Nelle 21 lezioni per il XXI secolo, lo storico Yuval Noah Harari sostiene che, in un mondo alluvionato da informazioni irrilevanti, “la lucidità è potere”
In teoria, chiunque può partecipare al dibattito sul futuro dell’umanità, ma è molto difficile mantenere una visione chiara. Spesso non ci accorgiamo neppure che un dibattito è in corso, o quali siano le questioni importanti. Pressati da ben altre urgenze, miliardi di persone possono a stento permettersi il lusso di approfondire queste domande.
La storia, però, non fa sconti. E se il futuro dell’umanità viene deciso in nostra assenza, ne subiremo le conseguenze. Sta crescendo il numero dei libri sulla pandemia da Covid-19. E’ come se il virus, nella sua virulenza, stia favorendo un sforzo di intelligenza collettiva. Una chiamata alle armi delle menti per sondarne gli effetti nei campi più disparati anche se, per molti versi, interconnessi.
Si affollano pensieri, sensazioni, speculazioni filosofiche, analisi scientifiche, storiche, economiche. Pensieri positivi e negativi si rincorrono. Spesso si accavallano e si confondono.
Il rischio che si corre è lo stordimento, lo smarrimento, la perdita di orientamento. In un attimo il mondo ci crolla addosso, il mondo con le sue certezze, i suoi paradigmi, con la sua spinta omologante, con i suoi unificanti modelli di vita e le sue inafferrabili diseguaglianze.
Quel mondo, dopo il Coronvirus, sarà più lo stesso? Come sarà e che cosa ne sarà della nostra vita? Quali e quante rinunce dovremmo imporre ai nostri stessi comportamenti, alle nostre relazioni sociali? E la geopolitica, quel sottile gioco di equilibrio e di competizione tra potenze dominanti, sempre più in balia della Trappola di Tucidide, come cambierà il destino dei popoli e delle nazioni? E le nazioni avranno ancora i caratteri che storicamente ne hanno definito confini, storia, tradizioni, cultura, oppure subiranno cambiamenti così profondi da sconvolgerne la natura? A queste domande ne possiamo aggiungere mille altre. Tutte egualmente urgenti, dopo aver accettato, con una acquiescenza anch’essa inesplorata da una generazione che della guerra ha ascoltato il racconto dei nonni, parole d’ordine come “confinamento”, “distanziamento sociale”, “divieto di assembramento”. Nuove locuzioni di un linguaggio abusivamente sottratto alla guerra, comunque indice di restrizioni di diritti, di riduzione di spazio alle libertà singole e collettive. Insomma, nulla sarà come prima e, se così sarà, come sarà il Dopo?
Forse la risposta più convincente potremmo trovarla esaminando quel che potrebbe accadere, partendo da ciò che conosciamo, per immaginare quel che ancora non sappiamo. Secondo alcune tesi, nel mondo che ci attende, verosimilmente, non assisteremo ad una inversione di tendenza, bensì ad una ulteriore accelerazione dei processi che la crisi pandemica ha vieppiù evidenziato. Nelle democrazie occidentali, per esempio, si avrà a che fare con l’eredità di dinamiche di lungo periodo: la vecchia crisi fiscale dello Stato, la crisi di governabilità, il tramonto delle tradizioni politiche novecentesche.
Allo stesso tempo, la pandemia ha disvelato la vulnerabilità della nostra gerarchia dei beni e delle disposizioni che ci sono care. Ci ha messo sotto gli occhi due grandi fatti: l’interdipendenza umana e la morte. Fatti che comportano, in realtà, non una rivelazione finale, ma delle questioni decisive sulle verità durevoli della condizione umana e sull’orientamento generale delle nazioni europee.
Il virus, in un certo senso, ha sospeso, oltre ai beni di cui eravamo usi a godere, anche il pensiero politico. Basti considerare che, di fronte al virus, i leader nel mondo intero si sono fatti trovare per lo più impreparati. Poi, ci sono i dubbi sull’uso degli strumenti cui si è ricorso per fronteggiare il male e, allo stesso tempo, contemplare attività, studio, lavoro, comunicazione. Prendiamo il digitale. Chiedersi se l’uso del digitale sia un bene o un male non ha senso. Diverso è impegnarsi perché l’adozione delle tecnologie digitali possa produrre effetti positivi e sostenibili. La scrittrice Shoshama Zuboff ha usato in proposito una metafora efficace. Ha definito quello delle piattaforme digitali “capitalismo di sorveglianza”. Un capitalismo che concentra nelle mani di pochissimi un grande potere, economico e sociale. La frenetica corsa competitiva nell’accaparrarsi i vaccini e l’indecente meccanismo di aste del mercato farmaceutico, non sono forse anch’esse forme di “capitalismo di sorveglianza”, di preponderante invadenza delle multinazionali del farmaco nelle decisioni di salute pubblica, di regola, riservate allo Stato?
Abbiamo, dunque, a che fare con un enorme potere: il potere di indirizzare le scelte di milioni di persone. Siamo entrati – ma forse è soltanto un ritorno – in una dimensione hobbesiana dell’esistenza politica, in cui lo Stato è chiamato a proteggere la vita e a disporre della libertà dei cittadini in modo più invasivo rispetto alla normalità a cui le democrazie liberali degli ultimi settant’anni erano abituate. Avviene nell’ambito socio-economico, dove si registra dappertutto un più accentuato intervento pubblico.
E viene alla luce anche nella sfera della globalizzazione soft che sta facendo emergere plausibili scenari di ritorno delle industrie del Continente, dopo i processi di delocalizzazione verso l’Asia e la Cina.
Nella stessa direzione si indirizzano i modelli di economia sociale di mercato, con un mondo del lavoro ancorato al sistema sociale.
E’ il segno di un nuovo protagonismo dello Stato.
Confessiamolo: una dimensione che, dalle parti nostre, si era un po’ troppo appannata.
Grande io penso tu scrivi: capirsi senza parlare è da persone intelligenti superiore alla media, questo è il problema del futuro, non esiste più la persona intelligente. rimanere in silenzio e fare fatti.