La dissoluzione del Movimento Cinquestelle era nell’aria.
Semmai, ha sorpreso che sia avvenuta così presto.
Che, nel giro di una legislatura, sia andata in frantumi quell’idea balsana, eppure capace di attirare voti e consensi in un’Italia sfibrata e incline alle sirene dell’antipolitica, di aprire il Parlamento come una scatola di tonno.
Una sorta di neo giacobinismo, l’assalto al Palazzo per ripulirlo, disintossicarlo, liberarlo dai mali che lo attanagliano e dai malvagi che lo occupano.
Il toccasana rivoluzionario per cancellare la partitocrazia e i suoi nefasti riti corruttivi, per cancellare ogni forma di compromesso nel segno di uno vale uno e affermare il freddo manicheismo del bianco o nero, come se tra i due estremi non ci fossero colori e sfumature diverse.
Tra diaspore e scissioni, del grillismo ora non resta che cenere. Se non è difficile ipotizzarne, in un prossimo futuro, il ridimensionamento, se non proprio la scomparsa, è d’altro canto opportuno riflettere sulle dinamiche che stanno attraversando il Paese da oltre un decennio.
Come pure sugli stravolgimenti che stanno mutando l’ordine mondiale con riflessi evidenti sull’Europa e su di noi.
Il collegamento tra la scissione dei Cinquestelle e le conseguenze della guerra Russo- Ucraina non è fuori luogo. Intendiamoci, sono fatti fra loro lontani anni luce.
Come è ampia la distanza che separa la portata, la dimensione tragica apocalittica, devastante della guerra, con la caterva di morti dall’una e dall’altra parte dei contendenti, delle distruzioni e delle macerie in cui sono ridotte meravigliose città e annullati borghi e paesi una volta popolati e fiorenti, dalla paccottiglia, dalla insulsaggine di un poleticume che, come nel caso dello scontro tra Conte e Di Maio, è la dolente cifra della politica nostrana.
Collegamento qui va inteso nel senso di mettere in parallelo due avvenimenti per la loro contestualità, ma al solo fine di evidenziarne le differenze e, nello specifico, la macroscopica separatezza tra due modi di approcciare e analizzare gli accadimenti.
Nei giorni scorsi si è molto indugiato, sulla stampa e nei talk show, sulla crisi che ha colpito (e affondato) il Movimento di Grillo e molto meno sulla crisi e la fine dell’Europa, sulla non rosea prospettiva di un prossimo autunno caldo, con un’inflazione galoppante, prezzi delle materie prime e dei generi di prima necessità alle stelle, salari sempre più contratti, con minor potere di acquisto e riduzione dei consumi, incremento delle spese per bollette del gas e dell’elettricità. Tutto questo in un contesto dove sono cresciute la povertà assoluta e quella relativa.
Ricordate la sfacciata e ridicola balconata di Di Maio che arringava la folla al grido di “elimineremo la povertà”? Sembra passato un secolo da quelle scellerate idiozie che hanno portato al declino e all’impoverimento ulteriore del Paese, ma è successo appena ieri.
L’inflazione e la guerra hanno cambiato, in peggio, la prospettiva economica. Di come contenere l’inflazione, però, nessuno parla.
Come se fosse un problema secondario. Nella conferenza annuale della Consob, Paolo Savona ha invocato un intervento del Parlamento, uno scudo a difesa del risparmiatore, e fornito una sua precisa visione contro la “tassa iniqua che viola i principi fondanti della democrazia”.
In sostanza una serie di interventi che rassicuri il risparmiatore, da un lato incanalandolo verso gli investimenti produttivi delle imprese e, dall’altro lato, realizzando un equilibrio tra attività mobiliari e immobiliari. In sintesi, si tratterebbe di puntare decisamente su una redditività legata all’andamento dell’economia reale. Una direzione che avrebbe, secondo il presidente della Consob, l’effetto di alleggerire la politica monetaria del peso di manovre inusuali sui tassi di interesse.
Non entriamo nelle soluzioni tecniche che possono essere diverse.
Quel che preoccupa è il totale silenzio della politica, cui spetta il compito di intervento e di decisione.
Lor signori del Parlamento hanno ben altro per la testa.
L’imminenza delle elezioni politiche, con la conseguente preoccupazione di dover riempire un Parlamento ridotto nel numero e nella rappresentatività, grazie a una delle tanto scellerate riforme propinate dal grillismo della prima ora e subite dal restante stuolo di partiti vili e impavidi; la riforma elettorale con l’idea montante di un ritorno al proporzionalismo; il federalismo rafforzato con tutto quello che comporta in termini di frammentazione dell’unità nazionale e di ulteriore divario tra Nord e Sud del Paese, tra regioni ricche e regioni povere; la velleitaria e mai datata idea di creare un centro di gravità permanente con le frattaglie di partitini e gruppuscoli scaturiti da precedenti scissioni e cambi di casacche di deputati e senatori (circa 400 nel corso di una sola legislatura) e altro ancora. Niente, comunque, che abbia un minimo di attinenza con i problemi reali del Paese. Né con con quello che accade fuori dai nostri confini.
Soffermiamoci sulla guerra scatenata da Putin in Ucraina.
E’ fuor di dubbio che ci troviamo di fronte a uno di quegli episodi sconvolgenti che, per loro stessa natura, mutano il corso della storia, fanno saltare paradigmi e configurano un mondo con assetti diversi.
Soltanto i ciechi non vedono che sulla pelle delle popolazioni ucraine si stanno imbastendo nuovi terreni di conflitto tra le potenze di Washington e di Mosca, si vanno delineando nuove zone di influenza e si misurano le strategie egemoniche di un mondo non più bipolare tra Occidente ed Oriente, con la Cina di Xi che avanza come un rullo compressore conquistando nuovi spazi economici a cominciare dal continente africano, dopo aver attirato finanze e industrie dal primo nel segno del turbocapitalismo, comprimendo diritti e libertà al suo interno.
In questo turbillon di squilibri ed equilibri nuovi non ancora del tutto definiti, l’Europa è come un vaso di coccio fra vasi di ferro. Sconta gli errori e le incertezze del passato.
Paga lo scotto di essere una entità indefinita nella sua dimensione politica e appena abbozzata sul piano della convergenza economica e finanziaria. Per non parlare del profilo sociale, di quell’Europa sociale, tante volte evocata, ma mai concretamente attuata.
Ora che la guerra ha messo tutti con le spalle al muro e fatto emergere i limiti di un’Europa che è tutto fuorché federale, una aggregazione di Stati e di Nazioni che faticano a trovare una identità comune, avendo ognuno la sua e l’una diversa dall’altra, a Bruxelles si cerca di correre ai ripari. Non è mai troppo tardi, verrebbe da dire.
La storia è piena di accadimenti improvvisi e inaspettati che possono cambiarne il corso. In queste circostanze, però, bisogna avere il coraggio di ripensare il modello, di mettere in discussione le cose che non vanno e calibrare un progetto che sia credibile e funzionale, un progetto, per così dire, “rivoluzionario”.
Prendiamo la globalizzazione.
La pandemia, prima, e la guerra nel cuore del nostro Continente, ora, hanno mostrato i suoi limiti. Per milioni di uomini, in Europa e fuori dall’Europa, è diventata insopportabile.
Aumento delle diseguaglianze, pauperizzazione e precariato, ciò che Robert Castel chiama “insicurezza sociale”; intensificazione delle forme di sfruttamento, sia manuale che intellettuale; distruzione dell’ambiente ossia dei modi di vita che permettono la solidarietà tra categorie sociali e tra generazioni; crisi dei modelli democratici e affermazione delle autocrazie: la globalizzazione capitalistica, pur portando progresso e benessere in molte zone del mondo, ha prodotto, in altre parti e sotto diversi profili, danni incalcolabili e catastrofi destinate a moltiplicarsi, violenze di cui si parla poco.
Con questo non si vuole intendere che se ne debba prescindere e fare a meno. Non è possibile. I popoli europei, e non solo loro, non hanno alcuna possibilità di collocarsi fuori dalla globalizzazione. Il processo è irreversibile, comunque la si pensi.
E’ un processo che appartiene alla storia dell’umanità. Un processo che si basa sulla forza propulsiva del capitalismo, che ne determina le principali caratteristiche attuali e, insieme, gli effetti contraddittori. Però, per dirla con il filosofo Etienne Balibar, “la portata del fenomeno va al di là della dimensione capitalistica, e in ogni caso lo espone a contraccolpi imprevedibili”.
Su questo, su tali contraccolpi va appuntata l’analisi. Per concludere che bisogna ripensare il modello Europa, costruire un’altra Europa, una entità politica che sia solidale e democratica capace di agire nella globalizzazione stessa, e sulla globalizzazione.
Un’Europa che cambi il modo in cui il mondo è globalizzato. Ne consegue che per adempiere a questo ruolo e centrare l’obiettivo, L’Europa deve cambiare profondamente se stessa, ripensare “le strategie di protezione dei rapporti sociali delle sue popolazioni e regolare i processi di circolazione e di trasformazione, del locale e del globale”.
La revisione dei Trattati, invocata da Draghi recentemente, è un primo importante passo. Ma non basta a configurare ancora l’architettura di una nuova Europa né è sufficiente a colmare gli effetti negativi delle tendenze del capitalismo finanziario. Analogo discorso vale per la difesa europea.
Il riarmo tedesco, sollecitato dalla guerra in Ucraina, prelude in qualche modo alla costruzione di una forza militare continentale uniforme e tecnologicamente attrezzata.
Ma non si costruisce un contingente militare comune, moderno ed efficace, se prima non si costruisce una politica estera comune, un quadro finanziario omogeneo, una rappresentatività internazionale capace di parlare un solo linguaggio. Un forza che sappia calibrare la sua presenza nell’alleanza atlantica senza doverne essere subalterna e succube. Un’Europa che sappia portare nei tavoli che contano una credibile proposta di riforma delle istituzioni internazionali, a partire dal Fondo monetario internazionale fino alla Corte di giustizia e all’Onu, ossia in quelle istituzioni che sono lo specchio di rapporti interimperialistici e di equilibrio tra potenze statali appartenenti ad un’altra epoca. Insomma, stiamo parlando di un’Europa che si affermi come potenza.
E di cui sarebbe utile discutere in Parlamento. Prima che siano le solite oligarchie tecnocratiche a stabilire quale debba essere il nostro futuro. In questo desolante panorama di poleticume, di arruffoni e di trasformismo eretto a sistema, ci coglie il dubbio che il Parlamento possa riuscirvi.
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