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Gaza, una guerra senza fine


Dal 7 di ottobre, esattamente come vent’anni fa, seguiamo tutti con orrore il conteggio delle vittime di questo conflitto disumano, mai sopito, ma forse ultimamente quasi dimenticato dal mondo occidentale. Il 7 ottobre ci è stata ricordata l’esistenza dell’orgoglio incattivito di Hamas, che all’alba del sabato ha iniziato una massiccia operazione aerea, via terra e via mare dalla striscia di Gaza. Migliaia di missili sono stati lanciati dai miliziani mentre oltrepassavano il confine israeliano e irrompevano nel mezzo del Nova Festival al Kibbutz Re’im, poco distante dal confine con la striscia di Gaza. Un episodio che ci riporta tragicamente indietro alle immagini della strage del Bataclan e ci mette di fronte all’evidenza più cruda che non si può più prendere tempo sul conflitto israelo-palestinese.

Al di là di ogni sacrosanto inorridimento per la crudeltà di questo attacco, leggendo oramai da settimane i pareri più disparati, più o meno competenti, di chi si dichiara guerra virtuale nel voler addossare l’intera responsabilità di questi eventi, ritengo sia più opportuno cercare di raccontare, per quanto possibile, questa guerra nell’ottica più cinica del binomio causa-effetto, cercando di comprendere il percorso degli eventi.

Hamas è un’organizzazione fondata nel 1987 e nata dall’ispirazione del movimento egiziano dei Fratelli Musulmani, il cui scopo principale era quello di dare voce a tutta una fetta di popolazione in Palestina, che di fatto vede l’ANP – l’Autorità Nazionale Palestinese, l’organismo governativo ufficiale palestinese nominato ad interim con gli accordi di Oslo – non più come un’autorità credibile e quindi l’obiettivo di costituire un vero e proprio Stato Islamico, riappropriandosi dei territori “occupati” dallo Stato di Israele.

Di fatto, nel corso degli anni ha incarnato sempre più le caratteristiche di una vera e propria organizzazione terroristica di matrice islamica.

Ma cosa è successo? Perché proprio adesso? È una domanda insidiosa anche per i più esperti analisti.

È difficile credere che un’organizzazione come Hamas potesse essere una potenza di questa portata e avere una capacità militare tale da aggirare l’intelligence israeliana – oramai ben equipaggiata dall’appoggio americano – seppur con i limitati mezzi a disposizione di cui è in possesso. Eppure, le fonti più informate parlano di un’organizzazione messa in piedi addirittura nell’arco di un paio d’anni.

È molto interessante la visione di Lucio Caracciolo, direttore della rivista Limes, che ha cercato di leggere lo scontro analizzandolo su più livelli.

Secondo il giornalista, la spiegazione del momento storico d’azione non può non essere letta parallelamente da un punto di vista più ampio e da uno più strettamente regionale, che arrivano inevitabilmente ad intersecarsi.

La guerra scatenata da Hamas non può non essere interpretata come il risultato e l’arena del rimescolamento dei giochi di forze tra i principali attori internazionali; l’evidenza delle possibilità che vengono aperte anche agli attori più piccoli che riescono a sfruttare i vuoti di potere lasciati dalle grandi potenze, distratte su altri fronti.

Questa spinta si palesa ovviamente negli scenari locali. Nel caso dello scontro israelo-palestinese viene ben assorbita da un contesto regionale già in piena crisi, come quello di Israele, alle prese col governo di Netanyahu, che governa il Paese di fatto con una maggioranza forzata ed artefatta e che deve fare i conti coi problemi interni di un Paese già difficile come Israele.

In più come non tenere conto dell’occasione di Hamas di poter rimescolare le carte in Medio Oriente dopo che il vento sembrava muoversi verso un processo di normalizzazione generale dei rapporti tra i Paesi arabi ed Israele, ad esempio rallentando il percorso degli accordi tra Arabia Saudita e Israele - per cui gli Stati Uniti lavoravano da tre anni - sul quale stava avanzando un’ondata di ottimismo generale e che adesso inevitabilmente resteranno appesi ad un limbo, con la speranza che il principe saudita non decida di tornare sui suoi passi.

Una possibilità ancora da non dare per scontata, ma sicuramente da mettere sul tavolo delle ipotesi.

Dall’altra parte vediamo un Paese – Israele – che in un certo senso ha le mani legate: nonostante l’atrocità delle azioni necessarie, non può permettersi di non rispondere ad un’invasione di questa portata.

Come la si vede, Israele è costretto a vincere questa guerra, ne andrebbe della sua credibilità come Stato; eppure, allo stesso tempo sarebbe una vittoria a metà. Impossibile riuscire a scardinare l’animo sovversivo di un apparato che per vent’anni (ricordiamo che oramai c’è tutta una nuova generazione che si fa avanti all’interno di Hamas) è cresciuto vedendo il suo popolo orfano di una vera identità politica e sotto la nube dell’indottrinamento continuo alla distruzione totale d’Israele. Impossibile oramai anche fermare quel seme d’odio, covato da mezzo secolo e che viene inevitabilmente e nuovamente reimpiantato col susseguirsi degli scontri.

La risposta militare israeliana alla fine è stata annunciata il 28 di questo mese, con un’operazione di terra che era attesa ma che finora era rimasta in forse per diversi fattori.

Prime fra tutti le pressioni americane, che guardano alla preoccupazione di un problema umanitario ancora più grave, specie se scatenato da un’escalation militare che possa coinvolgere Stati come il Libano o l’Iran, da sempre principale sostenitore di Hamas.

O il rischio che l’opinione pubblica a lungo andare possa non sostenere più il governo israeliano, indebolendo ancor di più il consenso di Netanyahu e mettendolo di conseguenza in crisi anche dal punto di vista del sostegno militare.

Cosa ci possiamo aspettare?

Verosimilmente, le opzioni sono ancora tutte aperte. Nella peggiore delle ipotesi il conflitto potrebbe allargarsi, scatenando le forze di altri attori – come ad esempio Hezbollah, il partito sciita e antisionista libanese.

Opzione che tutti auspichiamo non prenda mai forma.

L’invasione potrebbe rimanere circoscritta alla striscia e coinvolgere obiettivi limitati, non permettendo al conflitto di degenerare. Opzione sempre meno probabile, visto l’intensificarsi degli scontri, concentrati soprattutto al nord. Così come ad oggi sempre meno probabile, è l’alternativa del cessate il fuoco, così come richiesto dalla risoluzione ONU, avanzata dalla Giordania nella giornata del 27.

Tuttavia, il quesito da porsi, e che influirà in maniera determinante nel potenziale successo di un processo di distensione duraturo nella regione resta uno ed è il più importante.

Quello che ancora ad oggi manca è un orizzonte politico entro cui calare la riuscita di qualsiasi operazione. Anche in un’eventuale vittoria israeliana, si tornerà allo status quo con una nuova occupazione militare della striscia o seguirà un ritiro militare? Quale sarà la prospettiva per i territori della cosiddetta West Bank?

Questi i quesiti fondamentali che Netanyahu è costretto a fronteggiare, così come le istituzioni internazionali, che continuano a puntare il dito guardando a quello che è stato. L’ISPI riporta il pensiero di Yossi Beilin (politico israeliano che partecipò agli accordi di Oslo), il quale ribadisce che l’unica soluzione è quella di lasciare i due popoli nei rispettivi territori. Unica condizione richiesta: rispetto reciproco dei due popoli. Al momento, condizione già fallita in partenza.

E intanto il numero delle vittime sale.



 

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