La leggenda della Dolce Vita, il “King “della fotografia che ha raccontato come nessun altro il costume e la cronaca di un paese, che, nel dopoguerra, con determinazione e consapevolezza si è lasciato alle spalle gli anni di morte, distruzione e miseria. Con i suoi scatti Barillari ha saputo rimandare il sogno italiano della “grande bellezza”, ha immortalato le celebrità del mondo del cinema, della politica, delle teste coronate e dei capi di stato. Ha colto e ha narrato i cambiamenti sociali che hanno segnato un’epoca. È la storia di quel ragazzino che quasi quindicenne è giunto dalla Calabria a Roma e ha fatto la differenza. In un’intervista concessa proprio nel tempio della Dolce Vita: L’Harry’s Bar, di Pietro Lepore, Rino Barillari si racconta e ci racconta della sua vita e della sua “arte”.
Quando e come nasce il Barillari personaggio? Sono nato l’8 febbraio, segno zodiacale acquario, cuore fragile; quando quattordicenne mi si presentò la scelta di trasferirmi a Milano, oppure Roma, o Napoli, i soldi mi bastarono per arrivare a Roma. Giunto nella capitale insieme ad un mio amico sono rimasto sopraffatto da questa città; per me era come un sogno; quando passeggiavo per le sue strade mi girava la testa perché non ero abituato al traffico e alla bella gente, era un mondo totalmente diverso per me che arrivavo da Limbadi, un paese della Calabria: dove c’era una piazzetta con un bar e dove il passatempo era quello di guardare gli altri mentre giocavano a carte. Roma è una città straordinaria:”grazie Roma e grazie romani”. Questa città mi ha dato la possibilità di esprimermi al meglio.
Io non immaginavo di fare il fotografo. Quando nel 1958/59, minorenne, andavo presso la fontana di Trevi dove la gente buttava le monete, per me buttare i soldi era inconcepibile, io raccoglievo qualche soldo che cadeva fuori dalla fontana e così sbarcavo il lunario per un po’ di giorni.
Aiutavo i fotografi chiamati “scattini” che facevano le foto: souvenir dell’Italia, a coppie di fidanzati, di amici, ai turisti americani, allora erano in pochi ad avere la macchina fotografica e le persone che volevano una foto dovevano farsela fare dai fotografi, gli scattini, appunto. Le foto ricordo dopo essere state sviluppate, la sera, io le consegnavo in una busta negli alberghi dove questi soggiornavano.
Dagli scattini ho capito che anch’io potevo diventare un fotografo. Un giorno, uno dei fotografi non poté fare il suo servizio allora, si fece sostituire da me; mi spiegò cosa dovevo fare e come farlo, quella è stata una bella opportunità: da lì ho cominciato a fare la mia professione, sono stato aiutato e devo ringraziare alcuni colleghi più grandi di me; sono orgoglioso di citare Tazio Secchia, Marcello Geppetti e Paolo Pavia, una generazione dei padri della fotografia, devo loro molto; ho cominciato a conoscere quasi tutti i personaggi del cinema internazionale, era il periodo dei film di John Wayne e di Kirk Douglas, di giorno stavo tra via Condotti, Piazza di Spagna e via Borgognona: il centro importante dove tutti i personaggi scendevano da via Sistina, lungo la scalinata di Trinità dei Monti per farsi guardare, io li fotografavo e nel pomeriggio, quelle foto, riuscivo a venderle subito: vendevo i negativi alle agenzie come ANSA, Associated Press, UPI e altre, con quei soldi sbarcavo il lunario e compravo la pellicola, ma non ne consumavo molta perché il rullino costava. Osservavo come lavoravano gli altri e imparavo, successivamente comprai una macchina fotografica più professionale, cominciai a lavorare presso un’agenzia e, anziché portare io i rullini e i negativi a vendere, ci pensava l’agenzia.
Delle foto, c’erano alcune giornalistiche che venivano mandate in concorrenza e si vendevano a Roma ma, le foto esclusive venivano mandate a Milano dove venivano cedute ai settimanali come: Gente, Oggi e TV sorrisi e canzoni. L’agenzia mi diceva che dovevo stare in un determinato luogo, appostato, in quel periodo, ricordo bene che attraeva molto la storia di Gina Lollobrigida la grande attrice sposata con Milko Skofic e all’epoca si stavano lasciando quindi, io venivo mandato sull’Appia antica a fotografare anche una macchina che entrava nella proprietà era importante perché era una notizia. Durante la notte, invece, venivamo a via Veneto che era un palcoscenico, da Tomei, vicino all’albergo Excelsior c’era un certo tipo di gente: americani che indossavano i jeans: e chi li aveva mai visti!- Invece, al caffè de Paris c’erano attori del cinema italiano e straniero, mentre più su, il tempio della dolcevita era l’Harris bar, il posto dove tu non entravi se non avevi la cravatta.
Era un mondo diverso, c’erano scienziati, avvocati e quant’altro, personaggi che in quel momento si sentivano i padri di questa nazione. In quegli anni l’Italia cercava in tutti modi di affermare il proprio made in Italy. Può parlare del periodo della sua dolce vita? La mia dolce vita è nata nel 1968 perché lavoravo in un giornale. Il mondo era cambiato, c’era un po’ di tutto ed era anche un po’ stufo della Dolce Vita, i fenomeni, si sa, durano pochi anni e poi finiscono anche se il loro fascino continua a perdurare; ancora oggi la gente non chiede di via Veneto ma della via della Dolce Vita. Come dicevo, cambia il mondo, cambiano le situazioni e il paese diventa più agguerrito, comincia la contestazione, i figli si ribellano ai genitori, il paese piomba negli anni del terrorismo. Ogni mattina alle 7:15, alle 8:25, qualcuno veniva colpito: semmai era quello che portava il cane a spasso, io ho perso un sacco di amici e mi sono trovato due o tre volte coinvolto in sparatorie, ne cito una: piazza Nicosia nel 79 quando le BR attaccarono la sede della DC. Il paese stava cambiando, i fatti di la cronaca nera si susseguivano. Quali celebrità hanno inciso lasciandosi ricordare? Sono stato aiutato da Gina Lollobrigida, Virna lisi, Annamaria Ferrero, Shila Gaber: la Lollo, ad esempio, quando entrava in un negozio e comprava qualcosa, mi faceva fare delle foto e i miei colleghi mi chiedevano come avessi fatto e mi dicevano che ero bravo, invece erano gli attori, gli artisti che mi rispettavano; ero un ragazzino arrivato a Roma, non parlavo l’italiano ma il calabrese, ero una novità per loro.
Inoltre il mio fidanzamento eclatante è stato con Luciana Turina.
Lei, quando mi vedeva, diceva: arriva il mio fidanzato-! I miei colleghi non apprezzarono il fatto. Inoltre voglio dire che sono orgoglioso di essere nato in Calabria ma devo ringraziare i romani, ho rischiato e ancora vado a caccia. È stato mai aggredito durante le sue incursioni fotografiche? 163 volte all’ospedale, 78 macchine fotografiche distrutte, 11 costole rotte, due volte sparato, accoltellato, ho avuto per due anni la scorta, un matrimonio fallito, due figli fantastici. Questo è un lavoro che con il matrimonio è un fallimento. Penso che si arrivi alla saggezza dopo i cinquant’anni. A cinquant’anni sposarsi è fantastico. Ti sei mai sentito solo? No! Perché con il mio lavoro sono costantemente impegnato.
Anche se non faccio il servizio perché non c’è il personaggio, lavoro al fatto di cronaca, semmai c’è un inseguimento, un albero che casca, c’è sempre una notizia che può essere anche un falso allarme.
In questo modo non sono mai solo anzi, mi sento più carico e cerco la notizia in ogni cosa, anche sulla crescita delle piante. Un aneddoto divertente? Marcello Mastroianni mi diceva sempre: perché non cambi mestiere?. Cos’è la fotografia per te? È la storia di un paese, sono i ricordi, senza foto è un fallimento, non ti ricordi della tua vita, dei tuoi figli, dei tuoi nipoti, non ti ricordi di nulla. Senza foto non c’è storia. I sogni di quel ragazzo si sono avverati? Sono stato fortunato, sono stato aiutato e ho avuto dei buoni valori familiari. Mio padre mi aspettava all’angolo del commissariato di via Castro Pretorio perché mi fermavano quando di notte lavoravo, ed ero minorenne. Il suo giorno più bello? Quando incontro gli amici e mi dicono che stanno bene, allora io mi sento ancora più felice perché desidero solo il loro bene. Non ho la possibilità di aiutarli con moneta, però li aiuto con dei consigli e porto ad esempio qualche mio errore perché vorrei che loro non lo facessero. Chi è “il Paparazzo“? Ai miei tempi se chiamavi uno, ”paparazzo”, ti beccavi una querela perché tutti si sentivano “reporter”.
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