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Luigi Musacchio

Le sfere misteriose di pomodoro


La Sfera di Arnaldo Pomodoro

Succede, in genere, a chiunque voglia carpire, se non quello recondito, almeno il significato più o meno immediato delle opere spesso enigmatiche dell’arte contemporanea, che si è presi come da una sensazione di inadeguatezza se non di smarrimento. In tal frangente, per fortuna, viene in soccorso Arnaldo Pomodoro, che, visto l’imbarazzo dell’osservatore di fronte alle sue sculture, si premura di fornirgli la seguente “chiave di lettura”: «La scultura, quando trasforma il luogo in cui è posta, ha veramente una valenza testimoniale del proprio tempo, riesce a improntare di sé un contesto, per arricchirlo di ulteriori stratificazioni di memoria».

Dal che, forse, si comprende subito l’”alone” d’intellettualismo che circonda la produzione di Pomodoro: le sue “Sfere”, i suoi “Coni” e le sue “Piramidi” – per entrare subito nel cuore dell’argomento – se lasciati lì, nella piazza, nel cortile, o nella sala del museo o se “visti” semplicemente come segni atti a decorare o arredare interni ed esterni, esaurirebbero la loro carica estetica a mere e insulse presenze di prestidigitazione scultorea.

Pomodoro, a questo proposito, più in linea con Moore che con Rodin ma in sintonia con Brancusi, torna in scena con tutta la potenza della sua personalità per ribadire e gridare la “cifra” della sua poetica: ogni suo apporto deve, dunque, essere una “valenza testimoniale del proprio tempo”, specchio personale ed epocale dell’eternità del presente pur vissuto nella sua subitanea fuggevolezza nel passato.

Non solo, perché c’è di più: l’opera, oltre che a “intrigare” e “interrogare” l’osservatore, deve, in qualche modo, entrare “in dialogo” anche col contesto (piazza, parco, giardino, cortile, sala) in cui è allestita, per assimilarsi con la natura (naturale o urbana) che la circonda.

L’”azione” dello scultore, ovvero il suo “fare”, acquisisce in tal maniera un significato demiurgico: imprimere nella materia, quale che sia, non solo l’impronta della propria genialità, quanto, soprattutto, l’”essenzialità significativa” del suo “esistere” quale oggetto estetico, capace di “sussurare” nel tempo messaggi il più possibile condivisibili di memoria e, soprattutto, di dignitosa e superiore bellezza.

Non è un affare dappoco riuscire in cotale impresa. Pomodoro, in un’intervista, lo afferma con chiarezza: «So dire solo che la scultura moderna nasce non soltanto dallo scultore, ma dallo scultore che collabori strettamente con architetti e con urbanisti». Ecco, allora, spiegato l’arcano. Lo scultore non basta. O, perlomeno, uno scultore che non abbia la visione unitaria del contesto costruttivo scultoreo-architettonico-urbanistico è destinato a fallire o, di certo, a non riuscire a realizzare il manufatto in linea con il suo “esistere come valenza del proprio tempo” e “come capacità di improntare di sé un contesto”.

A questo proposito è fulgida testimonianza il “caso” del progetto del nuovo cimitero di Urbino (1979), elaborato insieme a un gruppo di architetti (Cremonini, Zini, Trevisi, Rossi), che, nel rispetto delle due citate “valenze”, Pomodoro aveva ideato, in termini di assoluta novità, come un cimitero “sepolto”. Nulla che potesse sembrare temerario o offensivo della quiete dei morti e della buona pace dei vivi.

Al “mormorio segreto” delle sue Stele, delle sue grandi Sfere e delle sue Colonne avrebbe voluto aggiungere la “rimembranza” intima e altrettanto segreta, più colloquio che dialogo, con i propri cari estinti in un ambiente scevro da decorazioni e arredi commemorativi e distraenti, tipici dei camposanti “tradizionali”.

Due profonde strade, in croce, scavate al sommo d’una collina a ciò predestinata, avrebbero dovuto contenere i loculi, uguali per tutti.

Sopra le tombe, e sotto il cielo, la collina avrebbe continuato a nutrire la sua erba. Un cimitero troppo nuovo per gli urbinati, si scoprì anzi che fosse addirittura “ateo” e che, per di più, non consentisse di costruire cappelle familiari di fattezze più o meno corrispondenti alle proprie volontà.

Il progetto naufragò tra il disappunto sincero di Pomodoro che in quel progetto aveva visto la possibilità non solo di innovare un intero comparto architettonico, ma di introdurre nel rapporto vita-morte un diverso sentire, una più avvertita sensibilità più vicina allo stesso sentimento e alla stessa fede religiosa.

Le vie dell’arte sono per fortuna infinite e il Nostro può ben far parlare, a dispetto del funereo naufragio, le sue più fortunate e bronzee “creature”, note in tutto il mondo: le grandi Sfere.

In queste sculture si racchiude e condensa tutto la poetica, si vorrebbe dire, “teleologica” di Pomodoro: il “fine” della sua arte è ancorato ad un pensiero filosofico, soprattutto impregnato di mitologia classica, di cultura e sensibilità moderna.

Le sue “Sfere misteriose”, come le declina lo stesso autore, non sintetizzano solo un oggetto unico nella sua forma, ma si aprono, un po’ alla maniera socratica, ad un nugolo di “domande” provenienti da chi le osserva. La geometria euclidea, così sontuosamente celebrata dal suo componente solido forse più rappresentativo, subisce tuttavia, per mano dello scultore, delle cesure, che appaiono come ferite, inferte al corpo solido e finemente levigato della sua superficie.

Tale superfiche possiede tra l’altro la capacità di riflettere, nella sua convessità, il mondo tutt’intorno.

È un riflesso deformante, si capisce, e ciò altera quelle che possono apparire le visioni più scontate: un mondo riflesso che non è più il mondo reale.

Il dualismo non potrebbe essere più evidente e più sconcertante, tanto da apparire quasi come l’apologia del pensiero umano, che si congettura e si struttura sulle linee diritte del ragionamento sillogistico e decade subito, però, nelle congetture sinuose del ragionamento probabilistico.

Le Sfere, nella multiforme produzione di Arnaldo Pomodoro (rilievi in argento, Tavole, Colonne, Cubi, Obelischi, Labirinti), non durano fatica a distinguersi, tentando, come subito fanno, un coro greco-romano a più voci, capace di assecondare pulsioni anche nelle tante sensibilità del mondo contemporaneo.

La Sfera, dunque, può richiamare il mito di Atlante, il titano gravato dalla sfera celeste, può essere evocata e compresa nel complesso del Pantheon: è la forma, perfettamente circolare, insieme magica e spettacolare, che trova ospitalità nel moto creativo dell’architettura e, da ultimo, nell’arte scultorea.

E’ sorprendente verificare come in Pomodoro, da questo punto di vista, si possa legittimare la sua propensione all’arcaismo allorché si volesse “decifrare” o “leggere” il contenuto delle Sfere che appare dalle loro fenditure: il primo richiamo è alla composizione meccanica, ancora una volta euclidea, di cortei circolari di micro cuspidi geometrici; ma non basta perché la tenacia di un osservatore pensante si spinge fino a intuire, nella “successione di quelle note” l’estro di una composizione musicale; ovvero, in quella ordinata successione di ingranaggi meccanici l’alea di una macchina robotica.

E’ questa “problematica”, che può apparire anche stucchevole e viziata da non-sense, che attrae la curiosità e l’interesse dell’osservatore.

V’ha, tuttavia, un altro aspetto, non secondario, celato nell’ontologia della Sfera: il suo rapporto tra “forma” e “spazio esterno”.

Alla prima percezione dell’oggetto-Sfera, non ancora avviluppata dalle successive “domande-risposte” circa i suoi significati, la Sfera comprende tutto: nel senso, cioè, che tu per primo – osservatore – sei inglobato nel suo essere, e lo stesso spazio esterno si annichilisce con te.

È il momento topico dell’emozione estetica, l’attrattiva trascendentale che accompagna la visione della pura arte. Ed è anche l’attimo in cui, preciso nella sua trasparente verità, intuisci il significato forse più vero di questo manufatto. Esso, a conti fatti, può ben e finalmente rappresentare la “tensione” dell’uomo verso una “perfezione” (soprattutto “morale”?), quando nuclei, anzi, agglomerati di problemi insoluti tormentano il suo mondo interiore, fino a minacciare la presenza stessa del suo esistere, con le tante “lacerazioni” che minacciano la “sfera” del suo mondo ideale.

La musica. Ebbene, questo elemento svolge un ruolo di supporto essenziale nella filmografia di Kentridge.

In Miniera (1991), nel parossismo del potere capitalistico del protagonista, la musica sale in un crescendo festoso. Un’altra esplosione musicale avviene con l’installazione de Il Rifiuto del tempo, esposta al MAXXI in prima italiana (2012). Kevin Volans scrive la colonna sonora di Zeno Writing (2002).

Il film prende spunto dal romanzo La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Lo scenario è quello della Prima Guerra Mondiale, trasferito però a Johannesburg, ed è un’allegoria del malessere della condizione umana.

È tuttavia nel teatro che Kentridge raggiunge il climax della sua testimonianza artistica: sulla scia dell’avanguardia russa più avanzata, il teorico Erwin Piscator chiude il sipario sul teatro tradizionale e ne apre un altro: la messa in scena non è più quella, immobile e prevedibile della recitazione degli attori in contesti scenografici più o meno plausibili; ne viene ridisegnata l’intera identità teatrale.

Fa la sua apparizione, all’interno di questa nuova visione, lo stesso medium cinematografico, croce e delizia di Kentridge. Da questo momento, il teatro moderno racconta una storia nuova. Non basta. Sulla sua scena, da veri protagonisti, appaiono installazioni mai viste, rappresentazioni di macchine teatrali verosimili e inverosimili, fisse e semoventi.

Il nuovo campo visuale, grazie al sorprendente sposalizio film-scena, aprendo a “sequenze in movimento”, rompe la geometria statica dei pregressi fondali. Il tutto si appalesa come un campo fertile per le sperimentazioni e le applicazioni della filmografia di “animazione” di Kentridge. In questa nuova situazione teatrale, Kentridge, grazie anche alla presenza e agli insegnamenti del grande regista Ejzenštejn, riconcepisce e corrobora di maggiore intensità i suoi disegni destinati all’animazione, sulla base di un montaggio rivisitato e di una composizione formale alquanto più suggestiva di immagini, che, a detta di Vincenzo Trione, «compongono palinsesti in divenire di figure o fantasmatici cortei di ombre (…) che frammentano e smembrano ogni coerenza narrativa, in modo da costringere l’occhio dello spettatore a saltare, a danzare, a inciampare».

Se ne avrà una prova con l’allestimento dell’opera lirica The nose (2010) da Gogol, una satira grottesca e spietata della burocrazia sovietica.

Accanto alle suddette “decostruzioni” teatrali provocate da Piscator e accolte a piene mani da Kentridge, divenuto ormai egli stesso regista, qui si aggiungono, ben oltre Schönberg, le decostruzioni musicali di Šostakovic: ritmi sincopati, ripetuti sulle diverse altezze tonali, con caduta delle frasi armoniche, fanno il paio con le immagini-ombra di Kentridge, a cui paiono conferire vitalità ed espressività. Il contesto iconico-musicale, tradotto in un unicum espressivo nella nuova forma ormai matura del fantasy – che non rinuncia a risonanze vuoi surreali vuoi sarcastiche – accentua in tal maniera la percezione visivo-uditiva, perpetuandosi più tangibile nell’immaginazione e nella memoria dello spettatore.

Solo un piccolo passo indietro. Come non ricordare la l’ardita presentazione del 1916, sul Lungotevere di Roma, dell’opera monumentale Triumph and Laments, con musiche di Philip Miller e Thuthuka Sibisi, con più di quaranta esecutori d’orchestra e vocalist: una rappresentazione fantasmagorica della storia di Roma, attraversata in lungo e in largo da fulminanti citazioni del tempo presente (immagine di Garibaldi, morte di Pasolini, di Aldo Moro, bacio di Mastroianni ad Anita Ekberg).

Questo fregio, tuttora appena ravvisabile sulla banchina del Tevere, per la lunghezza di 500 metri tra Ponte Sisto e Ponte Mazzini, frutto di una elaborazione durata tre anni, è già praticamente sparita per l’incalzare del tempo e dell’inquinamento atmosferico.

Nessuna sorpresa a questo proposito. L’opera era stata ideata con un tale destino sin dal suo concepimento: opera monumentale sì, ma, insieme, anche effimera, per una città (la “Città eterna”), che, bastando essa stessa, non gradisce e non sopporta rappresentazioni di lunga durata.



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