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Guerra e fine delle illusioni



Smettiamola di illuderci.

La bestialità orripilante dei terroristi di Hamas scatenata contro gli ebrei, le atrocità consumate contro i bambini, il sequestro di ostaggi da immolare sull’altare del fanatismo religioso e da sventolare dinanzi al mondo come carne da macello sono una cruda, tragica realtà con la quale fare i conti. Questa barbarie che ai nostri occhi appare senza senso, un senso ce l’ha, eccome, per i carnefici. Per costoro non c’è differenza tra vita e morte.

Anzi, nel martirio preludio della morte - non solo per sé ma per chiunque “infedele” sia vittima della sua follia omicida—il terrorista trova il senso della sua stessa esistenza, il coronamento di un viaggio che lo porterà nelle braccia del suo Dio.

Siamo agli antipodi rispetto ai canoni della nostra civiltà. All’opposto di ogni forma persino sbiadita dei paradigmi religiosi occidentali.

Siamo di fronte all’abisso della umanità, in quel vortice impetuoso che travolge ogni umano sentimento di pietà.

Al cospetto di un nemico che ha radicalizzato lo stesso islamismo trasformandolo in una ideologia totalitaria.

Qualcosa di più feroce e pericoloso. Qualcosa che rischia di infilarci, ove ancora non fosse chiaro, in una sorta di dimensione globale del conflitto.

Avremmo dovuto capirlo all’indomani dell’attacco alla Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, della strage del Bataclan, degli attentati nel cuore dell’Europa.

Sono passati venti anni e più da allora.

E siamo tornati al punto di partenza. Allora, nelle immagini dei due aerei che si conficcavano nel ventre delle Torri in una tranquilla giornata di fine estate percepimmo la vulnerabilità del nostro sistema.

Ci sentimmo tutti più deboli e indifesi. Scoprimmo che i nostri valori di accoglienza, di tolleranza, di ospitalità verso chi arriva da altri paesi ad abbracciare i nostri modelli, i nostri costumi, il nostro stile di vita e la nostra democrazia, faticavano ad essere compresi e assimilati da coloro che erano cresciuti in mondi diversi, professando dottrine e culture differenti.

Nelle crepe dei nostri sistemi i terroristi erano riusciti ad infilarsi e a mimetizzarsi fino al momento di esplodere il loro odio assassino con il tragico carico di sangue di cittadini inermi e innocenti.

Anche allora l’Occidente, a parole, si mostrò compatto. “Siamo tutti americani!”, “Siamo tutti francesi!” e così via a scandire frasi tanto retoriche quanto vuote. Siamo bravi, inutile nasconderlo, nell’uso delle parole quando si tratta di sbianchettare la coscienza e cercare alibi alla superficialità, all’inerzia, a quel moto di codardia che affligge i popoli quando dimenticano gli insegnamenti della storia e sfuggono alle loro responsabilità.

Ora come allora torna a levarsi il coro: “Siamo tutti con Israele!”. Tutti, proprio tutti? Non proprio.

Mentre scorrevano sui teleschermi di tutto il mondo le immagini agghiaccianti dei giovani del raduno rave ai margini di Gaza inseguiti dalle pallottole degli sgozzatori di Hamas, scene di stupri, sequestri, bambini strappati dalle braccia delle madri, sollevati dalle culle e trasportati nei tunnel scavati nella sabbia, attuale biblica strage degli innocenti; mentre assistevamo, increduli e annichiliti, ad una così spietata e inaudita violenza, già si preparavano striscioni e cortei a sostegno della “nuova Intifada” scatenata da Hamas a colpi di missili su Gerusalemme, di bombe, di ammazzamenti e sequestri di civili, di razzie nei Kibbutz.

E’ quel che Oriana Fallaci chiamava il “declino dell’intelligenza”, quella individuale e quella collettiva.

Quella inconscia che guida l’istinto di sopravvivenza e quella conscia che guida la facoltà di capire, apprendere, giudicare, e quindi distinguere il Bene dal Male.

A quei ragazzi che vanno in piazza sventolando bandiere palestinesi miste a bandiere della pace, che si fanno intervistare in tv mostrando un piglio da pseudorivoluzionari salottieri, che non sanno nulla di nulla della storia passata, di quelle terre martoriate e neppure delle vicende complesse che hanno accompagnato il destino di quelle popolazioni vorrei dire di non lasciarsi atrofizzare il cervello.

Non si lascino instupidire, condizionare dai cattivi maestri che spuntano qua e là come funghi velenosi.

Non perdano la facoltà di ragionare e giudicare. Non si consegnino al pensiero altrui e alle soluzioni già pronte, a quelle idee già elaborate e pronte all’uso. Non si sottomettano alle facili teorie del politicamente corretto.

Per cui si rispolverano le formule magiche. La formula del pacifismo.

La formula del pietismo, la formula del buonismo, la formula dell’antisemitismo. Non cedano al conformismo della viltà.

Se all’inizio abbiamo scritto di smetterla di illudersi è perché questa volta la crisi mediorientale scatenata dall’azione di Hamas contro Israele e la conseguente reazione di Tel Aviv segnano uno spartiacque, una rottura con il passato. Quasi tutti gli analisti parlano di un salto di qualità del terrorismo.

E’ un dato che, da quel che si è visto, è di per sé sufficiente a riconoscere nelle modalità in cui l’attacco di Hamas è stato organizzato nel tempo e condotto sabato 7 ottobre. Ma non basta.

Qui sono in gioco altri e più inquietanti fattori su cui riflettere.

E’ evidente che alle spalle degli uomini avvolti nella kefiah con mitraglie tra le mani non si trova solo una piccola setta isolata dell’Islam. Si trova un movimento articolato e diffuso. Agiscono stati come l’Iran. Ci sono complicità estese nel mondo arabo, dall’Algeria alla Tunisia. Ambiguità di governi come quello del turco Erdogan, tanto prodigo di diplomazia quanto aduso a giocare su più tavoli per il proprio tornaconto.

Ci sono interessi economici e geopolitici enormi. Con Cina, Russia e India che stanno a guardare con malcelato interesse.

Come non vedere la singolare simmetria tra la guerra in corso tra Ucraina e Russia nel cuore dell’Europa e le fiamme che tornano a divampare in Medioriente, nel segno di una pretesa disgregazione di Israele?

Il terrorismo, nella sua dimensione ideologica e religiosa, ha oltrepassato ormai la vecchia fase politica.

Punta alla globalizzazione del conflitto, appunto. Dietro il grido “morte agli ebrei”, si cela l’assalto all’Occidente e a tutto quel che l’Occidente rappresenta. Il nemico non è solo Israele.

E’ l’Occidente intero. Svegliamoci!

Tornano alla mente le riflessioni di Douglas Murray di qualche anno.

Il suo libro “La strana morte dell’Europa”, al suo apparire in Gran Bretagna, ebbe uno straordinario successo di pubblico e di critica.

Murray aveva fatto notare che al volgere del millennio era cominciata l’era del multifideismo e la questione della razza era diventata meno importante. Negli anni Ottanta e Novanta quasi nessuno aveva previsto che i primi decenni del XXI secolo sarebbero stati lacerati da polemiche religiose.

L’Europa, sempre più laica, pensava di potersi lasciare alle spalle la fede, o perlomeno credeva che dopo tanti secoli il ruolo della religione nello Stato moderno fosse ormai stabilito. Se alla fine del Novecento qualcuno avesse detto che nei primi anni del Duemila in Europa si sarebbe di nuovo discusso di blasfemia e si sarebbe tornati ad uccidere chi ne era reo, avrebbe suscitato grasse risate e sarebbe stato considerato un pazzo. Non che i segnali d’allarme non ci fossero. C’erano, e in alcuni casi erano chiari e forti. Il problema è che sono stati sistematicamente ignorati. Ma quando la Guida suprema della Repubblica islamica rivoluzionaria dell’Iran, l’ayatollah Khomeini, nel 1989, pronunciò la fatwa contro l’autore del libro intitolato I versi satanici chiedendone l’uccisione, fu chiaro che sotto tiro non c’era soltanto lo scrittore Salman Ruschdie. Si puntava ad altro e di ancor più consistente portata.

C’era il rigetto di ogni forma di integrazione e di assimilazione, da un lato, ma c’era soprattutto la spinta verso un islamismo sempre più radicale.

Poi sono arrivati gli attentati, gli uomini bomba, l’attacco alle Torri Gemelle fino alla strage degli innocenti nelle colline della Striscia di Gaza che ha innescato la nuova guerra in Palestina. In questa escalation di violenza ed orrore è diventata più debole e flebile la spinta degli ulema più saggi e autorevoli ad elaborare nel mondo arabo una risposta all’integralismo e all’islamismo radicale. Così anche l’ultima illusione è caduta nel vuoto.




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