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La "Resurrezione" di Piero Della Francesca


La "Resurrezione" di Piero Della Francesca

Con la boria che spesso cattura chi ritiene di dire la “sua” sul conto delle opere pittoriche anche le più impegnative, accade a volte - come di fronte a “questa” Resurrezione - di avvertire l’inutilità di un esame tirato sulle sole linee dell’analisi “estetica”. Alla sola prima visione dell’opera, urge, infatti, come per un singulto insopprimibile, dare sfogo ad un sentimento che, se non è di natura religiosa, lo è indubbiamente di natura spirituale.

Dopo il primo sguardo - ricolmo di meraviglia per la singolarità della rappresentazione, che non trova riscontro in tante altre opere di medesimo soggetto – il cennato sentimento si dipana in un’osservazione, non tendenzialmente investigativa, ma pacata e pressoché “confidenziale”. Rivedi, allora, il tuo Signore, solenne e ieratico, nella gloria della sua redenzione, della vittoria, solo a Lui possibile, sulla morte. E forse, in questo momento, intendi come la tante volte annunciata “salvezza” ti appartiene, parte più preziosa della Sua eredità, nel senso che essa salvezza scopre una possibilità di vittoria, di certo non sulla morte, ma sul peccato: il che rende ognuno protagonista di una propria personale “resurrezione”.

Alla spontanea “confidenzialità” così straordinariamente stabilita, succede, come un naturale bisogno, di intrattenersi a “colloquiare” - si fa per dire - con la rappresentazione del sacro evento. Il pensiero corre, e non può essere altrimenti, al suo autore, Piero della Francesca, pittore umanista ma già precocemente “rinascimentale” se non addirittura “moderno”: lo dicono le sue opere e la sua formazione, vicinissima agli studi della matematica e in special modo della geometria, fattesi sostanze nella “prospettiva in pittura”, tanto da veder scritto a questo proposito, alla stregua di un Leonardo ante litteram: « (La prospettiva) non è se no dimostrationi de superficie et de corpi degradati o accresciuti secondo che le cose vere vedute da l’occhio sotto diversi angoli s’apresentano».

A questa visione globale di corpi “rimpiccioliti” o “ingranditi” non sfuggono neppure le figure umane, esse stesse comprese nella perfetta armonia che può tradursi nei suoi elementi più sintomatici di forma, luce e colore. È quanto, a un dipresso, con le loro opere avrebbero ancor più spiccatamente dimostrato Leonardo, Michelangelo e Raffaello.

Dopo il “gaudio” della Natività, umanamente e divinamente decantata dal sommo Giotto, è questo dipinto pierfrancescano, ad ammantare di “gloria” la Resurrezione di Cristo dopo la dolorosissima Via Crucis e dopo la “tre giorni” della sua assenza (inspiegabile per un dio qualsiasi ma non per un Dio da sempre votato a vivere “compiutamente” la propria vicenda da “vero uomo”). Trattasi, e qui il “godimento” interiore a fronte della bellezza pittorica cede il passo all’emozione sentimentale dianzi additata, d’una gloria, che alla maestà della sacra figura redenta unisce l’apparente, impersonale, imperscrutabilità dello sguardo del Risorto.

Ma tutto, forse, per mano dell’artista biturgense, si spiega. Cristo è raffigurato non più nelle benevoli vesti del dio-fratello tra gli uomini, ma nella riacquisita solennità di Dio, “Padre” quanto si vuole, ma anche “Giudice”, il giusto dei giusti. Il suo sguardo, allora, pare smarrirsi nel vuoto, una distanza che si frappone fra Sé e l’umanità.

Una umanità che, in ogni caso - quivi rappresentata dai soldati dormienti - appare tuttavia a Lui “collegata” dall’asta del vessillo crociato. E in che altrimenti potevasi disegnare tale “solennità” se non nei soli mezzi concessi agli artisti col ricorso ai modelli della bellezza classica - così cara agli umanisti – rinvenibile nei corpi degli atleti, possenti, perfetti, bellissimi, della scultura greca? Trattasi, senza dubbio alcuno, del Corpo salvifico celebrato nell’eucarestia e nel dipinto fatto ed acclamato a perenne memento di salvezza per l’umanità credente.

Tale solennità, d’altronde, la si percepisce, oltre che dalla composta, maestosa postura del Redento, dal manto rosso indice di autorità e dall’insieme della raffigurazione.

Qui il genio di Piero ha sforato il tetto di cristallo: la solennità non è resa nel Cristo “levitante” verso l’alto come nella giovanile Resurrezione di Raffaello o come in quella di Tiziano, o, addirittura, negli angeli che sostengono il Cristo nel suo librarsi nell’opera di Tintoretto; per non dire nella visione barocca della Resurrezione di Samuel Van Hoogstraten (1668) ove la bellezza degli angeli sovrasta di gran lunga il tripudio dell’ascesa divina. Nel dipinto murale di Piero non si vedono angeli di sorta, non si vedono soldati atterriti dall’evento, né, tanto meno, cieli tempestosi e plumbei come - ancora - in Tiziano. La luce e il colore, a mo’ di sorprendenti alleati d’un comando divino, allontanano qualsiasi cupezza d’ordine fisico e morale: riluce solamente la sacra, nuda, evidente essenzialità del fatto ultramiracoloso, nello stesso tempo semplice e potente, di un’unica, vera Resurrezione.

Torna lo sguardo di Cristo, le palpebre appena calate: questa volta pare rivolto all’osservatore, all’osservatore del dipinto per l’esattezza.

Questi, uomo tra uomini, di quello sguardo percepisce l’estrema non alienata umanità, la pace non sottaciuta calata nell’accondiscendenza, questa sì, d’una divina armonia. Il tutto suggella, non più eucaristicamente a parole, la Nuova Alleanza quale perenne vindice del peccato e di ogni nefandezza perpetrata in ogni luogo e in ogni tempo. Viene qui da pensare che il Cristo dell’artista toscano lanci un suo ultimo, ennesimo messaggio, fatto, in fondo, di bellezza e verità: la bellezza che si coglie nell’amore fraterno e la verità suffragata dalla terrena testimonianza di Gesù.

Nell’atto del risorgere Cristo poggia il suo piede sul sarcofago del passato senza Dio, del tempo sottomesso alla paura di dei distratti e vendicativi, della disperazione e del dubbio senza spiragli di luce, del buio sul cammino e sulla destinazione ultima.

Vi sono, tuttavia, nel dipinto parietale altri personaggi a cui par d’uopo riservare debita attenzione: i soldati di guardia, che guardia non fanno perché sorpresi e presi dal sonno. Sono, però, colà disposti verosimilmente a rappresentanti dell’umanità. Cristo - a parere dell’artista - abbandona un’umanità dormiente e più non le si rivolge?

Chi può dirlo? Ma non certo nell’intento divino. Le quattro sentinelle testimoniano, come da avviso più accreditato, la segretezza in cui si svolge il risorgere di Cristo. Nessun occhio umano “vede” o “deve vedere” la Resurrezione. Il dato è lasciato alla fede, unico vincolo salvifico per l’uomo e per l’umanità.

Ma la “cura” di Cristo - neanche a dirlo - non si palesa nell’unica “direzione” verso le creature più amate. Essa, oltremodo sovrastando ogni sentimento e ogni giudizio umano, comprende tutto il creato, l’eden senza confini di cui l’uomo, forse inconsapevolmente, coltiva solo un’infima parte, a volte con spregiudicata e nefanda noncuranza degli equilibri naturali.

Ce lo confida, a finire, Piero della Francesca. Egli - c’è da pensare e da credere - tutto compreso nel suo singolare e meraviglioso racconto, lo narra nella pittura di un cielo che più sereno non è dato vedere, un cielo unico e muto testimone dell’evento divino e, chissà, non indifferente né al trascorrere delle stagioni - come è dato scorgere nelle dipinte mutazioni paesaggistiche - né alle medesime vicende umane.


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