Un tema dimenticato che torna di attualità. La lezione di Paul Kirchhoff.
Secondo il “Financial Times” l’Italia è il Paese peggio governato d’Europa. La spiegazione è semplice. Da molto tempo non c’è più uno Stato in grado di provvedere all’ordinato sviluppo della nostra società e a regolamentare i conflitti. Lo Stato è il solo garante della libertà.
Occupato com’è dai partiti che lo hanno devitalizzato, non soltanto non può adempiere alla sua funzione principale, ma neppure porsi come autorità dirimente e prescrittiva. In tempi di forsennato antistatalismo, si è ritenuto che altri organismi potessero tutelare beni tanto preziosi: sono venuti fuori neo-feudalesimi in guerra permanente tra di loro che hanno aggravato la situazione. E quello che era il presidio riconosciuto della socialità, tutore della sovranità degli organismi comunitari e della inviolabilità dei diritti della persona, è stato demolito con le ruspe dell’ideologia e del malaffare.
Certo, può anche accadere, come la storia c’insegna, che lo Stato, in una particolare fase storica della vita delle nazioni, esorbiti dai suoi compiti e si trasformi in una sorta di Leviatano onnipotente, assoluto, crudele. Ma questo non è più lo Stato al quale facciamo riferimento, manifestatosi nella forma della polis greca e della res publica romana. Ne è una tragica caricatura. Lo Stato senza popolo non esiste; la nazione senza Stato è un’arena dominata dal disordine permanente. E la libertà del popolo e della nazione non c’è altro soggetto che possa garantirla se non lo Stato.
Infatti, esso, come giustamente osserva il politologo tedesco Paul Kirchhoff nel suo libro di qualche anno fa Lo Stato: garante o nemico della libertà? , limita la tendenza autodistruttiva insita nelle società che nascono, invariabilmente, non da un ordine precostituito, ma da una guerra civile o, nella migliore delle ipotesi, da gruppi anarchici che si nutrono di diffidenza e fonda un accordo pacifico tra i cittadini. Che l’accordo sia di natura contrattuale non modifica la sostanza “spirituale” dello stesso: garantire la libertà, l’incolumità, la coesione degli associati, possibilmente in relazione ad una cultura condivisa, ad un sentimento comune di appartenenza, anche non originario, ma che si affina con il passare del tempo.
Contestualmente gli organi dello Stato vengono limitati nel loro potere dalla stessa libertà, e non sembri un paradosso, poiché essa è il principio dell’ordine naturale che si coniuga con il principio dell’ordine civile: l’autorità. L’una e l’altra sono i pilastri dello Stato costituzionale fondato sui diritti umani e sul riconoscimento dei diritti dei popoli, vale a dire le sovranità “altre”. Perciò, scrive lo studioso tedesco, lo Stato “si assume il compito di procurare, per quanto possibile, il minimo indispensabile per vivere, di garantire il diritto alla salute, una tutela in caso di disoccupazione, l’assistenza agli anziani, un’istruzione di base. Lo Stato di diritto civile diventa, così, Stato sociale”.
Negare questo compito allo Stato moderno equivale ad affossare la convivenza tra i popoli e le relazioni tra le nazioni. Ciò non vuol dire che lo Stato non possa o non debba pretendere il monopolio della forza. Al contrario, è il solo legittimato ad usarla, secondo le leggi e nei limiti che i governati gli attribuiscono e, dunque, in modo tutt’altro che arbitrario. La lezione di Carl Schmitt, al riguardo, è ancora attualissima.
Lo Stato, nel corso della sua evoluzione, si è limitato anche nell’espandere la sua forza interna nei confronti dei cittadini e la volontà che esprime è quasi sempre (o dovrebbe essere) condivisa dagli stessi.
Per esempio non risponde più agli interrogativi esistenziali che spetta risolvere alle varie forme di culto; non s’insinua nella vita privata dei singoli la cui regolamentazione è di esclusivo appannaggio della famiglia a meno che non abbia un impatto sociale evidente; dovrebbe il più possibile tenersi fuori dalle vicende economiche private.
Lo Stato necessario, dunque, non può subire la delegittimazione che sta subendo negli ultimi anni. E mai come oggi avrebbe bisogno di essere difeso strenuamente, mentre è innegabile che esso sia irrimediabilmente in discussione, non per migliorarlo, ma per limitarne la portata fino ad affossarlo.
La retorica che ha imbolsito il dibattito sulla sua essenza e sulla opportunità del suo ritiro dalla sfera economica, nella quale la presenza dello Stato era da considerarsi addirittura nociva (ma non nei settori strategici), ha purtroppo finito per dilatarsi nella sua stessa negazione quale unica forma giuridico-politica in grado di incarnare i valori della cosa pubblica e, dunque, della comunità nazionale.
Anzi, in molti casi lo Stato viene considerato come un “nemico” da abbattere, come un’entità malvagia cui opporre, per esempio, il diritto delle autonomie ad ergersi contro di esse quali controparti, come se dette autonomie non fossero elementi essenziali dello Stato stesso.
Taluni invocano il principio di sussidiarietà in contrapposizione allo Stato, non comprendendo che esso si integra, se correttamente inteso, in un universo politico incentrato sul riconoscimento della res publica all’interno della quale vivono ed operano i corpi intermedi come cellule dello Stato dei cittadini e non dello Stato Leviatano.
La sussidiarietà non può essere vista o sentita, neppure propagandisticamente, come “alternativa” allo Stato, ma tuttalpiù come superamento delle degenerazioni dello statalismo prodotte dalla pratica partitocratica.
Dalla Rerum novarum alla Quadragesimo anno, dalla Pacem in terris alla Centesimus annus non c’è stata enciclica papale che non abbia fornito una definizione della sussidiarietà in rapporto alle strutture statali, riconoscendo, con tutta evidenza, le strutture pubbliche, e dunque statali, in stretta connessione con quelle private in un armonico rapporto non soltanto economicistico o mercantilistico, come si tenta oggi di far credere. Proprio la Centesimus annus di Giovanni Paolo II (maggio 1991) è l’esplicitazione di questa concezione.
Dopo aver rilevato che lo Stato, per sua natura, “non potrebbe assicurare direttamente il diritto al lavoro di tutti i cittadini senza irreggimentare l’intera vita economica e mortificare la libera iniziativa dei singoli, il Pontefice aggiungeva che ciò non vuol dire che lo Stato “non abbia alcuna competenza in questo ambito, come hanno affermato i sostenitori di un’assenza di regole nella sfera economica.
Lo Stato, anzi, ha il dovere di assecondare l’attività delle imprese, creando condizioni che assicurino occasioni di lavoro, stimolandola ove essa risulti insufficiente o sostenendola nei momenti di crisi”.
Ancora, secondo Giovanni Paolo II, lo Stato “ha il diritto di intervenire quando situazioni particolari di monopolio creino ostacoli per lo sviluppo”, come, ad esempio, nello Stato assistenziale di ispirazione socialdemocratica: “una società di ordine superiore – sosteneva il Papa – non deve interferire nella vita interna di una società inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità e di aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali in vista del bene comune”.
Il principio di sussidiarietà ha attraversato la cultura politica del secolo scorso senza contrapporsi allo Stato.
Persino nella Carta del Lavoro, documento non certo espressione di un regime democratico, viene riconosciuto che “l’intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata o quando siano in gioco interessi politici dello Stato”, soltanto in questa occasione l’intervento “può assumere la forma del controllo, dell’incoraggiamento e della gestione diretta”.
Dunque, contrapporre allo Stato il sistema delle autonomie e o la sussidiarietà è un altro modo per alimentare la sfiducia nella sua necessità e riguardarlo con diffidenza se non con inimicizia.
Ma se lo Stato è divenuto, nella seconda metà del Novecento in Italia soprattutto, terreno per scorribande di lanzichenecchi assetati di potere e per nulla dediti alla ricerca del “bene comune”, non è un buon motivo per metterne in discussione l’essenza che risiede nel riconoscimento di dover anteporre nella gestione della cosa pubblica la salvaguardia dell’interesse generale a quello personale o di fazione.
Ma anche, come scrive Kirchhoff, lo Stato ha anche il gravoso compito, che non può in alcun modo essere disconosciuto, di esercitare il suo potere responsabilmente “riguardo la libertà in un contesto di incontro sempre più ravvicinato tra culture diverse, dovendo contemporaneamente fronteggiare gli sviluppi anti-istituzionali dell’opinione pubblica, e le prognosi che teorizzano il suo declino o addirittura la già avvenuta – sebbene non ancora diffusamente riconosciuta – morte”. Se lo Stato ci fosse, probabilmente si riuscirebbe ad intravedere una prospettiva di ricomposizione tra interessi privati e spirito pubblico; a determinare la classe dirigente a favorire un autentico percorso di pacificazione sociale; a rimuovere gli ostacoli che impediscono l’ammodernamento delle istituzioni e le strutture civili del Paese.
Per fare tutto questo lo Stato va ripensato e riconquistato. Ispirandosi ad un’etica repubblicana fondata sulla responsabilità e sul richiamato sentimento del “bene comune”. Istituzioni non soltanto efficienti, ma “moralmente coerenti con le esigenze dei tempi, dovrebbero essere modellate da riformatori consapevoli secondo un disegno nel quale i diritti di libertà si coniughino con il dovere dell’autorità di regolamentarli e difenderli: il contrario, cioè, di quanto accade ai nostri giorni.
Il Tempo, vogliamo sperare, farà giustizia delle convulsioni che dominano la nostra quotidianità e saprà restituirci lo Stato garante di libertà e non suo nemico.
A conclusione del suo saggio che tocca, tra l’altro, le questioni della sovranità e la garanzia del futuro affidato ad una sana politica di intervento per la famiglia, Kirchhoff scrive: “Il complesso delle norme giuridiche è paragonabile ad un albero, la cui vita è radicata nell’invisibile humus dei valori e della cultura che lo Stato ha fatto crescere, e che poi diviene visibile in un tronco irremovibile – quello della determinazione delle basi legali dello Stato.
Da questo tronco si dipartono i rami dei regolamenti particolari del diritto privato, penale, del regolamento di polizia, del diritto tributario o sociale, a cui di volta in volta si fa riferimento come a rami autonomi, che a volte si muovono al vento, e sotto gli strali delle intemperie a cui sono esposti, che però mai si potranno divincolare dal tronco, ed in ultimo producono foglie, le quali – come il gettito tributario annuale e l’entità delle prestazioni finanziarie statali – decadono in autunno, ma poi in primavera rifioriscono di nuova linfa in maniera tale da formare un quadro complessivo dell’albero pressoché identico a quello di prima.
Lo Stato rimane garante, e non diventa nemico della libertà, fino a quando custodisce e rende effettivo e manifesto questo legame di significati all’interno dell’ordinamento giuridico complessivo”.
Osservando ciò che accade in Italia c’è da essere piuttosto preoccupati. Lo Stato può davvero dirsi garante della libertà quando nel suo seno si sviluppano conflitti tra poteri che ne mettono in discussione la stessa esistenza? In assoluto, come ho scritto all’inizio, il compito dello Stato è favorire la libertà in accordo con l’affermazione del principio di autorità. Ma questo è il compito che ci attende, poiché le strutture statali sono in disarmo e le classi dirigenti frastornate.
Dello Stato non si può fare a meno: la lunga demonizzazione dalla quale è stato investito ci ha ridotto come popolo a navigare a vista. Schivare gli ostacoli diventa sempre più difficile.
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