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L’INVERNO DEMOGRAFICO È IL NOSTRO DESTINO?

I recenti dati di tutti gli istituti certificano la continua e costante decrescita della popolazione italiana.

I decessi superano le nascite: nel 2019 è stato registrato un saldo negativo di 212 mila unità, dovuto alla differenza tra 647 mila decessi e 435 mila nascite. È il dato più basso mai registrato nel nostro Paese.

Il tasso di fecondità, si legge nel Rapporto ISTAT, è di 1.29 figli per donna, largamente insufficiente a garantire il necessario ricambio generazionale stimato a 2.1 figli per donna. Le culle vuote, secondo questo trend, ed in assenza di politiche volte all’incremento della natalità, saranno destinate ad aumentare. Una prospettiva inquietante. Da ricondurre, oltre che al deficit di progettualità e al neo-egoismo, giustificato dalle coppie nel programmare le loro esistenze tenendo insieme il piano familiare e quello lavorativo, anche da quella che viene ritenuta la causa principale dell'inverno demografico, l’aborto di Stato.

Una piaga che colpisce sempre di più le giovani donne le quali, in assenza di una cultura della maternità, si sbarazzano di gravidanze indesiderate con una leggerezza che fa rabbrividire. Purtroppo tale dato è sistematicamente ignorato dalle istituzioni politiche e sociali e perfino il quotidiano dei vescovi Avvenire, quando si occupa di demografia evita accuratamente di dedicare una sia pur minima attenzione al problema, sintomo di un laicismo culturale che non è possibile sottacere a fronte delle molte manifestazioni pro life che si tengono nel mondo e che raramente vedono la presenza delle gerarchie ecclesiastiche.

Dal 1978 ad oggi, grazie alla legge 194, sono stati perpetrati innumerevoli “omicidi” nella convinzione che il feto non ha vita. Da oltre quarant’anni, dunque, lo Stato finanzia uno degli strumenti più odiosi, inaccettabili, che incidono sulla denatalità e l’impoverimento morale, culturale e civile della nazione qual è l’aborto, salvo poi sottolineare l’insostenibilità della decrescita demografica, anche se a nessuno viene in mente di condannare esplicitamente la diffusa pratica dell’aborto che con leggerezza viene accettata da famiglie e istituzioni che ne fanno addirittura una bandiera di libertà.

E così l’opinione ritiene l’aborto non più un arbitrio intollerabile, né confessionalmente un “peccato”, semplicemente perché lo reputa come “diritto acquisito”. Nel nome del cosiddetto politically correct, secondo cui la libertà di scelta domina la morale e ciascuno può disporre come vuole del proprio corpo oltre che di quello del nascituro.

Ma nel problema della natalità, unitamente a quanto rilevato c’è anche “un narcisismo di massa - come ha sottolineato il fondatore del CENSIS Giuseppe De Rita - che fa temere al ceto medio un progressivo impoverimento. Non si è più disposti a fare sacrifici per proiettare in avanti, attraverso i figli, le proprie speranze. Il crollo delle nascite nell' ultimo decennio sarebbe stato ancora più verticale se l'Italia non avesse goduto dell'effetto compensatorio della fecondità delle straniere”. Questo effetto non può risolvere, neppure parzialmente, il problema. Esso è legato a contingenze che innescano processi difficilmente governabili e dunque danno luogo ad una instabilità etnico-culturale e religiosa che non si può negare. Soprattutto in rapporto al tasso molto alto di fecondità dei Paesi dai quali gli immigrati provengono rispetto all’Europa dove la convivenza è sempre più difficile, mentre la multiculturalità sulla quale l’illusione di integrare popoli diversi si fondava, fa acqua da tutte le parti, come di recente ha ammesso anche la Cancelliera Angela Merkel.

La politica demografica è stata nel corso dei secoli, e soprattutto nell’antichità (vista come protezione dell’etnia), la priorità delle classi dirigenti che fondavano sull’incremento della popolazione la forza dei loro Stati sia per quanto riguardava il reclutamento militare (difesa della città o dell’Impero) sia per ciò che concerneva la forza-lavoro specialmente in agricoltura e nella costruzione delle imponenti difese murarie, oltre che in tutte le opere di edilizia al servizio della comunità, dai canali alle strade. Opere gigantesche che ammiriamo nelle nostre prossimità i possenti acquedotti ed i maestosi templi glorificanti la sacralità degli Dèi.

Tutto era possibile purché masse di esseri umani fossero disponibili ad impegni gravosi sotto il profilo fisico e capaci sotto quello progettuale. L’incanto dell’antichità giunto fino a noi rimanda, per chi riesce a coglierlo, alla politica della natalità raccomandata da Platone, narrata da Esiodo e ricordata nel nostro tempo dall’antropologo tedesco Hans Friedrich Günther. Una sorta di epica per la quale il numero costituiva la potenza e l’arte del discernimento s’incaricava di ingentilirla con l’apprendimento delle fonti del sapere, sicché immaginando le decine di migliaia di operai, progettisti, scultori, pittori ed inventori di macchine geniali per la costruzione della dimora dell’imperatore Adriano a Tivoli, ad esempio, viene in mente che se Roma non avesse potuto disporre di una massa di manovra, efficiente, prestante ed intelligente, noi non avremmo avuto la ricostruzione in miniatura nel cuore dell’impero del porto di Alessandria sul quale Adriano giocava con l’acqua ricordando i suoi giorni felici in compagnia di Antinoo, mentre un sistema di spazi concentrici, sotterranei e sopraelevati offriva lo spettacolo di una città chiusa, inviolabile e guardata a migliaia di inservienti che proteggevano la pace dell’imperatore intento ad imprese militari non meno che a costruzioni inimmaginabili duemila anni dopo, come il Vallo di Adriano. Tutto era possibile con l’intelligenza e le braccia.

La costruzione della “Città antica”, suggestivamente descritta da Fustel de Coulanges, rimanda allo sforzo di uomini e donne che si succedevano per decenni nel completare ciò che non era mai completo, senza soluzione di continuità perché i figli seguivano l’opera dei padri e dopo di essi ne venivano altri a misurare il tempo nella rappresentazione di ciò che nasceva per essere eterno.

Oggi che non si fanno più figli, e quando si fanno non vengono quasi mai accolti come una benedizione, impoveriscono le nostre contrade popolate da meccani mossi da pochi e sparuti individui che chissà da dove colpiscono perfino popolazioni inermi (altro che “tempeste d’acciaio”, vili tempeste invisibili apportatrici di morte piuttosto) senza farsi vedere, lontani migliaia di chilometri. Ed ai meccani affidiamo le nostre fragili esistenze in tutti i campi perché non c’è abbastanza gente disponibile: tutto è predisposto affinché le braccia, le mani, le dita, gli occhi, le labbra impercettibilmente si muovano, tocchino, sfiorino una macchina dalle sembianze mostruose per approntare qualsiasi opera di cui l’uomo ha bisogno per vivere la sua vita aliena nella gigantesca Heliopolis consegnataci dal pauperismo intellettuale illuministico e dalla religione della negazione della grandezza che officia il “pensiero unico” dal quale discende e ci consegna la credenza secondo la quale più le culle sono vuote, meglio si sta. Ma le vuote culle sono bare piene di niente. Esse certificano il trionfo dell’anemia demografica, come chiama la catastrofe della denatalità la giovane studiosa, biologa e nutrizionista Cristina Coccia.

In un libro che altrove ed in altri tempi probabilmente, avrebbe acceso discussioni e riflessioni sul nostro destino e sulla nostra inevitabile estinzione, Coccia descrive L’anemia demografica con la freddezza di un anatomopatologo che si applica a sezionare i residui della civiltà e scopre che l’anemia, malattia del sangue che comporta una riduzione patologica dell’emoglobina, e dunque una ridotta capacità sanguigna di trasportare ossigeno, è il morbo che ha colpito la fertilità. Anzi, ha determinato l’infertilità. Ha provocato la desertificazione delle culle. Ha isterilito i ventri delle giovani donne e l’incapacità dei maschi a nutrire l’ambizione di trasmettere un’eredità, dai cromosomi al nome.

L’Italia (ma il fenomeno è europeo) è un aggregato di cellule stanche, nella migliore delle ipotesi pigre, incapaci, sbandate. “Nel nostro sangue demografico - scrive la Coccia - si è verificata una lacerazione del tessuto sociale che ha provocato, nel tempo, un distacco tra le componenti che mantenevano il nostro gruppo etnico abbastanza coeso e sano”. L’ emorragia demografica rischia di provocare l’estinzione, a lungo andare, del nostro popolo, della nostra cultura, della nostra memoria. Una catastrofe della quale - ma non ci sorprende - la politica non si occupa o finge di occuparsene soltanto “economicamente” immaginando che la “sostituzione” con gli immigrati risolva i problemi. Ma anche questi, una volta a contatto con l’ideologia che “uccide i popoli”, il consumismo, si adatteranno all’occidentalismo che nega la riproduzione e non faranno più tanti figli quanti ne fanno ora. E poi non tutto si può ricondurre ai valori economici. È vero che la denatalità è figlia dell’economicismo, del carrierismo, dell’egoismo, della negazione di se stessi nell’acquisizione di materialità oggettive che impediscono la cura e l’attenzione allo sviluppo di un figlio, ma non è estranea una sorta di patologia della rinuncia a perpetuarsi.

Il “pensiero unico” è responsabile della denatalità. Almeno indirettamente. L’immiserimento spirituale e morale ha generato l’omologazione verso il basso. Il pensiero critico si batte da posizioni minoritarie, ma per quanti sforzi si facciano è difficile togliere una play station dalle mani di un ragazzo per mettergli davanti un testo di poesie. Perché il sistema è intrinsecamente modellato affinché l’ambizione di una vita da fellah o da mimicry, come diceva Spengler, è quella che gli occidentali hanno adottato avendo come fine l’happy end, l’immortalità di una serata ricca di gadget come droga e sesso a basso costo. Rinunciare a questa prospettiva per assumere la funzione di vir, in senso classico, è piuttosto complicato. Le strutture formative che aderiscono al pensiero unico inoculato, diffuso, espanso dai padroni del potere, da coloro che devono vendere prodotti standardizzati perché l’ugualitarismo ideologico fiorisca favorendo l’egualitarismo finanziario e globale, non hanno interesse a differenziare l’offerta.

Come sottrarci alla decadenza? “Seguendo una disciplina interiore ed esteriore - scrive Coccia - che ci permetta di agire prima su noi stessi, poi nelle piccole comunità, nei comuni di pochi abitanti, quindi nelle piccole città e, infine, sul terreno della politica nazionale ed europea, per ripristinare i nostri sistemi di difesa etnica”.

Ragionevole. Ma, osservo: se gli altri, gli stranieri, gli immigrati, coloro che vivono in altre dimensioni, che vivono anche male oltretutto, figli ne fanno e sono destinati a diventare massa di manovra e di conquista inevitabile di spazi e di ricchezze, il problema è tutto italiano, europeo, occidentale perché siamo noi ad aver perso il filo che tiene unita la vita. Abbiamo negato il passato distruggendo la memoria; abbiamo abolito il presente soltanto perché esiste nell’attimo in cui compiamo qualsiasi atto che soddisfi le nostre vanità o ingordigie; abbiamo scacciato dal nostro universo il futuro dicendo che non ci appartiene e che con noi morirà ogni cosa perché questo è il risultato della cultura dominante, del “pensiero unico” che si fonda sull’attimo. Dunque i figli degli altri saranno maree umane che ci sommergeranno senza nessun inganno e neppure malevolenza dal momento che noi abbiamo rinunciato a perpetuarci, a vivere per chi verrà. Il legame generazione si è spezzato. Il filo si è interrotto.

Riprenderlo, a meno di rivolgimenti epocali, sarà pressoché impossibile. Al momento il nostro destino è l’anemia. Ed è incurabile. Un male tutt’altro che oscuro che lascia vuote per ora le culle dell’Occidente che domani sarà soprattutto per questo probabilmente un’altra cosa.

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