dapprima una lancia la cui punta gocciola sangue e poi una sfolgorante coppa sorretta da una bellissima fanciulla: è il Santo Graal.
Nonostante il calice passi più volte davanti ai suoi occhi, Perceval non capisce chiaramente e neppure si decide a chiedere quelle spiegazioni che pure gli bruciano sulle labbra e nel cuore: così si fa scappare la redenzione a portata di mano e riparte con il pensiero rivolto alla madre.
Strada facendo, però, viene a sapere della morte della madre, provocata dalla disperazione per la sua partenza. Ora vuole rintracciare di nuovo, a tutti i costi, il calice e la lancia insanguinata poiché ha finalmente chiaro cosa fossero, e vaga instancabilmente da un luogo all’altro, affrontando una serie ininterrotta di stravaganti avventure, nel corso delle quali ha la ventura d’incrociarsi con altri Cavalieri della Tavola Rotonda, dai quali apprende delle notizie via via più precise che gli fanno comprendere come l’essere rimasto stordito e muto nel chiedere spiegazioni sul Graal e sulla lancia, quand’erano entrambe in sua presenza, ha provocato la morte del Re Pescatore, la desolazione su tutta la terra e l’uccisione di centinaia di valorosi cavalieri, lasciando di conseguenza uno stuolo enorme di affranti vedove e orfani.
Passano ben cinque anni perché, in un Venerdì Santo, s’imbatta in un manipolo di cavalieri e damigelle che, tutti vestiti di un solo saio monacale, incolonnati in processione penitenziale, lo invitino al pentimento e alla rinuncia alle armi, indicandogli come raggiungere un santo eremita presso il quale si sono confessati.
Egli raggiunge allora il santo eremita, che gli dimostra come la sua vita finora sia stata macchiata dal peccato oltre che dalla colpa per la morte, sia pure involontaria, della madre. Gli suggerisce quale cammino di penitenza e di preghiera dovrà percorrere d’ora in poi per avere la gloria in vita e la salvezza eterna dopo la morte.
Nel poema di von Eschenbach, invece, Perceval torna una seconda volta nel castello e finalmente pone la cruciale domanda sul Graal, sicché il signore del castello, che qui si chiama Amfortas e non Re Pescatore, guarisce, dopodiché i Cavalieri riconoscono Perceval quale loro nuovo re.

Data la fama, il fascino e l’attrazione che ha suscitato in esegeti, storici, artisti, teologi tanto accademici che dilettanti, a partire dal XII secolo, il possesso o la temporanea custodia, più o meno fuggevoli, del Santo Graal non potevano che essere rivendicati da più luoghi e persone.
Citiamo schematicamente le ipotesi più ricorrenti.
Ad Axum, in Etiopia, sembra che in una cappella cieca adiacente alla chiesa di S. Maria di Sion, dei monaci copti custodiscano una scatola di legno che asseriscono essere il Santo Graal. In verità la tradizione più accolta è quella che3 si tratti di una mini-riproduzione dell'Arca dell'Alleanza; a Bari spettano ben due rivendicazioni: la prima riguarda la traslazione della salma di San Nicola che sarebbe servita a mascherare il ritrovamento del Santo Graal, avvenimento tramandato poi crittograficamente attraverso un’immagine di re Artù e una mappa del nascondiglio tanto stilizzata da risultare indecifrabile, tranne a chi ha la chiave del mistero; la seconda ha inizio dall’atto della consegna del Santo Graal da parte di alcuni rappresentanti del sufismo musulmano al comandante dei Cavalieri Teutonici in Terra Santa perché lo recapitasse, a sua volta, al destinatario finale, il re Federico II, il quale, non appena in possesso della sacra reliquia, avrebbe provveduto a celarla in un recondito nascondiglio ricavato nell’edificando, bellissimo castello ottagonale di Castel del Monte; a Coventry, città nella contea di West Midlands, Inghilterra, a metà degli anni Novanta sarebbe stato scoperto un vasetto di onice risalente all’età augustea accreditato quale Santo Graal dallo studioso che lo scoperto per via di alcuni riscontri rintracciati in un trattato storico bizantino del V secolo;
c’è poi chi l’ha visto nel castello gallese di Dinas Bran; chi, secondo una tradizione risalente ai tempi delle crociate, tra i pezzi del tesoro dei Cavalieri Templari nel loro castello francese di Gisors; chi nel “Pozzo del calice “, a Glastonbury, come s’è anticipatamente accennato poco sopra, celatovi personalmente da Giuseppe di Arimatea, dopo che questi vi era giunto, come s’è detto, su sollecitazione dell’apostolo Filippo, ma c’è anche chi afferma che sarebbe stato direttamente Gesù risorto a indicargli la missione in Britannia; altra vecchia tradizione è quella che vuole che fosse in possesso degli eretici catari, i quali lo avrebbero nascosto nel loro castello di Montsegur, in Francia, prima di venire sterminati, nel 1244; di pochi anni è la rivelazione del gran Precettore dei templari, nella sede di Roma, che ha mostrato un piccolo vasetto decorato proveniente, sembrerebbe, da un antico monastero copto dell’Egitto, con la garanzia che si tratti del vero Graal; e, infine, a Torino, dove il prezioso calice sarebbe giunto assieme alla Sacra Sindone e poi celato in una nicchia segreta, forse una cripta sotterranea, del tempio della Gran Madre di Dio, vicinissimo alla riva del Po.
Senz’altro Gesù, nel corso dell’Ultima Cena, ha usato un calice da cui far bere un sorso di vino a tutti gli apostoli, come secondo segno eucaristico.
C’è da ricordare, per inciso, che nelle cene pasquali ebree i calici rituali erano quattro e che, probabilmente, quello preso da Gesù per istituire l’Eucarestia era il terzo.
Dice Matteo:” Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro dicendo: bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’Alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati“.
Dice Marco:” Poi prese il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse: questo è il mio sangue, il sangue dell’Alleanza versato per molti “.
Dice Luca:” E, preso un calice, rese grazie e disse: prendetelo e fatelo passare tra voi “.
Subito dopo comincia la leggenda del Santo Graal. Senz’altro Giuseppe d’Arimatea chiese e ottenne da Ponzio Pilato il permesso di prelevare il corpo di Gesù dopo che questi era spirato, ma raccolse davvero il sangue colato a seguito del colpo di lancia del centurione? E lo raccolse nello stesso calice dell’ultima Cena o in un altro recipiente?
I vangeli apocrifi del tutto apocrifi non sono. Il dubbio e il mistero rimangono intatti dopo duemila anni.
In effetti il Santo Graal esiste e si chiama Fede; le reliquie sono efficaci, ma in fondo superflue, scorciatoie miracolistiche che abbagliano per la potenzialità esplosiva di superare di colpo vizi, difetti, peccati senza ulteriore dolore, né fatica, né logoranti attese fatte di paure, di cedimenti, di fallimenti.
In fondo la leggenda il suo scopo l’ha raggiunto, come surrogato fideistico, e se resiste vuol dire che il mondo ancora ne ha bisogno. E allora che la leggenda continui.

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