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Quella frattura tra politica e cultura


Politica e cultura.

Quello che una volta appariva come un binomio indissolubile è andato in frantumi.

Colpa del cosiddetto “spirito del tempo”? Della crisi dei partiti? Di una certa afasia che sembra essersi impossessata del mondo intellettuale?

Di una diffusa reciproca diffidenza tra politici e intellettuali? Oppure, c’è alla base di tutto l’affermarsi di quella società liquida, indifferente, racchiusa nel “presentismo”, egoistica e autoreferenziale, mobilitata da soggettività rumorose il cui dinamismo appare circoscritto nel web e si sfoga nei social?

Lo storico Giorgio Caravale nel suo recente libro Senza intellettuali prende di petto la questione e offre un terreno di discussione stimolante.

La sua analisi abbraccia gli ultimi trent’anni della storia d’Italia. Un periodo che ha visto velocemente attecchire forme e modalità diverse di fare politica mentre, sul piano culturale, le discipline economiche e scientifiche finivano col prevalere su quelle storiche e filosofiche. Scorrendo le pagine del saggio, va dato atto a Caravale di aver mantenuto l’impegno assunto nella introduzione.

Ossia di non aver offerto al lettore un libro di mera cronaca politica e culturale, una sorta di balzello sui vizi e virtù dei politici e degli intellettuali.

Al di là delle convinzioni che legittimamente ognuno può avere o professare, la sua è una riflessione sulla frattura registratasi tra politica e cultura.

Sulla rottura consumatasi dopo la fine della Prima Repubblica, di quel nesso che è stato il tratto caratteristico della politica italiana del Novecento.

Sulle ragioni che negli ultimi decenni hanno indotto politici e intellettuali a ritenere di poter fare a meno gli uni degli altri. Sulle cause del crescente discredito che ha investito, in modi diversi ma non slegati fra loro, le figure del politico e dell’intellettuale.

“Mi soffermo – scrive Caravale – su una ragione storica in cui l’età dell’incompetenza ha fatto da sfondo a una politica sempre più aliena da un’approfondita elaborazione culturale e a un ceto intellettuale sempre più chiuso in sé stesso, disinteressato alla politica quando non esplicitamente infastidito dalle sue dinamiche”.

In questa sorta di rapporto e di non-rapporto tra politica e intellettuali si è consumata una stagione della nostra storia recente con le conseguenze disastrose che si registrano nella selezione di una classe dirigente sempre meno competente e di un ceto intellettuale spesso vanesio e poco concreto.

Qui non si tratta, però, soltanto di fare le pulci agli uni e agli altri.

Né basta chiedersi se sia possibile superare le reciproche idiosincrasie per ricostruire quel terreno di confronto e di collaborazione che, almeno per alcuni tratti, in passato, è stato foriero di visioni, di idee, di progettualità.

Oltre che di orientamento di senso, di valori, di opinioni.

La frattura, e di frattura si tratta, non si cura con i pannicelli caldi.

Certo, se almeno la politica facesse ammenda dei suoi errori e della soverchia presunzione di usare, come è avvenuto in tutti i partiti, chi più chi meno, gli uomini di cultura come “pezzi” da esibire nel mercato elettorale per imbellettarsi, e se gli intellettuali decidessero di uscire dalla torre d’avorio in cui sono racchiusi, sarebbe già un bel passo in avanti.

L’autocritica è sempre utile ma non sufficiente. Se dovessimo cercare un termine calzante per indicare una via d’uscita, forse il termine più appropriato potrebbe essere: Ri-generazione.

Nel senso di una nuova nascita, della scoperta di inediti paradigmi e modalità cui ancorare il senso di un ritrovarsi e sostenersi senza invasioni di campo. Con una reciproca legittimazione.

Con vicendevole rispetto. Abiurando qualsivoglia forma di invidia e rifuggendo da ipocrite parate pseudoculturali che offendono l’intelligenza e oscurano le menti.

Con “una politica che, alternativamente, disprezza gli intellettuali e consegna loro le chiavi del proprio futuro; un ceto intellettuale che disdegna la politica ma non ha problemi ad usarla e persino a guidarla, se solo balena la possibilità di avere un tornaconto personale, cioè denaro e potere. O quel surrogato del denaro e del potere che è la visibilità”, scrive ancora Giorgio Caravale, siamo alla schizofrenia, al cortocircuito tra società civile e classe dirigente politica. Con il risultato aberrante che gli intellettuali vengono travolti dai segni dirompenti di una contemporaneità spesso volgare e spocchiosa, le cui forme sono scandite dalla pervasività dei media in incessante trasformazione e dalla mutazione che essi hanno con il mondo della politica.

E mentre la cultura fatica ad emergere nel solco dei tradizionali luoghi di elaborazione e legittimazione, dalle università alle case editrici alla carta stampata, si appalesano figure cresciute nel circuito dei network e delle piattaforme digitali che ambiscono a svolgere una funzione intellettuale sulle ali del successo mediatico.

Vale per Zerocalcare, definito da uno storico mensile di sinistra come “l’ultimo intellettuale”, e vale per il rapper Fedez, le cui esternazioni sul disegno di legge Zan e le sue intemerate, imbarazzanti scorribande sui temi di maggior sensibilità sono ormai all’ordine del giorno.

Tutto questo provoca nient’altro che confusione, disordine, disorientamento. Persino delegittimazione della stessa figura dell’intellettuale.

D’altro canto, l’impoverimento della politica, anzi la sua assenza, è il rovescio della medaglia.

Quello della crisi dei partiti è un argomento che abbiamo affrontato più volte su queste colonne. Vale la pena ricordare solo alcune delle cause più evidenti come il tramonto delle ideologie, la perdita di radicamento sociale, la corruzione, l’affermarsi impetuoso di leadership fortemente personalizzate, la scomparsa dei luoghi di formazione e selezione della classe dirigente, la prevalenza di oligarchie ristrette a discapito di reti organizzative e decidenti diffuse nel territorio, l’umiliazione di ogni forma di democrazia interna, sistemi elettorali congegnati più per rendere ininfluente le scelte degli elettori e premiare la fedeltà al capo di turno. Schiacciata da fenomeni globali complessi, difficili da interpretare, alle prese con regole sovranazionali sempre più stringenti, la politica ha perso mordente, ruolo, visione del mondo. Si è appiattita sul presente.

Ha smesso di immaginare e costruire il futuro.

Nell’arsenale confuso dei social e delle nuove dinamiche della comunicazione ha perso la capacità di mantenere un filo conduttore con i processi di cambiamento in atto. Rintanata nella gestione del quotidiano, si è lasciata sopravanzare sul piano della narrazione, della definizione dei valori comuni e della ricerca di identità dall’opinione di tecnici, economisti, giuristi.

Tecnocrazia come surrogato della incompetenza della politica.

E proprio questa rinuncia ad una visione complessiva del mondo, ad una narrazione della storia e dei mutamenti globali, ad una lettura attenta e a tratti suggestiva delle sfide epocali che scuotono stili di vita e comportamenti collettivi, la scarsa attitudine ad analizzare i fenomeni nella loro complessa articolazione preferendo ridurre il tutto a singole questioni: sono tutti elementi che hanno di fatto indebolito la politica, liberandola dalla fatica di approfondire la complessità dei temi da trattare. E’ quella che alcuni opinionisti chiamano “politica Netflix”, ossia una politica on demand, una sorta di piattaforma sulla quale gli utenti-elettori si appassionano agli argomenti che più di altri attirano il loro interesse senza curarsi della portata complessiva dei fatti da esaminare e giudicare, e dei problemi da risolvere.

La fluidità dell’elettorato, la sua volatilità e l’accentuarsi del dato dell’astensionismo hanno un forte legame con questi processi.

Va da sé che, per ridurre la distanza tra politica e intellettuali e restituire alla cultura il ruolo che le compete come arsenale delle idee, bisognerebbe che la politica incentivasse la creazione dei luoghi di formazione, di dibattito, di elaborazione.

Restituisse prestigio alle università, ai giornali, alle riviste, alle fondazioni, alle scuole di politica indipendenti dai partiti, a tutte le articolazioni culturali della società capaci di alimentare dibattiti e confronti.

Da questi luoghi di pensiero e di approfondimento la politica potrebbe trarre nuova linfa e idee utili per avanzare proposte e assumere decisioni.

Nella convergenza di interessi tra una politica alla ricerca di senso, lontana da pregiudizi, e intellettuali alla ricerca di ruolo e di impegno, scevri da subalternità e da compromessi, potremmo forse salutare la maturità di una nuova stagione della cultura e della politica.

Sperare non è vietato.



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