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Luigi Musacchio

L'arte metafisica di Kapoor


Anish Kapoor (1954), scultore britannico – ad accostarvisi – impone il silenzio e reclama attenzione. Ci si appresta, allora, col pensiero cauto e diligente, ad avvicinarlo con la consapevolezza che l’approccio non possa essere e rappresentare che un generoso tentativo, al pari di chissà quanti altri, di “lettura” e “interpretazione” di un sentimento filosofico e di un fare estetico, che traspaiono dalle sue opere, di tutto e rispettabile rispetto.

A tutta prima, si avverte l’impressione di uno “scarto” tra la nostra pur avvertita sensibilità e l’alea, di sapore meta-fisico, che investe e attraversa tutta la sua produzione artistica.

Il ricorso alla sua duplice personalità di pensatore influenzato dalla cultura orientale (nato da padre indiano e da madre di origine ebrea e irachena) e artista formato in Inghilterra, si fa così necessario riferimento e legame.

Ne scaturisce un ineffabile e per i critici grazioso “spunto” sulla natura e sulla specialità di questa “sintesi”, non più tra cultura umanistica e cultura scientifica, bensì tra cultura orientale e cultura occidentale.

L’arte, al solito, propedeutica e baldanzosa aralda di novità inattese e apparentemente improponibili, cuce e ricama la sua tela di disegni bene auguranti per l’umanità. E non pare che sussistano resistenze a quel che una prospettiva del genere potrebbe fomentare per il tempo a venire.

Sul tableau delle dispute tra queste due culture sono incise, al presente, a lettere cubitali, le sole differenze tra i modi di pensare, di vedere l’individuo e, di conseguenza, la società, di professare la religione e, in genere, di condurre approcci alla vita neppur lontanamente convergenti e, men che mai, coincidenti. Si fanno così strada, sul teatro delle vicende internazionali, e pronti alla mega-singolar tenzone, il “drago” orientale da un lato e la baldanza occidentale dall’altro. Tutto pare cospirare contro un impossibile “dialogo” tra le due culture.

Sarà pur vero che l’umanità, al pari dell’indifferenza che mostra di fronte alle minacce di genere ecologico, non si periti di considerare neppure le opportunità che conseguirebbero da un auspicabile, vantaggioso “lavoro a due” atto a fronteggiare tutte le sfide epocali. È pur vero: fatti incresciosi (contrasto e conflitto tra nazioni confinanti) dimostrano che tali pensieri possono radicarsi, come querce secolari, solamente sulle pendici della più ottimistica utopia.

Occorre, però, pur convenire, se non ci si vuole accampare sull’orlo dell’abisso, sulla necessità di scovare, magari nell’angolo più nascosto, una qualsivoglia soluzione.

L’arte, la bella, amata arte, a questo punto, è chiamata anch’essa in causa: forse più dei rapporti diplomatici, forse più della politica.

Fu la fede indefessa e assoluta di Dostoevskij. A questo grande nome è pur d’uopo associare, altrettanto significativi, anche se con diversi approcci, quelli di Tolstoj, Sartre, Camus. La via – come dire? – è stata così tracciata da altri “artisti”. E, da ultimo, un emulo, apparentemente piccolo, da una delle tante stanze dell’arte contemporanea, tenta con questi illustri colleghi un ottimistico e forse inconsapevole discorso.

Lo si è presentato, all’apertura di questo dire, come un ospite straniero e, perciò, men che mai atteso: Anish Kapoor.

Scultore operosissimo, conosciuto per via delle sue tante mostre e installazioni in tutto il mondo, offre la sua arte secondo infinite sfaccettature: la dimensione e la forma degli oggetti artistici, la padronanza assoluta dei materiali e delle tecniche, la presenza significativa di giochi concettuali dicotomici, atteggiamento di fondo non didascalico, il tutto inquadrato il più delle volte in una situazione di cosiddetta art-specific.

È il luogo dove l’installazione realizza un’unità funzionale e concettuale con l’ambiente espositivo, in cui lo spettatore-osservatore interviene come ospite privilegiato, invitato però a interrogare e a interrogarsi immergendosi in un frangente di sapore catartico: in tal modo è fatta propria l’essenza del lavoro dello scultore britannico, ovvero il suo pressoché innato misticismo, d’origine indiana.

La percezione dell’oggetto, in altre parole, non si esaurisce nella fatuità e aleatorietà momentanea di uno sguardo pur se attento sull’opera. Nella percezione sensibile – un po’ nella maniera kantiana – si annida e si anima la ricerca del significato e prende corpo la conquista della ragione pura, diversa ma quanto mai significativa per ognuno.

Con l’ardire a volte peregrina che caratterizza chi si propone di leggere e interpretare le opere d’arte, ma con la generosa e fiduciosa complicità di chi vuole accompagnarsi in quest’impresa, pare, a questo punto, forse oltremodo opportuno farsi virtuale spettatore di alcune delle più spettacolari installazioni di Kapoor.

Three (1990).

Tre forme concave di notevoli dimensioni si offrono all’osservatore nella turgida e metafisica coloritura blu che le ricopre: l’occhio, come richiamato da un inconscio istinto, si spinge all’interno di quella concavità ove a malapena sfugge al rischio di perdersi nei tentacoli d’un pensiero misterioso.

La percezione dell’oggetto sensibile non basta a trattenere lo spettatore “con i piedi per terra”: il suo pensiero è letteralmente aspirato da un gorgo di sentore simbiotico.

Ed è questa la sensazione appercettiva che si coglie innanzi o all’interno di ciascuna delle opere dell’artista britannico.

Taratantara (2000). Ardimentosa e gigantesca installazione: diciotto metri in lunghezza per trentasei in altezza, più sessanta tonnellate di tubi innocenti e cinquantadue metri di PVC semilucido di colore rosso. Ad accogliere questa sontuosa opera architettonica, di tenore alquanto metafisico se non del tutto concettoso, non poteva farsi migliore ospite che piazza Plebiscito a Napoli. L’installazione rivaleggia con la piazza e con i palazzi circostanti in quanto a dismisura ma li oltrepassa di gran lunga per novità assoluta, quasi a voler proporre un progetto architettonico “altro”.

La caratteristica più saliente dell’oggetto la si può forse cogliere, oltre la più appariscente ed evidente forzatura scenografica, anche qui, nella sua valenza di art-specific: vano e vacuo sarebbe il suo significato se l’installazione fosse collocata in ambiente neutro, non antropizzato.

Cloud Gate (2004). Installata al Millennium Park di Chicago, anche quest’opera si misura con le maxi-grandezze: 168 lastre di acciaio inossidabile per un peso complessivo di centodieci tonnellate.

Il “gesto” artistico si ripete nella novità assoluta della gigantesca forma tondeggiante e rispecchiante l’intero, circostante e sovrastante panorama terra-cielo. Il “Fagiolo”, così simpaticamente chiamato per la sua indubbia somiglianza col comune legume, è riconosciuto come il capolavoro fuori-classe di Kapoor, se non altro per l’immensa conquistata popolarità.

 

La grandezza di Anish Kapoor risiede, tuttavia, in ben altre opere apparentemente “astratte”, quali, per esempio, Adam (1990), un monolito, tipo menhir, piantato in terra, con raffigurato un rettangolo dipinto di blu, il colore amato da Yves Klein. 

La preistoria, dunque, ancora lontana millenni dalla “storia”, già però presagita da quel rettangolo blu. E, poi, quasi a conchiudere un arco produttivo di oggetti emblematici per “significati “e “simboli” lasciati con le porte aperte alle più libere letture e interpretazioni degli spettatori, Descension (2014).

Un grande cerchio (diametro metri otto), costruito sul pavimento, racchiude un vortice d’acqua che si inabissa vorticosamente in una grossa cavità centrale. I simboli: Il turbine che conchiude l’esistenza di tutti?

La crisi da cui è avvolta l’umanità e che disperatamente aspira a soluzioni che non siano percepibili nel gorgo al centro del mulinello? O che altro? Chi lo può dire!

Nonostante tutto, ciò nonostante, al suo cospetto, il costrutto ti attrae e sei quasi indotto ad accostarti il più che sia consentito. È il presagio di una fine già scritta e il terrore ti prende quando capisci che può attenderti non una sperabile ascesa, ma l’opposto, la discesa verso l’oscuro. E il cuore non smette di pulsare.

Se si vuole pensare ad un’arte concettuale densa di domande aperte, e senza risposte, però rivolte a chiunque s’imbatta almeno in una delle sue opere, è d’obbligo – si consentirà – passare nei paraggi frequentati da Anish Kapoor, lo scultore britannico con “radici” immerse nella cultura orientale e “rami” mossi dalle brezze occidentali: una personalità forse atipica, ma assai promettente in quanto ad auspici ben augurali.



 

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