Dall’inizio del 900 il trattamento salariale e le condizioni da rispettare nel rapporto di lavoro sono stati sempre più regolati dai contratti collettivi, cioè da accordi tra datore di lavoro (o un gruppo di datori di lavoro) ed un'organizzazione di lavoratori. Nel nostro Paese si è soliti far risalire all'ottobre 1906 il primo contratto collettivo; i protagonisti, la federazione nazionale degli operai metallurgici (gli attuali metalmeccanici) e la fabbrica di automobili Itala, mitica casa automobilistica torinese attiva dal 1903 al 1934. Fu, tuttavia, il Gran Consiglio del fascismo, nella Carta del lavoro del 1927, a stabilire il principio che le condizioni di lavoro fossero regolate tramite la contrattazione collettiva (anche se va ricordato che le norme esecutive verranno dettate solo alla vigilia della promulgazione del Codice civile corporativo nel 1941). La nostra Carta costituzionale prevede, all’art. 39, che le associazioni sindacali di categoria stipulino i contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce. Oggi, secondo i dati del Cnel, si contano ben 919 contratti collettivi nel solo settore privato, a cui i devono aggiungere 15 Ccnl della Pubblica Amministrazione e 48 del mondo dei lavoratori parasubordinati.
I contratti collettivi così come li intendiamo oggi, nascono, dunque, sotto la spinta delle associazioni di mutuo soccorso, radicate nel nostro Paese soprattutto nei pochi territori dove esisteva un’industria o una tecnica di coltivazione non basata sulla piccola proprietà o sul latifondo e con il compito fondamentale di stabilire un salario minimo, la c.d. tariffa.
E, a ben vedere la storia dei contratti collettivi è legata al processo di produzione attorno alla fabbrica, luogo in cui la concentrazione dei lavoratori ha costituito momento aggregate e di incontro degli interessi individuali legati al lavoro (salario più alto, migliori condizioni di lavoro, diritto alle ferie, ecc.) che sono divenuti collettivi e, quindi, oggetto di rivendicazione nei confronti del datore di lavoro.
In Italia il movimento sindacale ha raggiunto il suo massimo successo con le lotte rivendicative della fine degli anni 60. In quegli anni alle richieste salariali spontanee nelle grandi fabbriche si associarono le agitazioni studentesche che reclamavano la tutela ed il riconoscimento del diritto allo studio in Italia per tutte le classi sociali e un mutamento dell’ordine costituito. La legge n. 300/70, nota come Statuto dei lavoratori, costituisce il punto di riferimento essenziale di quella stagione di lotte e definisce il quadro generale delle tutele.
A tale quadro normativo, le imprese hanno reagito disarticolando il processo produttivo ed attuando una delocalizzazione degli impianti e dei processi fabbricazione industriale. Dagli anni ‘70 in poi, infatti, anche in Italia si è sempre più diffuso un insieme di pratiche adottate dalle imprese di ricorrere ad altre imprese per lo svolgimento di alcune fasi del proprio processo produttivo (o anche delle sole fasi connesse ai processi di supporto); in altre parole, le imprese, nella realizzazione del prodotto, hanno ritenuto sempre più conveniente affidare all'esterno la produzione di un bene (o servizio) che era stato fino ad allora fatto all'interno della stessa azienda. L’obbiettivo mai celato è stato in primo luogo quello di abbattere il costo del lavoro che, in dette piccole realtà delocalizzate, poteva sfuggire alla normativa cui invece erano tenute le aziende di più grande dimensione.
Il processo di “delocalizzazione” sopra illustrato è stato attuato dalle imprese italiane a partire dagli anni ’70 seguendo uno schema ricorrente che prevedeva il coinvolgendo tutti coloro che già all’interno della fabbrica avessero dimostrato, per capacità ed attitudini, di poter essere all'altezza di svolgere attività necessarie alla stessa impresa in modo autonomo. In tal modo, parti del processo produttivo sono stati traferiti a tale soggetto. Allo stesso è stato garantito, spesso, oltre al supporto tecnico necessario per produrre beni e servizi per l’impresa madre, anche il capitale (e/o le garanzie) necessarie per la costituzione dell’impresa.
Tale neonata impresa resa così formalmente autonoma ha potuto progredire nella certezza della vendita della produzione, realizzata in esclusiva per la casa “madre”.
La disarticolazione delle grandi fabbriche ha prodotto, senza dubbio, tanti imprenditori di successo, e ha avuto anche un potente un impatto sulla società italiana; se da un lato tutti coloro che si erano messi in proprio hanno dato una immagine di una Italia sicura e spavalda, anche la successiva generazione è cresciuta con il modello vincente sempre presente assorbendo gli elementi ideali che costituivano il successo di una classe d’imprenditori piccoli (ma coraggi) e se ne è fatta convinta portatore. Questi soggetti sono divenuti l’asse portante di un movimento ideale antiideologico, fondato sull’iniziativa privata e fautore dell’idea che solo il libero mercato possa apportare vantaggi e che la pianificazione e, quindi, l’intervento statale sia potenzialmente dannoso se non interviene a favore delle imprese. Tale movimento, che qualcuno ha definito neoliberale, ha finito per condizionare non solo l’andamento dei mercati, ma anche le nostre vite private, influenzando il nostro modo di pensare, lavorare, vivere.
Con l’affacciarsi di questa nuova mentalità, il ruolo dei sindacati è venuto a perdere di centralità e, in particolare, i lavoratori più giovani, peraltro più istruiti e professionalizzati, hanno creduto che il salario e le condizioni di lavoro potessero essere discusse direttamente col datore di lavoro, senza la necessità di un soggetto intermediario (appunto il sindacato); l’effetto è stato un progressivo abbassamento in termini reali del salario individuale, come i vari dati statistici degli ultimi anni dimostrano.
In effetti, tali piccole imprese sono state capaci di eludere il complesso delle varie norme poste a tutela del lavoro utilizzando spesso in modo scorretto i contratti di lavoro atipici, per loro natura caratterizzati da maggiore flessibilità del lavoro. L’effetto macroeconomico, come anticipato, è stato l’abbassamento del salario reale e la creazione di una ampia area di lavoratori non coperti dai contratti collettivi e con salari molto al di sotto di quelli contrattualizzati.
In tale contesto, dunque, la questione del salario minimo si pone con tutta evidenza. L’idea di affidare il compito di determinarne il livello minimo alla legge (e non solo alla contrattazione come oggi avviene nel nostro paese) determina certamente un intervento a gamba tesa sulla già moribonda contrattazione collettiva, ma tenta di coprire settori non più marginali del lavoro post-industriale, che i sindacati tradizionali non coprono più.
Il rischio paventato da diverse organizzazioni sindacali di un appiattimento del salario verso il basso anche per i contratti collettivi già sottoscritti è, a nostro modo di vedere, un falso problema. C’è da riflette infatti sul fatto che la contrarietà al salario minimo di alcuni sindacati trova ragione profonda nel fatto che questo toglierebbe loro il già poco potere contrattuale che essi oggi esercitano.
D’altra parte, tornando al cuore del problema circa il presunto danno sul salario medio, c’è da ritenere che il salario minimo, dal nostro puto di vista, contribuirebbe a ridurre il divario esistente tra gli estremi della scala salariale, minimizzando le disuguaglianze tra salari. L'introduzione, infatti, del salario minimo nei settori sindacalizzati avrebbe, difatti, un'influenza positiva anche sull'aumento dei salari nei settori non sindacalizzati.
L’aumento dei salari, peraltro, potrebbe invece avere un effetto negativo sull'occupazione.
L’impresa, infatti, si troverebbe costretta ad assumere un lavoratore con l'obbligo di pagarlo con una retribuzione minima, sicuramente più alta di quella attuale, e con ciò con un aumento dei costi che incentiva la non assunzione di personale; con un salario minimo troppo alto, quindi, potrebbero ad esempio diminuire le ore lavorate per lavoratore e, di converso potrebbe anche aumentare il ricorso al lavoro irregolare. Di fronte a questo, tuttavia c’è la realtà di tanti lavoratori che non riescono a costruire per loro e per le loro famiglie un avvenire che non sia marginale, con un impatto sulla domanda di beni e servizi che già si fa sentire in termini di scarsità.
Conclusivamente, a ben vedere, là dove il sindacato è presente e vivo la minaccia di azioni sindacali ritorsive è sempre un’arma temuta dal datore di lavoro e capace di reindirizzare la contrattazione in senso favorevole ai lavoratori. Certo - ed è questo dal nostro punto di vista l’aspetto su cui occorre riflettere - c’è da verificare l’effettiva tenuta del movimento sindacale di fronte ad una chiamata alle armi della base, ma questo rientra nel problema generale, cui più sopra si faceva cenno, della temuta perdita di rappresentanza con cui le organizzazioni dei lavoratori dovranno, prima o poi, fare i conti.
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