La mancanza di una efficace politica energetica si ripercuote sui bilanci familiari.
Tra oneri e sistemi d'imposta lo Stato incassa dagli aumenti il 30% dell'importo complessivo.
Il recente articolo di Valeria Bomberini sulle dinamiche economiche dell’energia, legate ai fattori mondiali di domanda/offerta e alle sofferenze della politica internazionale, spinge a fare delle riflessioni e alcuni approfondimenti sulle peculiarità della situazione dell’Italia, che sembra impotente di fronte a quanto accade.
Certo non abbiamo una efficace politica energetica, è risaputo, ma forse ce ne rendiamo conto troppo tardi.
Va detto comunque che Sorgenia, alla fine del 2019, cioè prima del terremoto economico del Covid 19, ci informava che, a fronte di un prezzo medio europeo di 0,148 euro per gli utenti domestici, l’Italia era al 5° posto nella classifica dei più dispendiosi in Europa, registrando un valore di 0,234 euro/kWh, dietro soltanto a Danimarca (0,308), Germania (0,292), Belgio (0,287) e Irlanda (0,255), mentre in Francia il costo del kWh equivaleva a 0,171 euro dovuto all’utilizzo di molta energia nucleare; paesi come Lituania, Ungheria e Bulgaria erano sotto lo 0,126 euro/kWh mentre altre nazioni, come l’Ucraina e il Kazakistan, pagavano il prezzo più basso, con 0,031 euro/kWh!
L’Eurostat tuttavia, per il prezzo del kWh non domestico, vale a dire quello destinato all’industria, ci metteva al primo posto in Europa, con 0,167 €/kWh davanti a Germania, Regno Unito e tutti gli altri, dandoci quindi la maglia nera dei più cari in assoluto, anche perché la nostra Nazione produce l’elettricità principalmente per mezzo del gas naturale, che è molto più costoso.
Queste sensibili differenze avvengono sicuramente per il diverso mix delle fonti di approvvigionamento della materia prima, che incide sul prezzo finale, ma anche per le imposizioni fiscali e per i costi del trasporto e della commercializzazione dell’energia.
Ma se è chiaro che paghiamo l’energia elettrica più cara di altri, non è altrettanto semplice capire come si forma il prezzo finale nelle bollette e cosa dovremmo fare per risparmiare.
Paradossalmente nel nostro paese la complicazione dei prezzi legati all’energia elettrica è figlia dalle prescrizioni introdotte della UE per rendere competitivo il mercato e più trasparente la formazione del prezzo; è utile pertanto scoprire come siamo arrivati a rendere la bolletta dell’energia elettrica così macchinosa e quando ciò sia avvenuto.
A partire dal 1° gennaio del 2004, per aderire alle indicazioni dell’Unione Europea, va in attuazione la Delibera ARERA (Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente) n. 165/03, che con una serie di rimandi ad altre leggi e altre precedenti delibere, tipici delle scatole cinesi che solo la burocrazia italiana sa fare, stabilisce i nuovi componenti e parametri delle tariffe elettriche.
Ne deriva che il prezzo del kWh è in funzione di contratti dove si applicano 7 tipologie diverse di componenti tariffarie (A2, A3, A4, A5, A6, UC4, UC5), per 6 tipologie di utenze, con 4 differenti fasce orarie di utilizzo e, in ultimo, è legato a due diverse componenti (CCA e CD influenzate da 7 elementi PC, OD, CD, INT, DP, VE, PV) dove compare un parametro dato dalla formula:
Fa sorridere l’idea che il cambiamento è mirato a rendere più concorrenziale e trasparente il mercato, dato che se il mercato dell’energia era diventato così complesso da far nascere la nuova professione dell’Energy Manager, il tecnico esperto nell’ottimizzare le forniture energetiche ed il relativo risparmio, per il semplice cittadino cercare di risparmiare sulla bolletta è una utopia.
Ma non è finita qui: nel corso degli anni le componenti tariffarie aumentano e si complicano (Ae, As, UC3, UC6, etc.) al punto che nel 2018, l’ARERA, che nel frattempo ha fagocitato l’AEEGSI (Autorità per l'energia elettrica, il gas ed il sistema idrico), sempre in ossequio alle direttive europee, decide di semplificare le cose stabilendo che il prezzo dell’energia elettrica debba essere formato solo da 4 voci: la materia energia, il trasporto e la gestione del contatore, gli oneri di sistema e le imposte, lasciando al distributore la libertà di manovra sul prezzo dell’energia mentre i costi per il trasporto e la gestione del contatore, gli oneri di sistema e le imposte, sono decisi dall’Autorità (e dallo Stato).
La semplificazione tuttavia è stata solo apparente, perché se si cerca di capire cosa siano gli “oneri di sistema”, in genere pari a poco meno del 20% dell’importo dell’intera bolletta, compaiono due voci dai misteriosi acronimi: l’ASOS (Oneri generali relativi al sostegno delle energie rinnovabili e alla cogenerazione) e l’ARIM (Rimanenti oneri generali), a loro volta articolate in ben 12 diversi elementi, applicati in maniera distinta alle diverse classi di agevolazione o di contratto, di concerto con altre due ulteriori componenti perequative, per cui l’importo che si paga è sottoposto tecnicamente ad una sorta di rubinetti in parallelo, che l’Autorità apre e chiude a propria discrezione, consentendo di ridurre o aumentare le tariffe in modo mirato alle varie tipologie di utenti e alle varie circostanze.
Il consumatore, quando accende la luce in casa, dovrebbe sapere perciò che sta contribuendo:
✓ Alla copertura dei costi connessi allo smantellamento delle centrali elettronucleari dismesse
✓ Alla copertura dei costi per la perequazione dei contributi riconosciuti alle Ferrovie dello Stato
✓ Alla copertura dei costi relativi all'attività di ricerca e sviluppo finalizzata all'innovazione tecnologica
✓ Alla copertura degli oneri derivanti dall'adozione di misure di tutela tariffaria per i clienti del settore elettrico in stato di disagio
✓ All’incentivazione della produzione di energia da rifiuti non biodegradabili
✓ Al finanziamento delle misure di compensazione territoriale
✓ Etc. etc. (tra cui il meccanismo per compensare il mancato incasso dagli utenti morosi)
Prima di abbandonare definitivamente questa palude gioverà sapere che oltre il 90% della componente ASOS finisce al GSE (Gestore dei Servizi Energetici), Società per azioni interamente controllata dal Ministero delle Finanze; una parte della componente ARIM (l’ASRIM) è girata alla CSEA (Cassa per i Servizi Energetici e Ambientali), Ente pubblico economico che utilizza i fondi per dare incentivi di aziende ed operatori meritevoli (spesso lo stesso GSE) ed altri progetti ed attività collegate al mondo dell’energia, mentre una parte dei costi di trasporto, corrisposta ai distributori, è girata a TERNA (società che gestisce la rete elettrica nazionale, partecipata al 17% dalla Cassa Depositi e Prestiti) per coprire i costi del dispacciamento.
Il quadro che emerge fa venire il sospetto che la bolletta sia diventata uno strumento di tassazione addizionale, nemmeno troppo occulta (non dimentichiamoci del canone RAI), dato che agli operatori rimane poco meno del 60% dell’importo incassato (costo della materia prima e relativi oneri) mentre una bella fetta dell’esborso energetico finisce bene o male alla struttura dello Stato, che mediamente si porta a casa oltre il 30% dell’importo complessivo tra oneri di sistema ed imposte.
Le misure di sostegno al caro bollette, che il Governo sta faticosamente mettendo in atto (circa 10 miliardi di euro tra luglio 2021 e gennaio 2022), sono state enunciate come un sublimi sforzi finanziari, in quanto comportano pesanti sacrifici al già compromesso bilancio nazionale.
Nessun rappresentante del Governo però vuole ammettere che, a fronte dell’annunciato aumento del prezzo dell’energia del 55%, si produce un effetto di trascinamento delle risorse economiche che lo Stato incassa, in virtù delle citate componenti e delle imposte, che porta il prelievo dal consumatore ad importi aggiuntivi da capogiro.
Lo scenario complessivo è riassunto dal confronto tra il 1° trimestre del 2019 e quello del 2022: nel giro di 3 anni la spesa per l’approvvigionamento dell’energia e la commercializzazione è passata dal 47,6% al 80,8,1%, la spesa per il trasporto e la gestione del contatore è passata dal 18,2% all’8,4%, il peso degli oneri di sistema, prima al 19,4% è stato azzerato mentre le imposte dal 12,8% sono scese al 10,8%.
Quindi, è innegabile la presenza di manovre compensative per alleggerire le bollette; ma secondo i dati di Terna se si fanno conti sommari (senza, tuttavia, discostarsi molto dalla realtà) si vede che nel 2021 il fabbisogno italiano è stato pari a 318,1 miliardi di kWh, pari a non meno di 58 miliardi di euro di fatturato complessivo, su cui è gravata un’IVA media del 13% (10% per le utenze domestiche e del 22% per utenze industriali e servizi).
Pertanto, solo come imposte, lo Stato nell’anno scorso dovrebbe aver incassato almeno 7,5 miliardi di euro.
Il recente incremento del costo dell’energia del 55% comporta che l’incasso previsionale della sola IVA sale a quasi 11,7 miliardi.
Questo, lasciando perdere tutti gli altri effetti delle componenti che vanno ad arricchire le entrate statali dei vari Enti dedicati al settore energetico e - guarda caso - hanno i bilanci in utile. Siamo sicuri che non si poteva fare di più?
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