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Kentridge, protagonista dell'arte contemporanea

Aggiornamento: 11 mag 2023

Non è facile accostarsi a William Kentridge: la poliedricità della sua opera – attraversata da multiple matrici espressive quali il disegno, il cartoon, il video, il teatro, la lirica, la musica, la danza, il cinema e ognuno di questi media sottoposto a elaborazioni ipertestuali – si fa specchio personalissimo della visione del mondo moderno. E così, come del resto accade per ogni artista, egli modella la sua percezione della realtà facendone prodotto quanto mai originale e suggestivo.

Il disegno, questo medium prototipico, già presente nelle pitture rupestri con le sue valenze diacroniche dello spazio e del movimento, acquisisce nella video-arte contemporanea, ed in ispecie in Kentridge, il significato potenziale dello spunto a carboncino per il successivo affresco totale. Lo schizzo iniziale, infatti, non esaurisce la sua funzione nel fermo-immagine di un’intuizione creativa, a cui si dia forma definitiva in passaggi successivi fino all’esito finale. Kentridge – ed è qui la sua “trovata” – anziché cancellarli, lascia sulla carta i segni dei ritocchi, delle correzioni e delle migliorie: lo schizzo, in tal maniera, prende via via forma e significato nella sequenza solo apparentemente spuria delle tracce grafiche: l’esito, quasi sempre incerto perché mai dato per scontato, è sempre sorprendente per l’occhio, per la meraviglia e il gusto dell’osservatore. A tal proposito, l’artista soggiunge: «Il disegno è pre-verbale, istantaneo, irriflesso. L’immediatezza di pensare per disegni è vitale per me».

A voler ben riflettere – e fatte le dovute differenze – si tratta della medesima “tensione” che spingeva Leonardo nell’uso “trascendentale” dei suoi disegni. Effettivamente rappresentativi di progetti “tecnici”, essi divenivano di per sé capolavori, realizzando di fatto una realtà “altra”. Il “segno”, fatto “simbolo” di progetti oggettuali (di anatomia, astronomia, botanica, chimica, geografia, matematica, meccanica, architettura, di macchine, di studi sul volo degli uccelli), si faceva “presenza d’arte” grazie alla genialità del maestro.

V’ha tuttavia un’altra considerazione da fare ed è il fulcro intorno al quale gira il significato della produzione dell’arte contemporanea, ovvero la sua “idoneità” nel definirsi “lavoro riflessivo” o “creativo”. E qui entra in discussione la capacità, se non l’acume, dei critici di vedervi le tracce del risultato “artigianale” o di quello “artistico”.

A conforto delle elaborazioni manipolatorie di Kentridge, di sapore a volte artigianale, occorre pur dire che il disegno, in sé, nei protagonisti più iconici dell’arte contemporanea, ha rappresentato un medium di primaria importanza. Che dire, per esempio, dei disegni quanto mai satirici di LiuWei o di Solakov, il quale ultimo, in forma umoristica, in una delle sue performances poneva in palio di una lotteria proprio i suoi disegni? Manzoni, da par suo, non è da meno: racchiude in un cilindro di zinco il “disegno” più lungo, una linea continua di 7200 metri. Francesca Grosso si rifugia nei calligrammi, così cari ad Apollinaire, e ne fa sfoggio nei Ritratti di parole coniugando in maniera alquanto originale poesia e, appunto, disegno.

Guttuso, poi, specialmente nei suoi primordi, accetta, fino a patirne una sorta di “dipendenza”, di esprimersi esclusivamente nei soli disegni, tanto da intelarli e mostrarli a mo’ di dipinti.

Eccolo, dunque, all’opera il “disegno” di Kendridge. Puntasecca, carboncino e, come medium “speciale”, gomma: gli attrezzi del mestiere, pardon, della sua arte. La “cancellatura”, continua e progressiva, apre di volta in volta scenari nuovi e imprevedibili per una story-board che non esiste: esiste però, in tutte le sue opere grafiche, ovvero nei suoi “disegni per proiezione” il fondamento, ovvero lo “sfondo” della storia dell’apartheid: storie di discriminazioni e violenze inaudite a danno dell’indifesa e inerme popolazione nera. Così in Casspirs full of love, stampa a punta secca, composizione di testo e immagine, realizzata nel 1989. L’immagine a tutta prima è impressionante: dentro una scatola a scaffali, sette teste orribilmente “spiccate” rimandano ai raccapriccianti crimini commessi in epoca di apartheid, durante il predominio del National Party. Un j’accuse esplicito di condanna della violenza comunque e ovunque perpetrata contro i più deboli. Questa acquaforte acquista maggiore significato quando si precisa la sua implicita, forte ironia: il messaggio – a detta dell’autore – è inviato, in forma di cartolina, da una madre al proprio figlio soldato, impegnato nella campagna di contenimento da parte dell’esercito sudafricano delle sollevazioni nel Monzambico delle genti di colore.

Il casspir era un veicolo militare adibito a trasporto truppe: le teste mozzate,

contribuiscono a creare uno iato, come dire una distanza forse incolmabile, tra una situazione realmente tragica e quella auspicata di una pacificazione possibile. Ci si riduce all’estrema domanda, sempre attuale, che viene posta alla fine di ogni conflitto: «E ora, che ce ne facciamo di tutti questi morti?».

S’insinua qui, e in questo contesto tutto di Kentridge, l’altra possibile classificazione dell’arte come atto morale e di denuncia. Non mancano a tal proposito precedenti del tutto similari anche se, naturalmente, in forme diverse: basterebbe solo pensare a Bosch, Goya, Picasso, Munch per averne contezza storica. E, per tal motivo e per cotal significato, la produzione di Kentridge, da quel primo ingannevole impatto di mera espressione artigianale, si presenta come arte a tutti gli effetti tra le più significative dell’età contemporanea.

Occorre pur dire, d’altra parte, che a un certo punto Kentridge abbandona il “disegno per proiezione”passando al “disegno di animazione”: entra in gioco la macchina da presa, il medium si pone in movimento e costringe l’occhio dell’osservatore a seguire e a comprendere – per quanto possibile – la sequenza delle immagini, introducendo una valenza suppletiva: al solo “colpo d’occhio” della prima produzione artistica sovviene il bandolo del “racconto”, il più delle volte in Kentridge imprevedibile e sempre meravigliosamente suggestivo.

Ne è prova – tra le tante – The refusal of time, un’opera piuttosto complessa, fra teatro e video- installazione, ove L’artista sudafricano affronta niente meno che il concetto universale di tempo, l’esito di una ricerca pluriennale condotta insieme con il fisico e storico della scienza Peter Gallison.

Qui il sincretismo artistico di Kentridge raggiunge il suo apice: l’osservatore-spettatore deve munirsi di un buon grado di “disponibilità” verso quella che è un’autentica performance mediatica: disegno, cinema, musica e danza interagiscono in una sorta di sarabanda nel tempo scandito da metronomi, orologi d’epoca, batterie e metronomi.

L’atmosfera che ne scaturisce, certamente suggestiva, sfiora gli effetti emozionanti dello spettacolo epico.

Il tempo si scopre così per quello che è: un’entità assoluta, ingovernabile, che, tra l’altro, pare avvalersi di un alleato, altrettanto assoluto e ingovernabile, il fato.

L’arte di questo artista “venuto da lontano” scopre ancora una volta la sua valenza “etica”: si propone cioè quale interprete della realtà con un ruolo “ad adiuvandum”, offrendo – per quanto possibile – visioni e interpretazioni delle vicende umane, capaci di sollecitare riflessioni, ripensamenti, sussulti di coscienza e non solo – come, perlopiù, avviene con l’arte classica – momenti di estetico ed estatico godimento.

Non è consigliabile, per chi in genere intende raccogliere, in una sorta di vademecum, gli aspetti anche i più nascosti dell’opera di un artista, “scavare” più di tanto nella profondità dei suoi intenti.

Egli, inoltrandosi nei sentieri ancor più accidentati dell’espressione artistica – accettando di por mano alla regia di spettacoli teatrali – lo fa senza rinunciare al suo classico modus operandi. Vi impegna il suo medium di base, il disegno, sempre capace di sommuovere il mondo iconico.

Lo si indovina, infatti, fin nelle installazioni sceniche del suo “teatro totale”, il tutto strutturato per accogliere le “espansioni” musicali e coreografiche di eccelsa fattura.

La musica. Ebbene, questo elemento svolge un ruolo di supporto essenziale nella filmografia di Kentridge.

In Miniera (1991), nel parossismo del potere capitalistico del protagonista, la musica sale in un crescendo festoso. Un’altra esplosione musicale avviene con l’installazione de Il Rifiuto del tempo, esposta al MAXXI in prima italiana (2012). Kevin Volans scrive la colonna sonora di Zeno Writing (2002).

Il film prende spunto dal romanzo La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Lo scenario è quello della Prima Guerra Mondiale, trasferito però a Johannesburg, ed è un’allegoria del malessere della condizione umana.

È tuttavia nel teatro che Kentridge raggiunge il climax della sua testimonianza artistica: sulla scia dell’avanguardia russa più avanzata, il teorico Erwin Piscator chiude il sipario sul teatro tradizionale e ne apre un altro: la messa in scena non è più quella, immobile e prevedibile della recitazione degli attori in contesti scenografici più o meno plausibili; ne viene ridisegnata l’intera identità teatrale.

Fa la sua apparizione, all’interno di questa nuova visione, lo stesso medium cinematografico, croce e delizia di Kentridge. Da questo momento, il teatro moderno racconta una storia nuova. Non basta. Sulla sua scena, da veri protagonisti, appaiono installazioni mai viste, rappresentazioni di macchine teatrali verosimili e inverosimili, fisse e semoventi.

Il nuovo campo visuale, grazie al sorprendente sposalizio film-scena, aprendo a “sequenze in movimento”, rompe la geometria statica dei pregressi fondali. Il tutto si appalesa come un campo fertile per le sperimentazioni e le applicazioni della filmografia di “animazione” di Kentridge. In questa nuova situazione teatrale, Kentridge, grazie anche alla presenza e agli insegnamenti del grande regista Ejzenštejn, riconcepisce e corrobora di maggiore intensità i suoi disegni destinati all’animazione, sulla base di un montaggio rivisitato e di una composizione formale alquanto più suggestiva di immagini, che, a detta di Vincenzo Trione, «compongono palinsesti in divenire di figure o fantasmatici cortei di ombre (…) che frammentano e smembrano ogni coerenza narrativa, in modo da costringere l’occhio dello spettatore a saltare, a danzare, a inciampare».

Se ne avrà una prova con l’allestimento dell’opera lirica The nose (2010) da Gogol, una satira grottesca e spietata della burocrazia sovietica.

Accanto alle suddette “decostruzioni” teatrali provocate da Piscator e accolte a piene mani da Kentridge, divenuto ormai egli stesso regista, qui si aggiungono, ben oltre Schönberg, le decostruzioni musicali di Šostakovic: ritmi sincopati, ripetuti sulle diverse altezze tonali, con caduta delle frasi armoniche, fanno il paio con le immagini-ombra di Kentridge, a cui paiono conferire vitalità ed espressività. Il contesto iconico-musicale, tradotto in un unicum espressivo nella nuova forma ormai matura del fantasy – che non rinuncia a risonanze vuoi surreali vuoi sarcastiche – accentua in tal maniera la percezione visivo-uditiva, perpetuandosi più tangibile nell’immaginazione e nella memoria dello spettatore.

Solo un piccolo passo indietro. Come non ricordare la l’ardita presentazione del 1916, sul Lungotevere di Roma, dell’opera monumentale Triumph and Laments, con musiche di Philip Miller e Thuthuka Sibisi, con più di quaranta esecutori d’orchestra e vocalist: una rappresentazione fantasmagorica della storia di Roma, attraversata in lungo e in largo da fulminanti citazioni del tempo presente (immagine di Garibaldi, morte di Pasolini, di Aldo Moro, bacio di Mastroianni ad Anita Ekberg).

Questo fregio, tuttora appena ravvisabile sulla banchina del Tevere, per la lunghezza di 500 metri tra Ponte Sisto e Ponte Mazzini, frutto di una elaborazione durata tre anni, è già praticamente sparita per l’incalzare del tempo e dell’inquinamento atmosferico.

Nessuna sorpresa a questo proposito. L’opera era stata ideata con un tale destino sin dal suo concepimento: opera monumentale sì, ma, insieme, anche effimera, per una città (la “Città eterna”), che, bastando essa stessa, non gradisce e non sopporta rappresentazioni di lunga durata.


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