Nell’ultimo periodo è tornata prepotentemente alla ribalta l’annosa tematica del revanscismo fascista dell’Italia, prendendo a spunto i saluti romani durante la manifestazione di Acca Larenzia dello scorso 7 Gennaio.
L’Italia Repubblicana sicuramente nasce dalle ceneri della Monarchia Sabauda e dalla caduta del regime fascista, la sua Costituzione sicuramente disconosce l’etica fascista e il ventennio che l’ha contraddistinta, ma non rinnega l’impianto sociale di alcune delle riforme che il regime attuò, anzi, le fa proprie, caratterizzandole, come è giusto e doveroso che sia, in un ambito democratico, di cui si era smarrito il senso e il significato.
La resistenza all’oppressore Tedesco ha certamente restituito la libertà e l’onore alla Patria e anche questo è un fatto indiscutibile, ma nulla potrà mai legittimare la gogna o il pubblico ludibrio, verso chi, connazionale, decise di rimane in armi a combattere per gli ideali verso i quali aveva creduto e con i quali si era identificato.
Quella fu guerra civile, atroce, combattuta tra fratelli, sotto una bandiera comune oltretutto, il tricolore, che era patrimonio sia degli uni che degli altri.
L’Italia insanguinata, tutti quei morti, gli orrori delle stragi di ritorsione da parte dei nazisti, avrebbero dovuto ricondurci tutti verso il sentiero della riconciliazione nazionale, quando invece, ancora oggi, ci muoviamo astrattamente sul terreno viscido della contrapposizione ideologica che non porta vantaggi a nessuno.
Ha senso parlare di fascismo oggi?
Io, personalmente, con l’animo Socialista che mi è proprio, dico proprio di no.
Quel movimento nacque per mano del suo ideatore un secolo fa, quando l’Italia, quantunque uscita vincitrice da una guerra sanguinosa contro l’impero Austro-Ungarico, viveva una crisi identitaria, economica e sociale gravissima. La borghesia produttiva aveva forte motivo di risentimento verso l’immobilismo dell’apparato nobiliare e clericale, con il popolo costretto a vivere in una condizione sospesa tra la povertà assoluta e la miseria latente.
Non a caso quel movimento attecchì immediatamente con le proprie radici nell’immaginario collettivo comune, non si impose con la forza, fu invece innalzato al potere con una spinta dal basso e con una velocità inusuale per la nostra storia nazionale, fiancheggiato dall’umore favorevole del popolo comune e favorito dalla codardia del potere costituito, che in un nonnulla, se avesse voluto, avrebbe potuto scompaginarlo sul nascere.
Quegli episodi e quei momenti è bene ascriverli al periodo in cui si sono manifestati e sviluppati, ricondurli ancora oggi a fenomeni del presente, è come ammettere di avere trascorso invano un secolo di storia, senza che nulla e nessuno abbia saputo presentare nel mentre un modello alternativo per lo sviluppo e la crescita della nazione.
I pesatori del passato, dai più recenti a quelli dei secoli scorsi, sentivano le vibrazioni della gente comune, avvertivano la necessità del cambiamento, assecondavano il desiderio di riscatto di chi viveva nella miseria, non rimanevano sordi ai richiami di aiuto di chi, ultimo tra gli ultimi, non aveva nemmeno la forza per gridare la propria disperazione.
Karl Marx, Friedrich Engels, Adam Smith (la ricchezza delle nazioni) Jean-Jacques Rousseau (la disuguaglianza tra gli uomini), Filippo Turati, Anna Kulishoff, propugnavano ognuno a modo proprio e in epoche ravvicinate, il riscatto sociale dei miseri bistrattati contro le angherie e i soprusi del potere costituito, per lo più allora rappresentato dagli apparati clericali e dalla nobiltà ereditaria.
Prima di loro analoghi pensieri furono espressi dai filosofi dell’era classica, quella Greca sicuramente, ma anche quella Romana.
Socrate, Platone, Polibio, Seneca, tutti uomini di pensiero, che certo mai si sarebbero sognati di teorizzare il sopruso dell’uomo sull’uomo, la preminenza degli uni sugli altri.
Mussolini, così arriviamo al dunque senza infingimenti, cosa fece? tentò secondo il suo sentire di dare una risposta convincente ai bisogni della società di allora, uscita si vittoriosa dalla 1^ guerra mondiale, ma afflitta da un mare di problemi, come e più se quella guerra l’avesse persa.
Se è riuscito ad incarnare il potere per venti anni consecutivi, gli va riconosciuto il merito di avere quanto meno saputo parlare (forse anche alla pancia) della gente comune.
Bisogna essere intellettualmente onesti dal riconoscere che lo stato sociale dell’Italia di oggi, è ancora in gran parte figlio dalle riforme del regime fascista di allora.
INAIL, INA, INPS, sono istituti sorti in quegli anni, per citarne solo alcuni, come lo sono la disciplina sul lavoro notturno, quello delle donne e, soprattutto, lo sfruttamento dei minori.
Personalmente non posso certo essere tacciato di apologia al fascismo, la mia storia è altra e mi contrappone a ogni forma di regime e di soverchia comunque praticata.
Parlare però ancora oggi di pericolo fascista, di deriva antidemocratica, di rischio dittatoriale, equivale ad idealizzare la figura del fondatore del movimento fascista.
Se a distanza di un secolo si percepisce ancora la figura di Benito Mussolini come strumento di pericolosità assoluta, quasi a riconoscergli la veste di demiurgo della vita politica nazionale, si commette un errore gravissimo, si rischia di consegnare ai posteri una figura del passato, rivalutandola ed idealizzandola oltre i suoi meriti, o demeriti se preferite.
Proprio perché non vedo motivi per idealizzare la figura di Benito Mussolini, non mi iscrivo d’ufficio al club degli oppositori, come non solidarizzo con chi lo eleva e lo colloca nell’olimpo degli Dei.
Lui per me oggi è solo Benito Mussolini, uomo autorevolissimo del passato nazionale, di indubbia capacità persuasiva ed operativa, Italiano fino al midollo, sicuramente patriota e nostalgico dei fasti passati dell’Italia che fu, una persona che avrebbe voluto consegnarsi alla storia con gli stessi allori di Giulio Cesare, di Garibaldi o di Napoleone Bonaparte, ma che ebbe invece la sventura di consegnarsi e consegnarci ad Hitler (altro nostalgico del passato glorioso della Roma imperiale, cui cercò di ispirarsi almeno dal punto di vista militare).
Dovremmo chiuderla qui e finirla di sputarci addosso le inutili etichette di fascismo ed antifascismo, nulla di tutto ciò ha senso compiuto oggi. Giovine Italia e Carbonari li abbiamo consegnati alla storia, facciamo altrettanto con l’epoca fascista, è nel nostro interesse farlo, perché fuori dai confini nazionali è utile a molti che noi si continui a propugnare una artificiosa ed inesistente divisione ideologica, perché è su quella che gli altri strumentalizzano ogni nostro agire, che ci delegittimano, che ci trattano da colonia e non da Nazione sovrana.
Il 2024, è ora che sia l’anno in cui si cominci a fare politica vera, propugnando un modello di sviluppo per la Nazione, che si indichi un percorso per garantire giustizia, uguaglianza e crescita sociale, senza continuare a contrapporci su ciò che è stato e che non ha possibilità di riproporsi per come si sviluppò allora.
L’impero Romano non tornerà, Roma, che non sarà più caput mundi, ha bisogno però di un presente e di un futuro tracciati dalla mano dell’uomo sapiente, sperando di non dovere bandire un concorso pubblico per reclutarlo.
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