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L'acqua è poca e la politica galleggia lo stesso

In questi giorni i media stanno facendo risaltare con evidente drammaticità il problema della siccità, evocando scenari terribili per il nostro futuro imminente e addossando per lo più la responsabilità all’irreversibile cambiamento del clima, che diminuisce le precipitazioni, riduce i ghiacciai e inaridisce il suolo.

Purtroppo le analisi giornalistiche si concentrano molto sui fenomeni naturali che causano tutto ciò, demonizzando giustamente il famigerato effetto serra, ma spingono poco l’esame della gestione idrica per valutare se e come il problema venga affrontato correttamente e se ci sono anche precise responsabilità della politica nel contrastare male (o non affrontare affatto) il problema della scarsità dell’acqua.

Va sottolineato che oltre ai giornali, con cadenza quasi annuale, anche molti governatori regionali e sindaci si sono mossi, alzando alti lai, per chiedere lo stato di calamità, però tutto avviene nel silenzio assordante del Governo che, nella contingenza fa finta di avere altri e più gravi problemi.

Intanto va detto che il problema della siccità - almeno per l’Italia - è vecchio: basta leggere le cronache del 1954 quando la pioggia non cadde su Calabria e isole per quasi 5 mesi, del 1959 quando sulla fascia adriatica non scese un goccio d’acqua per due mesi, mentre nella pianura padana la pioggia mancò per più di 100 giorni; o pensare alla siccità del 1962 quando imperversò per più di 100 giorni su tutta l’Italia e in Sicilia durò fino a 200, oppure ancora al critico 1976, che registrò nel Nord-Ovest d’Italia solo 200 millimetri d’acqua in sei mesi (valore più basso degli ultimi 2 secoli!).

E via discorrendo… per arrivare ad un semplice concetto il problema della siccità non è improvviso, ha una storia che lo rende da tanto tempo noto e prevedibile.

Dopo il drammatico inverno 1988-89, quando non piovve quasi mai tra settembre e marzo, con l’assenza pressoché totale della neve sulle montagne e con una notevole durata ed estensione delle aree interessate (come non avveniva da 250 anni!) il Governo De Mita corse ai ripari, emanando la Legge 183/89 (integrata dalla successiva Legge 253/90) sulla difesa del suolo che garantiva, attraverso un apposito fondo sul bilancio dello Stato, la copertura delle attività di monitoraggio delle risorse idriche.

Di fatto la situazione non cambiò molto perché il monitoraggio è utilissimo ma solo se è una raccolta di dati strumentale alle azioni da intraprendere; se non è seguito da interventi è un’attività che fa solo arricchire le statistiche.

Dopo pochi anni il Governo Ciampi fece un altro passo importante, con la legge n° 36 del 1994 (Galli) che opportunamente prevedeva la valutazione dell’equilibrio dei bacini ma soprattutto prescriveva che lo Stato desse le direttive generali e di settore per il censimento delle risorse idriche, per la protezione delle acque dall'inquinamento, per la programmazione dell’uso razionale delle risorse idriche e l'aggiornamento del piano regolatore generale degli acquedotti.

È opportuno quindi aggiungere un altro importante concetto, quello del bilancio idrico, ossia il rapporto tra la produzione idrica naturale di un distretto e i fabbisogni del relativo territorio in termini d’acqua potabile di irrigazioni e dell’industria e zootecnia. Solo conoscendo questo elemento si possono pianificare soluzioni adeguate al problema del bisogno d’acqua.

Però tutto l’affannarsi della politica a legiferare su soggetti e metodologie che si occupassero di questo rapporto è stato per anni un fumo negli occhi per il cittadino, poiché fin dall’anno 1934, veniva pubblicato un documento molto preciso e dettagliato da parte del SII (Servizio Idrografico Italiano) che, circa ogni dieci anni, pubblicava i dati caratteristici dei corsi d’acqua italiani, precisando per ogni fiume, o tratto di esso, la superficie di raccolta, la densità di drenaggio, afflussi e deflussi, portate minima, media, massima e di colmo in metri3 al secondo, etc. etc..

Il servizio era organizzato in 14 compartimenti che coprivano tutta l’Italia quindi era già in piedi il sistema di monitoraggio delle risorse idriche, che se mai andava potenziato, incrociandolo con la domanda d’acqua.

Con Il trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni (D. Lgs. 31 marzo 1998 n. 112), viene decisa la fine del SII, attraverso lo “spezzatino” funzionale e il conferimento dei compiti amministrativi alle strutture operative regionali, competenti in materia. Non contenti, 4 anni dopo, ci si rende conto che i compartimenti hanno spesso competenze sovraregionali (per ovvi motivi orografici) ed interviene il decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 24 luglio 2002, che frammenta ulteriormente le funzioni, alla faccia delle caratteristiche della siccità, che sono - per natura - aleatorie nel tempo e nello spazio e avrebbero comportato necessariamente l’unitarietà del servizio e delle soluzioni.

Saltando i fenomeni siccitosi del 2000 e 2001, arriviamo a tempi più recenti quando il Governo Prodi fa la vera svolta operativa, con l’uscita del Decreto Legislativo n. 152 del 3 aprile 2006, che introduce grandi e rivoluzionarie novità, destinate ad una mutazione radicale nelle metodologia per affrontare il problema… ma non per risolverlo.

Preliminarmente, abrogando sia la legge 253/90 che la 36/1994, vengono ridotte le risorse finanziarie destinate all’attività di monitoraggio, che perciò viene assicurato, in parte, solamente per la difesa dalle alluvioni, e si cessa così di controllare le portate di moltissimi corsi d’acqua, peraltro elemento indispensabile per la corretta gestione delle alluvioni.

Ma il risparmio di risorse non è reale: vengono creati gli ATO (acronimo presuntuoso di Ambito Territoriale Ottimale), strutture dotate di personalità giuridica che organizzano, affidano e controllano la gestione del servizio integrato, dove rientra anche il sistema idrico.

L’autorità di bacino distrettuale pertanto, in forza dell’art. 63 provvede a “elaborare l'analisi delle caratteristiche del distretto, l’esame dell’impatto delle attività umane sullo stato delle acque superficiali e sulle acque sotterranee, nonché l'analisi economica dell'utilizzo idrico”.

Per fortuna nel 2006 si torna a parlare di distretti idrografici con estensione sovraregionale (come la logica richiedeva già all’inizio) e ne vengono individuati 8, che partono per affrontare il problema dell’acqua, con un bel contorno di svariate Autorità di bacino.

Sono trascorsi 17 anni, senza fare quasi nulla e con una rete idrica che va sempre più in malora ma alla fine si parte!

Chi si sarebbe aspettato grandi risultati però fa fatica a trovarli. La crisi idrica degli anni 2007, 2012 e 2017 torna a far comprendere che si deve essere più incisivi e si è in grande ritardo.

Per esemplificare la situazione dei distretti idrografici prendiamo in esame alcuni dati, comunicati su documenti ufficiali, che fanno comprendere come da tempo la situazione sia drammatica.

Il distretto delle Alpi Orientali (circa 39.385 Km2 di superficie, comprendente i bacini dell’Adige, del Friuli-Venezia Giulia e del Veneto e l’Alto Adriatico) nell’aggiornamento del Piano di Gestione delle Acque 2015, fa comprendere la rilevante necessità di investimenti precisando espressamente di avere un programma di 1.280 misure, coerenti con gli obiettivi ambientali fissati dalla Direttiva Acque 2000/60/CE, con una spesa prevista di 5,5 miliardi di euro, dei quali solo 1,4 con finanziamento assicurato.

Il distretto dell'Appennino Centrale (circa 35.800 Km2 di superficie comprendente i bacini del Tevere, del Tronto e del Sangro e gli altri minori del Lazio, Abruzzo), in un documento del 2018, precisa che il 60% della propria rete risale ad oltre 30 anni e grandi tratti hanno superato il limite della resistenza strutturale dei 70 anni e nei centri storici quello degli 80 anni).

Veniamo a sapere inoltre che gli 80.000 chilometri di rete nel Lazio perdono il 40% dell’acqua potabile (a Roma il 41,5%), nelle Marche in media il 34%, in Abruzzo il 48% e in Umbria il 46,8%.

Dopo il quadro desolante che le risposte della politica “attiva” ha prodotto in passato e dopo aver appreso che alla rete italiana servono tantissime risorse per un rinnovo totale (investimenti che sarebbero un beneficio diretto del PIL e peraltro tipici per risorse finanziarie prese a prestito), vediamo che cosa sta facendo il Governo Draghi e se Super Mario ha trovato cosa fare.

La risposta ci viene dal famigerato PNRR, che destina ben 59,5 miliardi di euro alla missione M2 (Rivoluzione verde e transizione ecologica).

Analizzando il dettaglio però scopriamo che solo 15 miliardi sono destinati a “Tutela del territorio e della risorsa idrica” e tolti quelli destinati in azioni mirate alla tutela della risorsa idrica e alla difesa del suolo ne restano solo 4,4 circa assegnati al servizio idrico, da dividere ulteriormente tra servizio idrico integrato e irrigazione.

Alla fine restano soltanto 900 milioni di euro per tutte le necessità dell’efficientamento della rete di distribuzione della nostra nazione!

Una goccia nel mare se si pensa che il programma degli investimenti per il rinnovo delle condotte di un singolo distretto supera in media i 5 miliardi.

Se non altro, questo non è un governo che fa acqua!


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