«Che cosa sono queste cose che avete dipinto, maestro Bosch?».
«Mi sorprende che una domanda venga posta in questi termini da voi moderni. Mi avete “sfogliato” in tutte le pagine delle possibili interpretazioni. Mi avete indicato, di volta in volta ̶ prendendo spunto dal mio grande connazionale, lo storico Johan Huizinga ̶ come il pittore dell’”autunno del Medio Evo”, altresì come il “pittore dei diavoli” e intanto, mentre voi italiani vi dilettavate illanguidendovi nel sorriso di Monna Lisa o strabuzzando gli occhi di fronte alla grazia della Venere di Botticelli, io mi sarei ostinato di pitturare le “acerbae historiae” dei vizi umani».
«Ma non è forse vero, maestro Hieronymus?».
«Sì, ma solo in parte. Le ricordo che non ho affatto trascurato la sfera dello spirituale, né, tanto meno, la dimensione paradisiaca. A Lei, immagino, non è sfuggito il pannello di sinistra del mio Giardino delle delizie. Non ha visto da quale e quanta atmosfera di serena pacatezza è avvolto l’insieme?
Certo, è l’alba dell’umanità. Il Signore, benedicente, presenta Eva ad Adamo: ella è tutta compunta, le palpebre abbassate, mostrandosi all’uomo in tutta la sua primigenia e florida bellezza. Adamo appare incredulo, gli occhi invece spalancati, al cospetto di tale splendore.
Solo il Signore, nell’austera severità del suo sguardo, fissa invece l’osservatore ̶ ovvero tutti noi ̶ raccomandando purezza d’intenti e d’azioni.
E poi ̶ mi scusi ̶ non le dice nulla la prospettiva degli alberi della foresta dell’Eden, così carichi di frutti e perciò beneauguranti sulle sorti umane? Già tutto il Paradiso è un programma aperto, come un esercito schierato a difesa del bene universale, e, se non fosse stato per quell’albero della conoscenza, piantato insieme con l’albero della vita in mezzo al giardino dell’Eden, io stesso avrei dovuto occuparmi di ben altro.
Da quassù, mi arrovello sdegnandomi nel vedere da quanti e quali rivoletti sia tuttora alimentato il gran fiume dei vizi umani. A nulla, evidentemente sono valse le mie “tavole pittoriche”.
Del resto mi riappacifico con me stesso nel constatare come la stessa sorte sia calata sui Capricci e i Disastri di Goya. Sono in buona compagnia, dopo tutto».
«Visto che vi ha fatto cenno, maestro, possiamo tornare a parlare del suo “Giardino delle delizie”?».
«Cosa vuole che ancora le dica? Ormai, in pratica, mi ricordate solo per quest’opera, come se la mia pittura, e i suoi significati, si fossero esauriti in essa. Intanto, non mi risparmio nel dirvi che, sul mio conto, avete commesso dei grossi travisamenti, perché ̶ punto primo ̶ avete frainteso la portata della mia arte, considerandola una sorta di fantasticheria da cantastorie, senza scorgervi una benché minima linea di forza critica rigenerante.
Poi ̶ secondo punto ̶ voi moderni avete per lo più sorvolato sugli aspetti tecnici, come dire, sulla qualità della mia dipintura.
Per finire o quasi – punto terzo – vi siete lambiccati nel cercare ad ogni costo il significato simbolico di ogni figura, animale, piante o oggetto che fosse, presente nelle mie tavole.
Signori, ma non vi siete avveduti che tutta la mia opera, il mio “opus magnum”, rappresenta un unico e grande “sogno”? Dove avete voluto che trovassi tutte quelle raffigurazioni e situazioni, anche raccapriccianti, se non dalla forza di una tensione onirica? Ho vissuto, come nessun altro artista, il trapasso di un’epoca ad un’altra con una chiaroveggenza pressoché unica, avvertendo i sintomi forieri di un evo nuovo, quegli stessi segnali che sarebbero poi divenuti significati, da lì a poco, grazie soprattutto a voi italiani con il vostro bel Rinascimento.
Vi prego, pertanto, di smetterla di vedere in me una specie di sortilegio camuffato da mago, astrologo, alchemico, esperto in diavolerie e bizzarrie d’ogni genere, dipintore di mostri orribili e laide torture. Signori, io sono Hieronymus Bosch, unico tra gli artisti del pennello, ad aver osato, come forse solo il vostro Dante, di attraversare e illustrare il triplice tempo della vicenda umana: la sua innocentissima “nascita” nel Paradiso (e ciò è ravvisabile nel primo quadro del mio “Giardino”); la sua “crescita” nell’esperienza della vita con tutte le sue savie e funeste vicissitudini, ma soprattutto quelle di gran lunga le più numerose e le più peccaminose (si guardi al secondo quadro del trittico); e, infine, nella tenebrosa, apocalittica e giusta condanna dei reietti (terzo quadro): una “comoedia”, meno divina e più “umana” di così, non poteva che essere raccontata “all’incon-trario”».
«Maestro Hieronimus, mi ha convinto, sono d’accordo con lei. Ma, mi dica, sul conto più puntuale della sua pittura, mi vuole, per cortesia, anzi, “ci” vuole dire la sua?».
«Intanto mi faccia rendere grazie al suo connazionale Lodovico Guicciardini che nella “Descrizione di tutti i Paesi Bassi” (1567) mi onora del titolo di “inventore nobilissimo e meraviglioso”. Me ne compiaccio, considerato che n’ho avuto donde ben poco.
Per il resto non posso che d’altronde compiacermi, da figlio d’arte ed estraneo a scuole e correnti ed anche alle più affermate, quando si riconosce alla mia pittura ̶ come fa per esempio Marcantonio Michiel in Notizie d’opere di disegno, 1521 ̶ un che di morbido, che rompe la secchezza della linea figurativa com’era tra i miei contemporanei o addirittura una singolarità veramente divina com’è in Giovanni Paolo Lomazzo, Trattato della’arte della pittura, 1584. Ero avvezzo, tra l’altro all’abitudine di aggiungere al fondo, solitamente bianco, l’abbozzo e il disegno delle figure e via via procedendo con le velature. Il che conferiva alle mie pitture una innovativa ricchezza di toni che sarebbe stata raggiunta solo nel XVII secolo dai miei colleghi fiamminghi e, in quanto a chiarezza e vivacità solo da Brueghel e Rubens».
«Mi consenta, maestro, di porgerle una domanda un tantino impertinente che riprendo dal critico Eugeni D’Ors (1921), il quale le rinfaccia le sue “diavolerie”, la sua licenziosa e sfrontata fantasia, i suoi “grotteschi” che avrebbe traslato dalle cattedrali gotiche, in sintesi il suo delirio esilarante, angoscioso e indecente».
«Mi pare che, al riguardo, le abbia già dato la mia risposta.
Mi basta aggiungere, a questo punto, che almeno qualcuno scorga la nobiltà della mia visione, che, pur apparendo per tanti versi cupa e per nulla esaltante, è tesa a mettere in guardia l’umanità, specialmente quando essa è minacciata da sciagure terribili, come guerre e pandemie. In questi casi, urge caricare le macchine della pace con la forza dell’intesa delle menti illuminate, sdegnose delle debolezze e schive dei vizi che sottomettono l’uomo all’ignavia e al peccato: questo è, in estrema sintesi ̶ semmai ne sia degno ̶ il “messaggio” contenuto nella mia arte».
«Maestro Hieronymus, se bene la intendo, la sua arte, trascende le cosiddette “aporie” tra dubbio e fede tra angoscia e speranza e ̶ come afferma Robert Delevoy (1960) ̶ si pone come una testimonianza, una testimonianza affascinante».
«Possiamo concludere così. Torni a trovarmi».
«Grazie, maestro Bosch».
Comments