top of page

Neo-colonialismo e decadenza politica minacciano l'Europa


In una intervista al supplemento “La Lettura” del “Corriere della sera”, tre anni fa (1 agosto 2021) lo scrittore spagnolo Arturo Pérez-Reverte, - autore del magnifico romanzo Italiano - in una lunga disamina geopolitica accusò l’Europa di non sapere reagire alla propria decadenza con parole che sono veritiere ed allarmanti.

Gli “altri”, sostenne, vale a dire i popoli emergenti un tempo marginali che si stanno preparando all’assalto al Vecchio Continente, “vinceranno e se lo meritano”. Per un semplice motivo: “Perché hanno fame, sono disperati, hanno coraggio e voglia e forza. Sono vivi. Mentre l’Europa è vecchia, decadente, codarda. Ci vorrà ancora un secolo, forse. Ma come avvenne per l’Impero romano, l’Europa sarà un cadavere squartato dai nuovi barbari cinesi e africani. È il ciclo della storia.”

Questo secondo Pérez-Reverte.

E l’Europa mentre cancella la sua cultura, la sua ispirazione vitale, non s’avvede che il neocolonialismo, cinese soprattutto, e più in generale asiatico, la sta divorando attraverso un’operazione che si insinua attraverso la tecnologia, l’industria, l’aggressività economica, gli investimenti finanziari spregiudicati, il ricatto con il possesso delle materie prime.

Perfino i social network penalizzano l’individualità, il dissidente che non è d’accordo con la tendenza generale è emarginato.

Cinquant’anni fa era un eroe, oggi è un appestato”. Così l’intellettuale spagnolo, impietosamente descrive la dissoluzione dell’’Europa che ormai poco conta sullo scenario internazionale, come dimostrano le tragiche vicende afghane, e niente nella battaglia culturale che si sta combattendo fino a mettere se stessa in discussione, la sua identità, le sue radici.

Questa Europa sta morendo. Inutile girarci intorno.

“Gli sciagurati europei hanno preferito giocare ad armagnacchi e borgognoni, anziché farsi carico su tutto il globo della grande funzione che nella società della loro epoca i Romani avevano saputo assumere e sostenere per secoli. In confronto ai nostri, il loro numero e i loro mezzi non erano nulla; ma nelle viscere dei loro polli essi trovavano più idee giuste e coerenti di quante non ne contengano le nostre scienze politiche». Come non ricordare questo tagliente giudizio di Paul Valéry, andando con la memoria alla bocciatura del Trattato di Lisbona (firmato il 13 dicembre 2007) da parte dell’Irlanda un anno dopo e, dunque, del sostanziale fallimento del processo di costituzionalizzazione dell’Unione Europea, i cui principi agnostici ed anti-identitari ne hanno descritto la natura sostanzialmente antieuropea? 

Quasi tutti, allora, fecero finta di niente e istituzioni, classi politiche e burocrati si sono comportati come se nulla fosse accaduto.

C’è della follia in tutto ciò. Infatti, non ci si rende conto che l’Europa non c’è, ma quel che vediamo è soltanto il simulacro di un’unità continentale. Per di più, nazioni come l’Italia si stanno letteralmente disfacendo, mentre dovrebbero essere il traino della di una nuova costituzione europea, possibilmente e realisticamente confederale. Lo spossessamento delle ragioni della nazione, purtroppo, di fatto in egual misura colpisce l’Italia e l’Europa, l’una e l’altra sono sempre più destinate a diventare entità meramente economiche, funzionali a un disegno utilitaristico coerente con le logiche globaliste dominanti e, dunque, prede di egemonie agguerrite come quella cinese, cui accennava Pérez-Reverte, i cui progetti di destabilizzazione dell’Occidente sono palesi.

In questo quadro, la «regionalizzazione» dell’Europa, tendenza più spiccata in Italia, Spagna e in Gran Bretagna, che ha abbandonato l’Unione europea, dove, unità subnazionali omogenee, per dirla con Ralf Dahrendorf, «si uniscono con una formazione sopranazionale retorica e debole», è foriera di conflitti interni agli Stati e di indecisionismo congenito negli stessi per ciò che concerne i rapporti esterni.

Insomma, dalla cessione di sovranità e dallo smembramento dello Stato in nome di un federalismo assolutamente inventato come esigenza storico-politica, non è scaturita quell’Europa Nazione che sola avrebbe potuto dare un senso all’unione dei popoli del Vecchio Continente, liberando gli Stati in una dimensione più grande e rendendo le diverse culture componenti organiche di una identità sulla quale fondare un aggregato geopolitico dalle dimensioni imponenti avente le caratteristiche e la forza di un impero.

Il palcoscenico anti-europeo – ma a suo modo paradossalmente “europeista” – improvvisamente s’è popolato di soggetti che fino a qualche tempo fa servivano Stati che utilizzavano l’Europa soltanto come teatro neutrale per scontri diplomatici, per ricatti politici, per guerricciole sui diritti dell’uomo.

Soggetti che non hanno mai alzato la voce davanti al Muro di Berlino e hanno lasciato che l’odio crescesse e maturasse al di qua della “cortina di ferro”, nei Balcani che sarebbero stati insanguinati dall’intolleranza tribale e ideologica; gli stessi soggetti che non si sono accorti come nel cuore dell’Europa alcuni milioni di albanesi fossero tenuti in schiavitù da una tirannia sanguinaria e che oggi avversano l’idea dell’Europa politica e delle identità culturali. L’Europa abortita, eppure paradossalmente riconosciuta come “viva” negli ambulacri della tecnocrazia e dell’alta finanza, nasconde (e neppure tanto bene) il conflitto latente tra gli Stati dell’Unione, i quali, come tutti i commercianti del mondo, cercano di ricavare il massimo dalla loro posizione a discapito di altri. Se non si acquisisce una chiara idea di nazione, non ci sarà nessuna possibilità per realizzare una reale ed armonica Europa unita.

L’una e l’altra non vanno considerate separatamente, come la storia degli ultimi due secoli insegna. Europa e nazione, diceva Friedrich Meinecke, sono piuttosto apparse come «una bipolarità inscindibile di interessi spaziali». Infatti, sono stati i vari e diversi popoli europei, soprattutto quando hanno assunto caratteristiche specificità nazionali, che hanno fatto l’Europa come identità rendendola, secondo l’espressione di Jean-Jacques Rousseau, una «società reale» dotata di un sentire comune grazie al retaggio religioso, tradizionale, storico, culturale.

Ma è altresì l’Europa, osservò con molta lucidità circa cinquant’anni fa Carlo Curcio, «terra di nazioni» e cioè che «senza quel corso di eventi e quel moto di idee, che hanno creato la moderna Europa, non vi sarebbero state le nazioni europee; ma dovrebbe essere facile ammettere che senza le sue nazioni l’Europa non avrebbe avuto né vita, né senso; quella vita e quel senso, di cui già da secoli, lentamente, ma sempre più chiaramente, ci si è accorti, sia pure con una evidente visuale nazionale».

Da qui alla considerazione che l’idea dell’Europa è fondamentalmente un’idea politica, il passo è breve.

Al di fuori questa visione c’è soltanto l’Europa della moneta e del mercato: una non-idea dell’Europa, o meglio, un’idea priva di storia e  l’Europa che ne scaturisce è l’Europa dei mercanti e dei banchieri, degli interessi particolari e dei bisogni fittizi, degli egoismi e dei consumi. Non è neppure lontanamente l’Europa dei popoli e delle nazioni. Men che meno è l’Europa della cultura, delle identità, delle tradizioni. È soltanto l’Europa di Maastricht, appunto; non l’Europa di Atene, di Roma, di Vienna, di Lepanto, di Berlino. È l’Europa degli istituti di credito, non è l’Europa dell’Alcazar, di Versailles, di Place de la Concorde, di piazza San Venceslao.

Il nazionalismo europeo, dunque, non è un’anticaglia storica che si sposa con la l’idea della sovranità continentale indispensabile per salvaguardare il “nostro mondo” e renderlo perfino competitivo con il globalismo sostenuto da nazionalisti ben più agguerriti che delle nazioni vorrebbero sbarazzarsi o tenerle soggetti ai loro disegni imperialistici.

Da questo punto di vista, il 7 ottobre 2017, nell’anniversario della battaglia di Lepanto quando l’Europa cristiana fermò l’avanzata islamica, alcuni tra i più importanti intellettuali europei, capeggiati dal compianto  filosofo conservatore britannico Roger Scruton, e tra essi l’ex ministro polacco dell’Istruzione Ryszard Legutko, l’intellettuale  tedesco Robert Spaemann, hanno firmato la  “Dichiarazione di Parigi”,  dove  un gruppo di studiosi e intellettuali conservatori si incontrò nel  maggio dello stesso anno in un convegno sulla decadenza dell’Europa con l’intento di  rilanciare l’idea di unità continentale, della sua identità messa a dura prova dal processo di secolarizzazione e dalla radicalizzazione del relativismo etico. Il risultato di quell’incontro fu l’elaborazione del documento che pochi mesi dopo venne reso pubblico con il titolo Un’Europa in cui possiamo credere nel quel si riaffermano i valori fondanti della civiltà europea e, dunque, si ribadisce la sua sovranità intangibile. Il documento si apre con questo “preambolo”: “L’Europa ci appartiene e noi apparteniamo all’Europa. Queste terre sono la nostra casa; non ne abbiamo altra. Le ragioni per cui l’Europa ci è cara superano la nostra capacità di spiegare o di giustificare la nostra lealtà verso di essa. Sono storie, speranze e affetti condivisi. Usanze consolidate, e momenti di pathos e di dolore. Esperienze entusiasmanti di riconciliazione e la promessa di un futuro condiviso. Scenari ed eventi comuni si caricano di significato speciale: per noi, ma non per altri. La casa è un luogo dove le cose sono familiari e dove veniamo riconosciuti per quanto lontano abbiamo vagato.

Questa è l’Europa vera, la nostra civiltà preziosa e insostituibile”.

Di più e di meglio non si potrebbe dire attendendo con scetticismo che l’Europa rinasca come nazione.



 

122 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page