Fra poche settimane gli italiani andranno al voto. Avremo un nuovo Parlamento e un nuovo governo. Stando ai sondaggi, apparirebbe scontata la vittoria del centrodestra e, nel centrodestra, il primato di Giorgia Meloni.
Basterà il risultato delle elezioni a cancellare con un tratto di penna le tante storture di una campagna elettorale che, oltre ad essere anomala perché tenuta nel periodo estivo e non aver suscitato soverchie emozioni né grandi passioni, ha finito con l’accentuare la crisi dei partiti e, con essa, la crisi della democrazia?
Avremo un Parlamento di “Eletti”, con la maiuscola, nel significato più alto e nobile di tale espressione, che indica quanto di meglio, appunto, possa esprimere la società italiana, cui affidare le sorti della Nazione e la cura del bene comune? Oppure, gli “eletti”, con la e minuscola, saranno, questa volta più che in passato, soltanto degli yes men, deputati e senatori messi lì dai capi-partito e dalle oligarchie ristrette che ormai guidano, come satrapi, le varie formazioni politiche, senza alcuna voce in capitolo, soltanto per alzare la mano ad ogni cenno dei loro Capi?
Una volta c’erano i partiti. Con i loro pregi e i loro difetti, certamente. Ma nei partiti vigevano meccanismi e metodi di selezione della classe dirigente che poggiavano su alcuni principi-base: militanza ed esperienza acquisita sul campo, nei territori, nel confronto costante con i cittadini, in un percorso di crescita ancorato ad esperienze amministrative locali.
Esistevano le scuole di partito. E dove non c’erano le scuole operavano strutture parallele, associazioni culturali e di volontariato, che del futuro candidato forgiavano carattere, competenza, attitudini al governo della cosa pubblica. Non solo.
Nei partiti, in tutti i partiti, esistevano organismi, luoghi di confronto. C’erano i Comitati Centrali e le Direzioni. Ci si arrivava passando per i Congressi.
E nei Congressi nazionali si giungeva passando per i congressi nelle sezioni locali e provinciali. Insomma, saranno stati pure laboriosi e complessi quei meccanismi, ma erano certamente in grado di selezionare, scegliere, promuovere un personale politico preparato e dotato di maggiori qualità. Soprattutto, i Congressi, come i Comitati Centrali e le Direzioni dei partiti, erano il luogo in cui si discuteva di tesi.
Ci si confrontava, appunto. Si discuteva. Si elaboravano progetti e proposte politiche. Si respirava, in quegli ambiti, la Politica nel senso più alto e nobile del termine. Nascevano da quelle discussioni, da quei confronti, a volte aspri e duri, ma mai banali, le linee di indirizzo sia per il governo e sia per chi, invece, era chiamato ad un ruolo di opposizione. Non tutto era perfetto, per carità. Però, almeno, esisteva un metodo. Quando poi arrivavano le elezioni, l’elettore oltre alla croce sul simbolo del partito, poteva esprimere delle preferenze, e scegliere il candidato che riteneva potesse rappresentare meglio le istanze del territorio di appartenenza.
Ora, dei partiti, della politica e della rappresentanza si è fatto strame.
Tutto è andato distrutto.
La personalizzazione delle leadership, prima, la brutale campagna anti casta, poi, accompagnate dalla furiosa ed iconoclasta conversione della politica al linguaggio del Tweet e dei social, ha letteralmente squassato il campo. Se a tutto questo si aggiunge la peculiarità di una legge elettorale come l’attuale Rosatellum che non lascia spazio alcuno all’elettore, chiamato a votare per il solo simbolo e, spesso, costretto a subire lo sberleffo di contribuire all’elezione di personaggi, il più delle volte sconosciuti, catapultati da Trieste a Genova, da Milano a Canicattì, da Padova a Potenza, da Roma a Campobasso, in spregio a chi sui territori si è fatto conoscere e ha lottato per affermarsi; se, come è avvenuto, si formano coalizioni non sulla base di naturali e ferree convergenze di idee e programmi, ma solo per pura convenienza elettorale, ecco allora che lo sconquasso è totale, irreversibile.
Con tutte le conseguenze che non è difficile ipotizzare in termini di qualità e di durata dei governi.
Ovviamente, c’è dell’altro nello scivolamento verso il basso, in questo sgretolarsi progressivo della Politica e della Democrazia. Qualcosa di ancor più profondo e, forse, ancora non pienamente percepito. Ci riferiamo a quel che, a 101 anni suonati, il filosofo Edgar Morin, il teorico della complessità, ha definito “una crisi del pensiero”. In una intervista anticipatrice del suo nuovo libro-manifesto “Svegliamoci!”, ha detto al “Corriere della Sera”: “Non stiamo vivendo soltanto la crisi di una sinistra in rovina, la crisi della democrazia nel mondo intero, la crisi di uno Stato sempre più burocratizzato, la crisi di una società dominata dal denaro, la crisi di un umanesimo sopraffatto da odio e violenza, la crisi di un pianeta devastato dall’onnipotenza del profitto, la crisi sanitaria scatenata dalle epidemie. Stiamo vivendo, soprattutto, una crisi più insidiosa, invisibile e radicale: la crisi del pensiero”. Ecco il punto centrale: la crisi del Pensiero.
Qui non si tratta unicamente di individuare i responsabili di questo declino, per lo più ascrivibile, a nostro avviso, a quelle correnti speculative socialdemocratiche ed iperliberiste che hanno segnato gli anni a cavallo tra la fine del secolo scorso e il primo ventennio del nuovo, contribuendo a rarefare il terreno delle idee alternative. Inutile piangere sul latte versato. Qui si tratta di capire se ci sono ancora le condizioni per invertire la rotta, se c’è qualche spiraglio attraverso cui aprire il varco verso un futuro di superamento proprio di quei fattori di criticità elencati sommariamente dal filosofo francese. E se basti il semplice “ritorno alle fonti” per creare un nuovo pensiero. Intendiamoci le “fonti” sono importanti. Averle dimenticate e, in molti casi, gettate nella spazzatura, ha reciso il cordone che legava alla radici, ha imprigionato nel labirinto del “pensiero unico” e del “politicamente corretto” ogni istanza di diverso conio.
Ha persino annullato ogni residuo briciolo di Utopia che pur dovrebbe accompagnare ogni visione del mondo, della vita, dell’economia, dell’ambiente, della storia. Quel briciolo di Utopia che, in passato, è servita ad infiammare i popoli, a renderli partecipi di un disegno innovatore e artefici di storia e cambiamenti politici. Qui l’Utopia va intesa nel suo significato più genuino, come ideale etico-politico che non esige di essere realizzato sul piano istituzionale, ma avente ugualmente una funzione stimolatrice nei confronti dell’azione politica, semplicemente come ipotesi di lavoro o, per via di contrasto, come efficace critica alle istituzioni vigenti. Alla base di ogni forma di Utopia c’è sempre un afflato culturale, una spinta verso l’alto della speculazione filosofica, un concentrato di studio e di profondità di pensiero illuminante e contagioso.
Ma come si pensa di cambiare il corso della storia, nelle sue varie accezioni e implicazioni, sui molteplici versanti in cui l’umanità opera e incide, se non si riparte dalla formazione, dalla scuola, dall’educazione, da una visione dell’etica e della morale, da una sofferta consapevolezza dei limiti entro i quali l’abbandono del pensiero religioso, da un lato, e della stessa dimensione spirituale, dall’altro, ha condannato la nostra stessa esistenza? Come se non ci fosse nulla oltre la coltre spessa del razionalismo, dell’utilitarismo e del materialismo che tutto soffoca e sommerge. Come si pensa, appunto, di ridare senso, anima e corposità partecipativa alla politica se non si riparte dai fondamenti della cultura, dalla nobile arte di misurarsi sul presente e interrogarsi sul futuro, di accettare la sfida del cambiamento declinando nuovi e più adeguati paradigmi entro cui incardinare opzioni e soluzioni convincenti ai mali che ci attanagliano?
Come venirne fuori se mancano quadri dirigenti capaci di impegnarsi nella faticosa ricerca del consenso, evitando di inseguire gli umori passeggeri della gente, quel raccapricciante e disgustoso vizio di accarezzare il pelo nel suo verso, rinnegando di fatto il ruolo di chi, al contrario, dovrebbe creare opinione e non subire le opinioni altrui.
Sappiamo che così è più semplice, e si fa meno fatica. Ascoltare la voce della gente, sondarne umori e sensibilità, non implica assecondarne, sempre e comunque, le ragioni. Nel complesso governo della cosa pubblica, vale molto più saper dire No che dire sempre Sì. Soppesare le diverse ragioni in gioco per trasformare una idea e una proposta in un progetto vincente e utile per il bene comune contempla il rischio di accontentare qualcuno a scapito di qualcun altro. E’ un concetto basilare per il buon governo. Ma potrà mai comprenderlo chi non riesce a liberarsi dall’assillo della quotidiana conquista dei like per una battuta più o meno riuscita nel frastuono banalizzante che ci sovrasta, diventato il mantra degli attuali leader? Dubitiamo fortemente.
Eppure, per dirla con l’Alighieri “Nati non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.
Virtù e Conoscenza.
Doti, fattori che ci riportano all’inizio del nostro scritto. Valori che dovrebbero illuminare la sfera politica e i suoi protagonisti. Tutte cose che, confessiamolo, fatichiamo a individuare, ovunque si getti lo sguardo nel panorama scadente della politica nostrana. Allora, ci si riduce alla scelta del “meno peggio”. Oppure, si diserta, ci si arrende all’insipienza, ci si chiude nel proprio ego. Disarmati e impotenti. Disorientati e delusi. Il guaio è che, neppure la crescente sfiducia dei cittadini verso i partiti (solo l’1 per cento della popolazione possiede una tessera di partito) e la costante decrescita della partecipazione al voto, (l’astensionismo, nelle ultime elezioni amministrative, ha toccato punte superiori al 50%) smuovono più di tanto lor signori. Anzi, in questo abbandono e rifiuto delle urne, con un sistema elettorale come l’attuale e con la confusione abissale che regna sovrana nelle coalizioni e, al loro interno, nelle formazioni politiche che le compongono, sembrano goderne.
Poco conta che dopo aver snaturato i partiti, lasciando spazio alle oligarchie, si stia snaturando la stessa democrazia.
Non è un caso che nessuno tra le forze in campo avanzi la proposta di applicare, una volta per tutte, l’art. 49 della Costituzione sul riconoscimento giuridico dei partiti, autentico passepartout per organizzarne forma e vita democratica. Della parola democrazia ormai si abusa. Ma, ogni giorno che Dio ci manda, essa viene sempre più negata.
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