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De Chirico pictor metafisico

Tessaglia, regione storica della Grecia, terra d’origine del semi-dio Achille e del mitico Giasone, nonché dimora dell’Olimpo. Da qui, e preci­samente da Volos, nei primi anni del secolo passato, ha inizio il viaggio di De Chirico. Un viaggio che ha qualcosa in comune con quello di Ulisse, di Enea, dei tanti coloni della Magna Grecia, e, giù giù, con lo stesso viaggio del Foscolo, esuli di schiatta leggiadra, dal destino – ammesso che sia ipotizzabile – segnato dal fato.

Appare come una circostanza da nulla, utile solo ai cronisti per arricchire di riferimenti affascinanti i loro lavori. Ma non è solo così. Della Tessaglia e della Grecia De Chirico si carica delle ombre – o dei fantasmi? – degli eroi omerici, degli stilemi architettonici e della figurazione scultorea classica, dell’insieme dei miti immortali, tabulae paradigmatiche in cui lèggere le vicissitudini umane d’ogni tempo e li trasfonde nell’aurea visiva della sua immaginazione. De Chirico, per questo, non è mai solo: lo accompagnano le muse, le anime belle della storia, dell’arte, della filosofia e della mitologia della sua patria.

E ancora, per tutto ciò, la sua visione del reale – in effetti è tale non apparendo neppure minimamente deformata come in Dalì – occorre vederla in una sorta di percezione tri-dimensionale: a) in primo piano, le cose sfoggiano la loro forma a noi più familiare; b) in secondo piano, paiono contestualizzarsi in rapporti e in siti inusuali; c) in terzo piano, alludono ad orizzonti e significati che ci sfuggono, ma che, contemporaneamente, ci catturano, esponendoci alle malie del mistero e del sogno. Dal primo al terzo piano avviene quella che passerà come la cifra della pittura di De Chirico, il suo essere, appunto, una rappresentazione metafisica, che, pur attraversando diverse fasi rappresentative, non tradirà giammai la sua primitiva caratteristica: un’arte fatta non solo per il piacere della vista – come lo fu tutta la pittura fino a quella impressionista – ma anche per la sorpresa dell’insensatezza e dell’enigma.

È quanto – nonostante i fasti delle avanguardie – fa originale e grande la sua arte, sia in Italia che in Europa. La novità rappresentata da quest' outsider fa scuola un po’ dappertutto e l’eco che ne rimbalza suggestiona giganti della stazza di Dalì, Max Ernst e Philip Guston. La si voglia chiamare inizialmente enigmatica e, successivamente, metafisica, la sua pittura resta, a conti fatti, come una delle massime espressioni artistiche del secolo scorso.

Come per ogni carriera artistica che si rispetti, anche per quella di De Chirico si indicano diverse fasi, attraverso le quali la sua pittura si propone, si afferma e si stigmatizza non come arte organicamente compresa in una corrente, ma come espressione capostipite, esemplare e unica nel suo genere. Non bisogna dimenticare, a questo proposito, che la sua pittura si manifesta in concomitanza con il frastuono futurista: niente di più antagonistico e oppositivo. Qui i canoni espressivi si profilano in termini di movimento, di velocità nel nome di un soverchiante dinamismo. Nella pittura di De Chirico, invece, non si può attendere nulla di più immobile e silenzioso. È dato pensare a queste due espressioni artistiche – al futurismo e alla metafisica – come a due sintomatiche pulsioni della vita moderna che si annunciava agli albori del secolo ventesimo: da un lato, il convulso sommovimento provocato nella società dall’affermazione di media quali l’automobile, l’aereo e il treno – segni evidenti dell’ormai primeggiante industrialismo – e, dall’altro, con Freud in cattedra, un contemporaneo convergere delle coscienze verso l’interiore, fino a scorgerne le plaghe del subconscio e le profondità dell’inconscio. E Boccioni e De Chirico, vuoi o non vuoi, pescano, rispettivamente, alla grande in questi due bacini.

Un altro aspetto, pressoché esclusivo della pittura metafisica di De Chirico e che ne fa elemento caratteristico di differenziazione rispetto alla pittura classica e a tutta l’arte delle avanguardie, è il ruolo svolto dal soggetto stesso dell’espressione figurativa. Nella pittura classica, impressionismo compreso, il soggetto dei dipinti è palese, personaggio parlante, ultra-presente, signore incontrastato e inconfondibile delle campiture stese sui più vari supporti (tela, tavola, affresco). Nelle avanguardie, il soggetto si smembra nel cubismo di Picasso, si smaterializza nel costruttivismo di Mondrian, scompare nell’astrattismo di Pollock, si nullifica – e parrebbe per sempre – nel suprematismo di Malevic. In De Chirico il soggetto torna ma a suo modo: essendo divenuto il fantasma di sé stesso, non è più palese, non parla, s’è fatto personaggio in cerca d’autore a cui ciascun osservatore può dare il suo nome: Onirico?, Enigmatico?, Allusivo?, Misterioso? o – più genericamente – Metafisico? Trattasi, come pure si potrebbe dire, di autentica rivoluzione pittorica: i più naturali riferimenti o richiami si piazzano nello spazio di caselle insospettate sullo scacchiere della fabula pittorica. E De Chirico ne vien fuori, alla fine, da pezzo dominante, nelle sue fogge barocche.

Ma occorre pure abbassare lo sguardo su alcune opere significative di questo pictor trascendentale. Nel suo magnifico album vi sono opere che segnano i picchi e le svolte del suo percorso creativo: la serie delle piazze metafisiche, dei manichini, delle muse, dei sontuosi autoritratti.

L’atto fondativo della sua pittura metafisica, a cui non risulta estraneo il contributo di Carrà, è rappresentato da “L’enigma di un pomeriggio d’autunno”, 1910 (fig. 1). Per quest’opera è significativo l’antefatto, fin troppo noto, narrato dallo stesso autore: a Firenze, il pittore si ritrova seduto su una panca in Piazza Santa Croce. E qui, forse per il carico di memorie custodite nella basilica gotica o per sapersi seduto all’ombra del monumento di Dante, per una suggestione che evidentemente veniva da lontano, l’artista subisce una specie di palingenesi da incantamento: s’innesca un gioco misterioso di rimandi che, da un livello subconscio, salgono su non verso il dominio della coscienza presente ma verso il filtro della visione enigmatica: estraniamento, solitudine, inquietudine divengono i cattivi folletti della sua “metafisica”, che, come presenze fantastiche invisibili, si annidano negli spazi nascosti delle architetture e dei monumenti che popolano le opere di questa serie.

Nel dipinto, la prospettiva centrale costringe lo sguardo a cercare un punto di fuga che non c’è: il che, di suo, già produce un effetto di spaesamento. L’ombra lunga delle due figure sulla piazza e del monumento rimanda immediatamente al sole calante, prossimo a lasciare il suo posto alla notte. Le due aperture, che aprirebbero la vista verso l’infinito, sono occluse da pesanti e improbabili tendaggi. Le due suddette, minuscole figure presenti sulla piazza non paiono dialogare tra loro; anzi la donna dal vestito rosso tiene una mano sul volto, come a non voler vedere. Una cortina alta, un muro che rosseggia al tramonto, blocca e restringe lo spazio della piazza fino a farne appena uno slargo. Al di là, una vela, gonfia di vento, fa pensare ad un naviglio di passaggio su un mare invisibile. Il cielo, una immota striscia d’azzurro, calca il suo peso su tutto lo scenario. Si dica subito se questi elementi non inducono effetti di solitudine spaesante e straniante: di quella solitudine tante volte narrata dagli scrittori esistenzialisti e di quella incomunicabilità cara anche a certa cinematografia.

Ne “Le muse inquietanti”, 1917-’18 (fig. 2) si è sul finire del primo conflitto mondiale. La circostanza non è del tutto estranea alla sensibilità del pittore. Verrebbe da pensare che le lunghe ombre proiettate sulle sue piazze, sia prima che dopo quel conflitto, non siano solo d’origine metafisica. Sono ombre che oscurano minacciosamente i paesaggi urbani ideati dall’artista, significativamente fissati sulla tela non sul far del giorno ma sul suo declinare, un declinare anche delle bellicose società contemporanee, forse smarrite in un conflitto tempestato da immani disastri.

La tela vibra anche per via di queste risonanze, non potendosi concepire solo come risultato di un’ispirazione estetica assolutamente avulsa dai condizionamenti del tempo. Ecco, allora, che, sull’ennesimo palcoscenico d’una piazza italica, tornano a recitare nuovi personaggi, che assumono forme umane, ma che restano tuttavia inanimati: manichini, appunto, tragicamente assurti a simulare, e solo a simulare, un’umanità che resta finta e sgraziata, dura e sorda come una statua. De Chirico ha imposto al quadro il titolo di “muse inquietanti”. Che siano inquietanti lo sono di per sé. Sorprende, invece, che siano chiamate così. Le muse della mitologia, protettrici delle arti, invocate dagli artisti, suscitatrici dell’ispirazione creativa, amiche dell’umanità eletta, assumono in quest’opera l’aspetto certamente inquietante di presenze annichilite nella loro potenzialità: figure inutili, sconfitte dalla pretenziosità dello spirito moderno, sordo ai richiami del passato, cieco di fronte alle grandezze delle sue vestigia.

I due piani in cui è diviso il quadro, a-prospetticamente raffigurati, richiamano due mondi: il passato, di cui si appalesano solo figurazioni smorte e per nulla allusive a glorie d’antan, e il presente nelle effigi del castello estense di una Ferrara che più metafisica di così non si può. Non mancano, a segno d’un tempo industrializzato, i camini d’una fabbrica, che – c’era da aspettarselo – non fumano.

La composizione è di un’originalità strepitosa, ove sono presenti i connotati che si possono vedere in tutti i dipinti della serie delle piazze d’Italia: la metafisica aiuta a vedere, dietro le cose visibili, l’invisibile dei significati a cui, tante volte, ci rimanda il nostro subconscio: è il gioco delle parti a cui non possiamo sfuggire. È il nostro essere razionali che pare dilettarsi coll’irretirci nella rete delle visioni impossibili.

Quasi al termine della sua carriera, e come esausto dall’aver esplorato tutte la vastità della metafisica in immagini pittoriche sorprendentemente allusive ad una realtà “altra”, De Chirico si ripiega in sé stesso, riscoprendo in qualche modo – questa volta però nella fastosità di uno stile barocco rivisitato – l’enfasi della ritrattistica calata sulla sua stessa persona. A questo riguardo, sono emblematici i numerosi autoritratti che lo colgono, come pure s’è detto, in pose e fogge singolari, e per noi, ormai assuefatti ai pixel dei numerosissimi selfies, ancor più sorprendenti.

È il caso dell’”Autoritratto con corazza”, 1948 (fig. 3), immagine austera come il personaggio raffigurato. La corazza non pare proprio quella di Achille – che ne poteva fare anche a meno – , il mantello si addice piuttosto ad un sovrano ovvero ad un condottiero, il paesaggio del fondo, poi, sovrastato da un cielo a volute, possiede sicuri richiami tizianeschi. Lo sguardo, per finire, la dice più lunga di qualsiasi possibile descrizione: austerità, dignità, sicurezza, orgoglio, in un profilo – lo si ammetta – pour esso metafisico. De Chirico, insomma, vi appare come Giasone, che, a capo degli artisti italiani del novecento, ha conquistato il suo vello d’oro.



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