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L'Invenzione dell'occidente, Alessandro Vanoli

Immagine del redattore: Silvano MoffaSilvano Moffa

LIBRI A cura di Silvano Moffa



Alessandro Vanoli “L’INVENZIONE DELL’OCCIDENTE”, (Ed. Laterza)

Ci fu un tempo in cui l’Occidente non esisteva se non come direzione. Esisteva l’arte di orientarsi, ma non c’era un luogo che corrispondesse davvero a quel nome.

Non c’era uno spazio che fosse tale in quanto “occidentale” e che facesse pensare a persone che lo abitavano di avere particolari caratteristiche sociali, politiche o culturali.

Quello spazio cominciò a mostrarsi agli inizi del XVI secolo, per poi definirsi nei secoli successivi. C’è una data e un luogo da cui, ragionevolmente, tutto ebbe origine: un giorno di metà aprile del 1524 quando in una piana assolata dell’Estremadura “i reali geografi spagnoli e portoghesi, chi con le mappe, chi con globi finemente dipinti “si incontrano per spartirsi il “nuovo mondo”. Non che prima di allora non ci fosse stato nulla. Tutt’altro. Qualche tentativo di definire confini, possedimenti e aree di influenza si era palesato ed aveva prodotto anche un trattato tra le potenze marinare dell’epoca come la raya di Tordesillas.

La  Raya, ossia la “riga” in spagnolo, che sanciva il dominio sul mare e sulle terre nuove conquistate dopo che le caravelle di Cristoforo Colombo si erano avventurate alla ricerca delle Indie ed erano finite sul bagnasciuga di un’isola dei Caraibi, nell’erroneo convincimento “che la misura della circonferenza terrestre andasse fissata a 20.400 miglia, pari a 30.192 chilometri, cioè 10 mila chilometri in meno di quella reale, che peraltro già nel III secolo a.C. era stata invece calcolata correttamente da Eratostene”.

Indipendentemente dall’errore di Colombo, sta di fatto che a Tordesillas si cominciò a definire “la pensabilità spaziale e giuridica dell’Occidente. O almeno, fu a partire da quella divisione che si misero in moto gli eventi che avrebbero portato alla necessità di definire una più precisa idea politica e geografica dell’Occidente”.

Una storia lunga, complessa, densa e articolata che Alessandro Vannoli ricostruisce con straordinaria efficacia narrativa e profonda conoscenza storica offrendo una idea compiuta e non vaga di Occidente, nelle sue mutevoli accezioni fino ai giorni nostri.

Se, dunque, l’idea primitiva di Occidente ha a che fare con il rapporto che i nostri antenati ebbero con il cielo, il sole, le stelle, i miti, l’astronomia, la religione, l’agricoltura, l’oceano, fino ai Romani per i quali Oriente e Occidente divennero qualcosa di definito solo a partire dal tardo periodo imperiale e soltanto a livello amministrativo (fu Diocleziano nel 293, con la costituzione tetrarchica a dividere  l’impero romano in due partes: Pars Occidentis e Pars Orientis), mentre, nel primo medioevo l’anonimo Libro dell’ordine delle creature, con tutta probabilità scritto nel VII secolo in Irlanda, dedicava un capitolo alla natura delle acque e al corso dell’oceano, notando che esso non solo divideva fisicamente i vari popoli, ma li univa anche, permettendo di trasportare i beni che essi producevano (un testo che con ogni probabilità influenzò un secolo dopo il monaco anglosassone Beda il Venerabile che, nella sua opera sulla Natura delle cose, affermò appunto che nulla come l’Atlantico divideva il globo tra Europa, Asia e Africa, pur nello stesso tempo connettendo tutte le regioni), è solo a fine Ottocento che l’idea di Occidente cominciò a muovere i suoi primi passi come principale concetto sociopolitico.

Più precisamente, fu tra il 1880 e il 1920 che la parola “Occidente” cominciò ad imporsi anche sul nome stesso di Europa nella retorica degli imperialismi britannici; allo stesso modo, fu negli stessi anni che il termine “occidentali” diventa non solo sinonimo, ma esplicito sostituto di concetti quali “civiltà bianca”.

E fu sempre esattamente in quel momento, negli anni Novanta dell’Ottocento, che negli studi accademici e nei discorsi pubblici tanto inglesi quanto americani cominciò ad apparire quell’idea che noi oggi diamo così facilmente scontata di “civiltà occidentale” (western civilisation).

Fu soprattutto nel periodo dal 1820 al 1850 che il concetto di Occidente si cristallizzò, sviluppando quei significati che sarebbero giunti fino ai nostri giorni. Fu un processo complicato, spiega lo storico, che si legò a molte trasformazioni dell’epoca, tanto a quelle interne quanto a quelle esterne: contò tantissimo, ovviamente, il nazionalismo seguito alla ricostruzione dell’Europa post-napoleonica e alla nascita del nuovo impero germanico, ma contarono altrettanto anche la suggestione di ciò che accadeva negli Stati Uniti e la graduale ascesa della Russia.

Non a caso fu proprio allora che la nozione di Occidente divenne parte del pensiero filosofico, inserendosi soprattutto nella riflessione di Hegel sulla filosofia della vita.

Il grande filosofo tedesco collegò l’idea di Occidente a quella di progresso: una “storia del mondo” che viaggiava da sempre da est ad ovest. Dove l’Europa era la fine assoluta della storia e l’Asia l’inizio: un Occidente illuminato che si stagliava contro un Oriente antico, incatenato alle strutture patriarcali e governato da regimi teocratici.

Hegel esercitò un’enorme influenza non solo in Germania, anche se non tutti erano d’accordo con questa idea di esplicita superiorità occidentale.

“Il Divario occidentale-orientale di Goethe era lì a dimostrarlo”.

Ma erano molti i circoli letterari e orientalisti che all’epoca si dedicavano a rendere accessibili testi indiani, persiani e arabi; e cercavano di trovare in “Oriente” ciò che, presumibilmente, era andato perduto per l’”Occidente”: spiritualità, trascendenza, armonia ed eternità.

Ma con buona pace di certi entusiasmi, quella crescente idea d’Occidente era soprattutto alimentata dal nuovo discorso politico: una percezione spaziale che si univa alla progressiva diffusione di idee razziali, così come stava avvenendo anche in Inghilterra o negli Stati Uniti. In questo senso, in Germania divenne particolarmente importante il confronto con la Russia.

A partire dal 1820 circa, infatti, si era cominciato a guardare a quell’enorme paese sempre più come una potenza “orientale”: i politici e gli intellettuali tedeschi ne parlavano come di un “impero d’Oriente” contrapposto magari agli Stati Uniti definiti “Stato libero occidentale”, in un voluto gioco delle parti dove il primo rappresentava la desueta “aristocrazia” e il secondo la nuova “democrazia”.

A questo punto, avverte Alessandro Vanoli non si capisce sino in fondo la storia dell’idea di Occidente se non si tiene in debito conto la reazione della Russia alle teorie che vennero elaborate in Europa durante l’Ottocento. Già nel Settecento gli sforzi di Pietro il Grande erano andati nella direzione dell’Europa illuminista, cercando di connettere la Russia alla cultura e alla civiltà che si estendevano oltre i suoi confini occidentali. Con lo zar Alessandro le cose si fecero più complicate.

Da un lato la Russia guardava con profondo interesse alla Rivoluzione francese, avviando un periodo di grandi riforme, dall’altro lato, la Francia “guardava alla Russia con occhio decisamente diverso e tra i due paesi crebbero rapidamente le tensioni”. Tensioni che toccarono il loro acne con le guerre napoleoniche e la sciagurata avventura della Grande Armèe, collassata tra le steppe russe. 

La domanda riguardo la natura occidentale oppure orientale della Russia ha “attraversato tutto il Novecento giungendo con tutta la sua drammatica urgenza sino ai giorni nostri”

Nel 1918 il tedesco Oswald Spengler intitolava il suo libro, la sua opera maggiore, Il tramonto dell’Occidente e affrontava la storia della civiltà seguendo un’idea che già nell’Ottocento aveva solide basi: le civiltà come organismi viventi. Una prospettiva che lo portava ad indagare sugli elementi che stavano ormai portando al tramonto dell’Occidente, un tramonto che coincideva con il tramonto della civiltà europea. Peraltro, Spengler non era il solo a sostenere questa tesi. Da un’altra posizione politica, anche Trotsky sosteneva la stessa cosa. “L’Europa è rovinata”, proclamò al terzo congresso del Comintern nel 1921;”la capacità produttiva dell’Europa è molto più bassa di prima della guerra, il centro economico si è spostato in America”.

Alla fine della Seconda guerra mondiale tutto questo divenne più chiaro. Il dominio dei mari del mondo che era stato della Gran Bretagna dal 1660 al 1945 passò agli Stati Uniti; dominio sancito nel 1949 dalla costituzione della Nato, l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord a conduzione statunitense. Mentre, dall’altra parte dell’Europa centro-orientale prendeva corpo l’influenza sovietica con l’istaurazione di regimi comunisti negli Stati occupati dall’Armata rossa. Come scrisse il grande storico Arnold Toynbee, “all’indomani della Seconda guerra mondiale il rimpicciolimento dell’Europa è un inequivocabile fatto compiuto”.

La Mitteleuropa fu cancellata e dimenticata; e come è stato giustamente notato, sarebbe rimasta nell’oblio sino agli anni Ottanta, quando la sua riscoperta culturale e letteraria, ad opera di scrittori come Milan Kundera e Claudio Magris, anticipò la ridefinizione politica del continente: quella che sarebbe avvenuta con la riunificazione delle due Germania, dopo la caduta del muro di Berlino, e l’ingresso degli Stati satelliti sovietici nell’Unione Europea.

Ma a quel punto, osserva Alessandro Vannoli, l’idea di un Occidente corrispondente all’Europa era ormai tramontata da tempo prendendo una dimensione sempre più atlantica.

L’idea di “civiltà occidentale” cominciò a circolare nei discorsi pubblici e accademici tanto inglesi quanto americani proprio agli inizi degli anni Novanta, quando alla Columbia University di New York venne fondato un corso didattico denominato per l’appunto Western Civilisation. 

L’idea che stava alla base di una simile nuova definizione universitaria era che vi fosse una civiltà la cui evoluzione andava dai greci ai romani, passando per l’Europa rinascimentale per giungere sino agli Stati Uniti, intesi come i veri eredi delle libertà maturare nell’Europa moderna.

Dopo la Seconda guerra mondiale questo percorso fu ancor più chiaramente definito, a partire perlomeno dal congresso dell’America Historical Association del 1949, segnato dalla presenza di protagonisti importanti come George Mosse, il grande studioso dei nazionalismi fuggito anni prima dalla Germania nazista.

In quella sede fu sottolineata la parabola storica con cui veniva definita la “civiltà occidentale”: un percorso che dai fasti della classicità greca e romana giungeva sino all’apice della libertà, cioè la democrazia statunitense.

Di lì in poi questo modello ebbe una diffusione capillare, attraverso la didattica scolastica, i libi e i prodotti televisivi. Si va da L’ascesa dell’Occidente, dello storico divulgatore William. H. McNeil, che nel 1963 produsse uno dei primi libri di storia mondiale, passando per la serie britannica Civilisation, realizzata dalla BBC nel 1969, che disegnava una parabola dell’impero romano sino alla New York del secondo dopoguerra.

Naturalmente, opere come queste non furono (e non sono) altro che il cappello culturale allo sviluppo di quella forza politica, strategica ed economica che nel Novecento si è concretizzato in quello che chiamiamo impero americano, ma che per molti versi coincide ancor oggi con l’idea che abbiamo di Occidente, oppure di civiltà occidentale. “In quell’idea – scrive lo storico – ci finisce dentro un po’ di tutto: un’idea, non sempre chiarissima, di libertà, garanzie individuali sul piano giuridico, democrazia nella sfera politica, liberalismo ed economia di mercato. Diciamo mondo occidentale, quindi, e pensiamo Nel corso del tempo molte cose sono cambiate. La globalizzazione, con i suoi limiti e le sue opportunità, ha rimesso in moto la storia del mondo, aprendo nuovi scenari e ridisegnando la geopolitica e la geoeconomia.

Per quanto gli Stati Uniti esercitino ancora un ruolo imperiale di controllo, sono tanti gli attori mondiali che reclamano (e hanno ormai ottenuto) un ruolo fondamentale nella politica mondiale: la Cina, in primo luogo, ma anche la Russia, l’India, l’Iran, la Turchia. Anche per questo “il multilateralismo”, in tema di decisioni importanti riguardanti il clima o la sicurezza, è diventato più una necessità che una scelta.

Il sogno dell’era della globalizzazione di vedere superate definitivamente le frontiere si è rivelato un incubo: dall’invasione russa in Ucraina al conflitto tra Israele e Palestina, tutto parla di terre e di conflitti ancora insanguinati.

Ciò che rimane “sono frammenti di una storia che sta evolvendo davanti ai nostri occhi”. E se guardiamo la terra dallo spazio, dove si gioca una ennesima partita di dominio, pronti a contendersi le comunicazioni e i controlli delle orbite satellitari, i minerali della luna e gli insediamenti su Marte, non c’è Oriente e non c’è Occidente. Di quest’ultimo resta l’idea di come di un’antica immagine geografica fosse rimasta “la mappa incerta e a misura variabile di un impero fondato su logiche economiche e aspirazioni giuridiche e politiche”.

In realtà, nei suoi molteplici volti, l’Occidente si è sempre portato dietro qualcosa della sua lunga storia, adattandosi a questo suo destino geografico e politico.



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