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La crisi del regionalismo tra Titolo V e Area Vasta

La Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice ha recentemente pubblicato negli Annali le relazioni del convegno “Le Regioni a statuto ordinario a cinquant’anni dalla loro attuazione”.

Pubblichiamo l’intervento tenuto nell’occasione dal nostro direttore Silvano Moffa.

A cinquant’anni dalla nascita delle Regioni non è superfluo chiedersi se abbiano funzionato e quali risultati abbiano conseguito. La domanda appare ancor più urgente alla luce dei contrasti, quando non veri e propri conflitti, sorti tra Stato e presidenti regionali in piena pandemia da Coronavirus.

L’idea di un decentramento regionale si è imposta in Italia fin dai primordi dell’unificazione nazionale. L’idea poggiava sulla diversa conformazione geografica e storica della Penisola, sulle differenze nei suoi elementi etnici, economici, sociali. Sembrava che l’articolazione di un panorama così vasto potesse rafforzare l’unità nazionale. Che le differenze potessero costituire una ricchezza.

I costituenti si immersero in discussioni infinite sul come costruire un sistema di autonomie territoriali coerente con quel disegno.

I Comuni e le Province erano enti preesistenti all’Unità. Avevano già acquisito un “valore” e una identità propria che li rendeva immediatamente riconoscibili ai cittadini.

La Regione, come ente decentrato dello Stato, nasceva, invece, principalmente da un duplice fattore: l’uno di necessità e l’altro di opportunità.

La necessità di dar voce e rilievo alle singole specificità, ai caratteri e bisogni di luoghi e territori, pur così diversi fra loro. L’opportunità di avvicinare i cittadini allo Stato, consentendo una loro diretta partecipazione all’amministrazione di una serie di enti di “ampiezza crescente”, per dirla con Costantino Mortati, collegati con gruppi di interesse ai quali essi sono più sensibili per loro stessa natura.

Alla base del ragionamento tecnico-giuridico-politico che sovrintende il varo delle regioni, c’era il desiderio di accrescere il senso di responsabilità dei cittadini, il loro attaccamento alla cosa pubblica e l’esercizio consapevole dei diritti politici.

Dopo cinquant’anni, quel sentimento costituente è svanito. La partecipazione elettorale si è sensibilmente ridotta. La distanza tra istituzione regionale e cittadini si è ampliata.

Con la modifica del Titolo V della Costituzione, che ha eliminato ogni forma di gerarchia tra Stato, Regioni, Province e Comuni, ponendolo sullo stesso piano (equiordinazione), la situazione si è vieppiù appesantita.

Nella sua ambigua e confusa formulazione, la riforma del Titolo V ha moltiplicato il numero dei contenziosi tra Regioni e Stato innanzi alla Consulta sulle materie concorrenti, ossia su ambiti legislativi dove le rispettive competenze sono aleatorie e non ben definite. Insomma, un guazzabuglio inestricabile.

Una matassa legislativa confusa e dannosa.

Ove ce ne fosse stato bisogno, l’emergenza sanitaria indotta dal Covid-19, ha definitivamente mostrato il lato ambiguo e oscuro di questa articolazione di poteri e funzioni tra i vari livelli istituzionali.

Né ha soccorso la leale collaborazione che, pure, l’emergenza stessa avrebbe richiesto.

Se c’è una cosa che abbiamo imparato dall’epidemia del Coronavirus è di non potersi fidare del Titolo V della Costituzione.

Aver disarticolato lo Stato, privandolo di funzioni essenziali demandate alle Regioni, ed aver, al tempo stesso, introdotto in Costituzione un elenco di materie sulle quali c’è concorrenza tra Stato e Regioni, ha generato una sovrapposizione di ruoli e poteri che, ben che vada, ingessa, paralizza azioni e decisioni sia dell’uno che delle altre. Conseguenze rese ancor più gravi quando si è al cospetto di situazioni di emergenza come, appunto, è accaduto con lo sconosciuto virus venuto dalla Cina.

In una intervista al Corriere della Sera, l’igienista di fama mondiale, Walter Ricciardi, diventato consigliere del ministro della Salute, Roberto Speranza, per le relazioni dell’Italia con gli organismi sanitari internazionali, dopo essere stato a lungo inascoltato dal governo circa le misure da assumere per arginare il contagio, ha chiaramente detto che “chi ha dato l’indicazione di fare i tamponi anche alle persone senza sintomi, gli asintomatici, ha sbagliato”. “La strategia del Veneto non è stata corretta perché ha derogato all’evidenza scientifica”, ha aggiunto lo scienziato. Ancora: “Le linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità, riprese dall’ordinanza del ministro della Salute non sono state applicate”.

L’effetto di queste dichiarazioni è stato quello di generare confusione e allarme sociale.

Se dovevamo avere una conferma di quanto sottolineato in premessa, le parole di Ricciardi – ma questo è solo un esempio – non lasciano spazio a dubbi.

Il sistema concepito dal legislatore sull’onda della spinta federalista e di una autonomia regionale diventata patrimonio di quasi tutte le forze politiche, presentava e presenta non pochi problemi applicativi.

Sondarne le ragioni, al punto in cui siamo, dovrebbe essere avvertito come un dovere e un atto di responsabilità politica ed istituzionale.

E’ un punto dal quale non si può sfuggire. Prenderne coscienza e cercare di porvi rimedio è un dato su cui appuntare la riflessione, senza con questo, essere tacciati di nostalgici del vecchio centralismo statale o, peggio, come infettati dal virus della polemica fine a se stessa.

Prendiamo un altro esempio che ha fatto molto discutere.

Il presidente della Regione Marche, spinto da una forma di cautela e di prevenzione, ordina la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, disattendendo le disposizioni del governo che, a sua volta, impugna il provvedimento regionale.

Chi ha ragione? E dove è finita la “leale collaborazione” tra le istituzioni? Nel caso di specie, in sede giurisdizionale, la posizione del governo è stata giudicata prevalente. Resta il fatto, non secondario, che è dovuta intervenire la giurisdizione per dirimere tale controversia.

Per non parlare della stucchevole polemica tra il presidente della Lombardia, Attilio Fontana, e il premier Conte circa le presunte inefficienze di alcuni ospedali.

Anche se in qualche modo sedata, più per un sussulto di decenza nei confronti degli italiani, già abbastanza scossi dal rincorrersi di notizie spesso confuse e contraddittorie, che per un effettivo chiarimento tra le parti in causa, quella polemica per i toni e i contenuti (il capo del governo ha minacciato di revocare i poteri alla Lombardia) ha lasciato un nervo scoperto.

Insomma, il punto della questione non eludibile risiede proprio nella riforma del Titolo V.

Per superare il tanto deprecato centralismo statale si è messo in piedi un sistema che non funziona. Non funziona, soprattutto, quando scatta una emergenza nazionale o viene messo in discussione il “prevalente interesse nazionale”, che pure, la riforma stessa, ha inteso salvaguardare all’interno dello stesso articolo 117.

Carl Schmitt

Il caso pandemia ha mostrato in tutta evidenza la fragilità sistemica della mancanza di una unicità di comando. Di un riferimento istituzionale che non si limiti alla regia e al coordinamento, ma che sia di effettiva decisione.

Ogni decisione, per essere efficace, non può limitarsi alla cosiddetta “leale collaborazione” dei soggetti coinvolti.

La lealtà è una qualità morale.

La parola deriva dal latino legalitas e indica una componente del carattere della persona. Platone la considerava una prerogativa dell’uomo giusto.

La decisione attiene alla sfera del comando. Un concetto, ci ricorda Carl Schmitt, che è l’essenza del diritto.

Che opera nel cosiddetto “stato di eccezione”, ossia quando se ne ravvisa l’evenienza e la necessità. Solo che, per operare, occorre che chi decide sia messo nelle condizioni di farlo.

Non è un caso se, a differenza di quanto accade in Italia, in altre importanti democrazie europee, come la Francia, la Germania e il Regno Unito, lo “stato di eccezione” sia disciplinato e costituzionalmente previsto. Il timore, dopo il Fascismo, di lasciare un varco a possibili governi forti, indusse i padri costituenti a tenere fuori dalla Costituzione una simile evenienza.

Ma ora, a distanza di decenni e dopo aver messo inopinatamente sullo stesso piano Stato, Regioni, Enti locali e Città metropolitane, nel nome della cosiddetta orizzontalità istituzionale, è lecito chiedersi se non sia opportuno stabilire una qualche forma di verticalità.

Qui non si tratta di rivendicare un ruolo superiore dello Stato che pur dovrebbe esserci, se si ha chiaro il concetto di sovranità e quel che esso comporta. Si tratta, piuttosto, di rendere il quadro istituzionale, nell’articolazione di poteri, funzioni e competenze amministrative, più coerente, efficace e ordinato.

Della crisi del regionalismo si parla spesso individuandone il fattore principale nella insufficiente attuazione del principio autonomistico e di decentramento iscritto in Costituzione. Nasce da qui la proposta a suo tempo sottoposta a referendum dalle regioni del Nord tesa ad ottenere un federalismo rafforzato e differenziato, anch’esso al centro di non poche discussioni tra opposti punti di vista. Il regionalismo italiano, secondo i sostenitori di questa tesi, è in crisi per difetto dell’attuazione legislativa, perché lo Stato accentra su di sé ancora troppe risorse, lasciando i territori sguarniti di fondi da gestire autonomamente.

Non ci si pone, al contrario, la domanda se la crisi dipenda piuttosto da un eccesso di prescrizioni, funzioni e poteri rispetto alla realtà socio-economica nazionale. Se la crisi, al di là delle contingenze, non sia invece più profonda, di carattere strutturale.

Se la stessa idea di espandere il regionalismo, rafforzandolo in alcuni ambiti territoriali a scapito di altri, non cozzi con la realtà dei fatti, con il dato di inadeguatezza delle stesse strutture regionali, i cui costi, peraltro, sono lievitati nel tempo, moltiplicando i centri di spesa e accentuando la burocratizzazione del sistema.

Non ci si chiede, in sostanza, se aver eliminato il vecchio centralismo statale non abbia favorito il nascere di un nuovo centralismo regionale. Anzi di venti centralismi regionali, quante sono le regioni italiane.

Al complesso quadro delle criticità fin qui evidenziate si aggiunge la sconfortante soluzione adottata dal legislatore in merito alle Province. Queste ultime dovevano, secondo la vulgata dell’antipolitica, essere cancellate per razionalizzare il sistema delle autonomie territoriali e per risparmiare risorse. In realtà le Province non sono state soppresse, bensì depotenziate e trasformate in organi territoriali di secondo livello quanto alla rappresentanza, non più di derivazione popolare diretta. Una soluzione che, a conti fatti, non ha portato alcun risparmio significativo e ha creato più problemi di quanti ne abbia risolti.

Molte funzioni provinciali sono transitate alle regioni e ancora attendono di essere efficacemente espletate. Altre sono state lasciate in capo all’ente destrutturato senza fornirlo delle necessarie risorse per renderle operative. Le conseguenze negative sono sotto gli occhi di tutti. Si pensi allo stato di incuria e di abbandono in cui versano le strade provinciali oppure al ritardo nella messa a norma e modernizzazione dell’edilizia scolastica in gran parte del Paese.

La verità è che il riordino delle autonomie locali doveva avvenire seguendo una linea di analisi delle criticità e delle potenzialità territoriali, razionalizzando dove c’era da razionalizzare (si pensi alla miriade di consorzi, di Ato e alla varietà di società pubbliche e autorità costruite ad hoc) e implementando funzioni e livelli di responsabilità laddove questi fattori erano carenti o, spesso, sovrapposti.

Gettando il bambino con l’acqua sporca si è finito con l’incidere profondamente nel tessuto connettivo e identitario della nostra Nazione. Le Province italiane, per storia, cultura, natura, geografia, tradizioni, appartengono alla struttura socio-economica e identitaria del nostro Paese. Struttura, appunto, non sovrastruttura. Territori come il Salento, la Ciociaria, la Maremma (ma l’elenco è lunghissimo) sono luoghi e ambiti che esprimono identità, dialetti, idiomi, forme, usi e costumi, un vissuto sedimentato che, nei secoli, si è fatto valore. E’ quel che chiamiamo senso comunitario. Un fattore fondante. Trascurarne o svilirne l’essenza equivale a negare la storia della nostra Nazione.

Sul piano amministrativo, inoltre, alle Province era stato assegnato, con il nuovo ordinamento degli enti locali del Duemila (Dlg. n.267), un ruolo di regia e di supporto a favore dei comuni soprattutto nel campo della pianificazione territoriale strategica e nelle politiche attive del lavoro. In sintesi, alle Province il legislatore aveva affidato un compito di programmazione su area vasta, in forza di un concetto europeo che altrove trova spazio e concreta attuazione: ossia la individuazione di un soggetto istituzionale capace di esaltare la propria terzietà rispetto agli altri livelli istituzionali (Regioni e Comuni), armonizzando le politiche del territorio, superando campanilismi e settorialismi, nell’interesse prevalente dello sviluppo e della crescita sostenibile dell’area vasta, intesa, quest’ultima, come bacino socio-economico-produttivo ottimale. .

Se si guarda all’Europa, non mancano esempi di aree compromesse sottratte alla crisi e riconvertite allo sviluppo o rese più vivibili grazie al governo dell’area vasta: si pensi all’Irlanda, alla Renania, alla Catalogna oppure all’area metropolitana di Berlino o al Randstad Holland.

Di un ente intermedio di programmazione tra Regioni e Comuni oggi si avverte la mancanza.

Da un lato, in conclusione, il regionalismo mostra tutti gli effetti della sua crisi. Dall’altro, il depotenziamento delle Province, ha spezzato il raccordo tecnico-operativo e programmatico sul versante territoriale più vicino al cittadino. Che cosa fare per porvi rimedio? Proviamo a indicare una rotta, se possibile.

Se appare difficile far digerire ad una classe politica fin troppo abbarbicata a centri di potere moltiplicatori di spesa improduttiva – e le Regioni non ne sono esenti - una radicale riforma dell’intero impianto autonomistico del nostro Paese, che elimini del tutto sovrastrutture territoriali che complicano maledettamente la vita ai cittadini e alle imprese, almeno si avvii una sostanziale razionalizzazione di un sistema che appare ormai a tutti come un vestito di arlecchino, scompigliato e, in qualche caso, persino fraudolento.

Si potrebbe iniziare, per esempio, con il ridurre il numero stesso delle Regioni. Non più venti Regioni con venti presidenti e venti politiche diverse. Bensì cinque o sei macroregioni definite sulla base di una più attenta e appropriata analisi geoeconomica degli ambiti territoriali di pertinenza, utilizzando una linea di perimetrazione che tenga conto di alcuni parametri (struttura e organizzazione politica, storia, identità, vocazioni) che meglio rispondano alle nozioni di “sistema economico” e di “coesione”. Nozioni meno astratte della cosiddetta nozione “spaziale”.

Ogni territorio può essere studiato nella sua dimensione multipla, nelle sue criticità e potenzialità. Seguendo paradigmi non astratti, come tali, direttamente percepibili dai cittadini. I distretti industriali, per certi versi, hanno dato prova della bontà di queste nuove linee di programmazione e sviluppo.

Ora, con le nuove sfide del digitale e della green economy che l’Europa impone, sarebbe delittuoso rimanere fermi e lasciare le cose come stanno. Si impone un cambiamento di rotta, una nuova pulsione legislativa che rimetta ordine nel sistema delle autonomie territoriali, verticalità nel rapporto Stato-Regioni, non limitandolo, come qualcuno propone, ad una semplice “clausola di prevalenza”, dove il concetto di sovranità rischia di avere contorni sfumati e non ben definiti.


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