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Immagine del redattoreSilvano Moffa

Il nuovo bipolarismo europeo



Nei commenti che hanno accompagnato i risultati elettorali di questi ultimi due mesi (tra elezioni europee, amministrative, elezioni francesi e cambio della guardia a Downing Street), salvo qualche rara eccezione, non sono apparsi spunti di rilievo.

Riflessioni di fondo, ricerche, studi che andassero oltre i soliti paradigmi di una lettura ancorata a categorie del pensiero ormai vetuste.

La stessa classificazione tra vincitori e vinti ha seguito il solito tran tran del rimescolamento delle carte: chi ha vinto, nel caso delle europee, la destra, in Italia (ma anche in molte altre parti della Ue), si è vista affibbiare il solito appellativo di “reazionaria”, quando non addirittura di “destra fascista e xenofoba”, mentre agli sconfitti, anche se si è trattato di sconfitta netta, si sono riservati premurosi alibi autoassolutori.

Per poi, sui giornali “progressisti”, esplodere in un eccesso di entusiasmo per il risultato delle amministrative in alcuni comuni capoluogo, peraltro in ballottaggi segnati da un preoccupante crollo della partecipazione al voto degli elettori.

Una questione, quest’ultima, sulla quale i partiti, chi più chi meno, si lasciano andare a qualche sporadica riflessione soltanto il giorno dopo le elezioni, per poi riporla nel cassetto come fosse un intralcio, un fastidio con il quale convivere, mentre è invece un delicato, complesso e preoccupante problema che mette a rischio le basi della democrazia.

Recentemente, sul Corriere della Sera, Roberto Volpi ha ricostruito il quadro allarmante della disaffezione al voto degli italiani la cui crescita esponenziale ha toccato picchi mai registrati in passato. Fino agli anni Ottanta, la flessione era stata abbastanza contenuta. Poi, c’è stato il tracollo.

Alle politiche siamo precipitati dal 72,9 per cento del 2018 al 63,9 del 2022.

In soli quattro anni abbiamo perso 9 punti, quando invece per scendere di 10 punti avevamo impiegato 33 anni, tra il 1963 (92,9 per cento) e il 1996 (82,9 per cento). La forbice si è ulteriormente ampliata nelle recenti elezioni europee, quelle dell’8-9 giugno per rinnovare il Parlamento europee, dove ha votato il 49,7 per cento degli aventi diritto: un italiano su due, a largheggiare, poco più del 48 per cento se si considera pure il voto degli italiani all’estero.

Per non parlare del peso del non voto per aree geografiche.

Il divario tra Nord e Sud, tra politiche ed europee, varia da 15 a 19 punti.

Al Mezzogiorno si vota di meno, al Nord di più. E’ stato, più o meno, sempre così. Il dato, secondo alcuni, è patologico. Ma questo non assolve le classi dirigenti, né giustifica il silenzio assordante dei partiti sulla questione del non voto.

Su Il monocolo abbiamo più volte affrontato il tema, cercando di approfondirlo nella sua complessità, esaminandone cause e implicazioni, senza veli e pregiudizi ideologici.

Abbiamo spinto l’analisi sui fattori economici, sociali, di costume, persino antropologici e quelli connessi ai grandi cambiamenti che hanno modificato stili di vita e livelli di conoscenza, soprattutto se nutriti dai social network e dal web, in un’epoca infestata di fake news, di crollo reputazionale di scuola e università, di offuscamento di valori familiari e comunitari. Non ci siamo sottratti, peraltro, ad una critica serrata della evoluzione/involuzione del sistema politico in cui i partiti non svolgono più la funzione di orientamento, di forgiatori di idee, di costruttori di opinione come avveniva in passato, né riescono ad esprimere linee e indirizzi frutto di confronto all’interno e di verifica all’esterno, ridotti come sono ad una logica puramente leaderistica, dove, come è naturale, prevale il legame e l’accondiscendenza verso il capo.

Forme di oligarchia che cozzano radicalmente con le forme di democrazia interna che ogni organizzazione di partito dovrebbe invece tutelare e garantire.

Come pure, sempre su queste pagine, abbiamo alimentato il dibattito e il confronto sulla trasformazione e trasmigrazione dei poteri, sui livelli decisionali, le gerarchie istituzionali e quelle non istituzionali che comunque influenzano la politica, anche quando si ha l’impressione che sia la politica a scegliere nella sua autonomia.

Abbiamo, insomma, scandagliato tutto il repertorio delle criticità e delle opportunità, finendo con l’auspicare un risveglio del confronto culturale - se volete: metapolitico - per rianimare un elettorato spento e sfiduciato. Per allontanare lo spettro di una democrazia monca e sfilacciata.

Nell’attesa, però, non esitiamo a dire che, tra le analisi che abbiamo letto, dopo il tourbillon elettorale delle settimane scorse, quella che più ci ha intrigato viene da Ferdinando Adornato.

Fine giornalista e studioso della politica, Ferdinando Adornato, una parabola di impegno giovanile nel partito comunista italiano che lo vede approdare nel centro-destra con l’idea fissa di un pensiero Liberal, mette il dito sulla piaga. E’ ancora concepibile avere in Italia sistemi di voto diversi per ogni consultazione? Parlamento, Regioni, Comuni: ogni volta un metodo diverso. Pensare che i cittadini restino “straniati” da queste difformità non è ipotesi peregrina. Non sarebbe meglio adottare un sistema valido per tutte?

Si stabilisca se è meglio il turno unico o il doppio turno. Del resto, se andrà in porto il premierato, la maggioranza dovrà presentare una riforma elettorale che lo sorregga. Se dovremo eleggere direttamente il Capo del governo, avremo, in sostanza, un sistema omogeneo con l’analogo sistema di elezione dei sindaci e dei presidenti di Regione. Quale momento migliore per uniformare i sistemi elettorali?

Magari restituendo ai cittadini, con i collegi uninominali, o con il voto di preferenza, anche il potere di scegliere i parlamentari.

Sottoscriviamo in pieno. Come pure ci pare interessante aver proposto il tema assai importante del rapporto tra democrazia e modernità.

“La comunicazione social costituisce ormai, soprattutto per i ragazzi, la vera forma di partecipazione, di fronte alla quale la scadenza elettorale può risultare assai meno significativa. Che senso ha esprimersi ogni cinque anni se lo faccio ogni giorno? Ecco allora la domanda cruciale: di fronte alla rivoluzione digitale che ha cambiato tutta la nostra vita, le elezioni debbono rimanere sempre così uguali a se stesse? Non rischiano di apparire un rito antiquato, anacronistico rispetto alla vita moderna? Intendiamoci: mentre appare pericolosa ogni ipotesi di democrazia elettronica abbinata a referendum, non sembrano esserci significative obiezioni all’ipotesi dell’uso del voto elettronico nelle grandi tornate politiche. In Estonia lo si pratica già con successo dal 2007, avendo dedicato quel Paese grande attenzione al tema della sicurezza del voto, che poi sarebbe l’unico vero problema”.

Qualunque idea si abbia in proposito, il tema avanzato da Adornato ha un suo fascino e non è privo di fondamento. Ne cogliamo soprattutto l’essenza: la spinta ad alimentare un briciolo di fantasia istituzionale.

Il gusto di una sfida che potrebbe rimettere in moto la partecipazione e finanche il ruolo dei partiti in una società che molti definiscono post-moderna.

C’è, infine, un’analisi anch’essa ricca di stimoli che riguarda da vicino le infinite discussioni sui numeri e i nomi per la nuova governance di Bruxelles. Probabilmente, quando avrete tra le mani il giornale, cari lettori, i giochi saranno stati conclusi. Vedremo. Indipendentemente da ciò, e a prescindere da come si profileranno maggioranze e minoranze nel Parlamento europeo e nelle relative Commissioni, resta un dato imprescindibile. Dalle urne è uscita una nuova Europa che non corrisponde più del tutto alle sigle delle vecchie famiglie politiche.

Quel che è dato vedere è una sorta di inedito bipolarismo politico- culturale: un grande “partito dei valori” contrapposto a un altrettanto grande “partito dei diritti”. Due partiti visibilmente trasversali. Non solo e non tanto nelle classi dirigenti, quanto, soprattutto, nelle opinioni pubbliche.

Il primo coinvolge la destra nelle sue varie declinazioni e buona parte dell’elettorato dei popolari. Il secondo mette insieme socialisti, liberali, verdi lambendo anch’esso settori dell’area popolare. Si tratta di opposte “visioni”.

Il “partito dei valori” mette al centro l’identità, come risposta al declino in atto della civiltà occidentale nei suoi piloni portanti: il senso religioso che è alla radice dello spirito europeo, inteso non soltanto come culto, il senso della famiglia intesa come pilastro della società, sia pure nelle mutate condizioni giuridiche e sociali scandite dal tempo. Per il “partito dei diritti” ogni richiamo a valori e verità morali deve rimanere estraneo al dibattito pubblico e relegato unicamente nella sfera privata.

E’ quel che un grande Papa come Ratzingher denunciò essere il frutto di un relativismo etico. Nelle sue manifestazioni estreme, porta il “partito dei diritti” a sostenere l’annullamento dei concetti di paternità e maternità.

Mediare tra queste due opzioni appare difficile. Questo, però, dovrebbe essere il compito della politica. Un esercizio per il quale servirebbero grandi interpreti e grandi leader europei.



 

 

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