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SE LA POLITICA DIVENTA SCHIAVA DEI LIKE

L'AFFERMAZIONE DEL WEB MODIFICA L'AMBIENTE IN CUI I CITTADINI FORMANO LE LORO OPINIONI

Secondo Damiano Palano siamo sempre più immersi nella"Bubble Democracy"

Nel film Quinto potere, Howard Beale, rivolgendosi al pubblico, si lancia in un famoso monologo: “Sapete – arringa la platea, descrivendo con ferocia i meccanismi televisivi - da noi non potrete mai ottenere la verità. Vi diremo tutto quello che volete sentire mentendo senza vergogna: noi vi diremo che... che Nero Wolfe trova sempre l'assassino […]. E per quanto si trovi nei guai il nostro eroe, non temete: guardate l'orologio, alla fine dell'ora l'eroe vince. Vi diremo qualsiasi cazzata vogliate sentire!”

A distanza di anni - il film fu girato nel 1976 - queste parole non hanno perso di efficacia e anzi si possono recuperare per descrivere, o almeno tratteggiare, quello che accade nel cortocircuito tra politica, social e costruzione dell’opinione pubblica nella contemporaneità. La nascita e la definizione dell’opinione pubblica accompagna la crescita degli stati nazione e prende corpo tra salotti, piazze, club e associazioni nel secolo della borghesia: l’Ottocento. Il salotto nel ‘700, il caffè e poi l’osteria tra il secolo dei Lumi e quello successivo, la formazione dei primi partiti alla fine di esso e la loro trasformazione in partiti di massa nel Novecento, disegnano la traiettoria di luoghi, spazi fisici, di incontro, discussione, creazione di opinioni.

Opinioni che prendono corpo a partire da idee e che, nello scontro ideologico e nella lotta politica, si trasformano in proposte di legge, tentativi di riforma, nuovi paradigmi culturali. Ovviamente il processo non è né lineare né sempre virtuoso ma un dato è incontestabile: l’opinione non è volatile, non cambia in un momento, non è frutto di strategie di marketing, non è subita.

Una premessa: chi scrive pensa che le esperienze di democrazia diretta che sono state sperimentate, con tutti i limiti, negli anni recenti, non siano in toto da rifiutare perché hanno costituito un argine a forme di estremismo serpeggianti nel Paese e hanno accolto le istanze di chi si è sentito - travolto dal sentimento di sfiducia nei confronti della classe politica - escluso, ai margini, non rappresentato. Ma, parimenti, fare opinione non è soltanto subire le opinioni ma costruire a partire da un’idea: quale rapporto c’è oggi tra social e politica, a tutti i livelli? La verità di cui parla Beale è la somma di centinaia di like e di un post ben costruito?

La rivoluzione digitale ha moltiplicato i canali comunicativi, rese accessibili informazioni prima difficili da reperire, moltiplicato i contatti, in sintesi causato un mutamento del contesto comunicativo stesso: è indubbio. Ma nello stesso tempo, ha posto questioni enormi: nel villaggio globale, quale è il senso dell’azione politica? La risposta riguarda tutti noi come attori e come soggetti passivi, consumatori, non solo di prodotti ma anche di informazioni e, appunto, di opinioni. Essere titolari di account fa sentire i cittadini protagonisti e non solo comparse; il problema allora diventa etico, e investe la responsabilità nel mondo digitale e il nostro grado di autonomia.

Alcuni studiosi oggi parlano del passaggio dalla democrazia dei partiti alla democrazia del pubblico (Manin), altri di democrazia recitativa (Gentile), altri ancora di democratura. La definizione che meglio racconta i nostri anni, senza escludere le altre, che ben descrivono taluni aspetti della nostra complessa contemporaneità, è quella proposta da Palano, che ha coniato il termine di bubble democracy.

Nell’interazione tra cittadini e politica, con la progressiva affermazione del web come canale informativo per molti cittadini, e del contestuale ridimensionamento del ruolo della televisione, e dei giornali, ha “incominciato a modificarsi l’ambiente in cui i cittadini si formano le loro opinioni ed esprimono le loro identità”.

Il pubblico allora si dissolve e si scompone in una miriade di bolle: la novità non consiste nella parzialità delle informazioni o del punto di vista (quello accade normalmente nei giornali, negli organi di partito, nelle emittenti radiofoniche e così via) quanto, in primis, nel fatto che ciascun utente è solo di fronte allo spettacolo formato dalle sue preferenze; in seconda battuta, che la bolla è invisibile; da ultimo, e qui è il paradosso, il sovraccarico informativo crescente si traduce nella riduzione della finestra da cui vediamo il mondo.

La fiducia allora, non più riposta nelle agenzie istituzionalizzate, nelle organizzazioni che prima curavano la crescita delle opinioni, si sedimenta nei legami orizzontali, distribuiti, apparentemente disintermediati.

Il mutamento non può non avere, nella sua radicalità, un effetto politico: l’opinione allora diventa orizzontalmente subita e non costruita, si trasforma in verità per acclamazione, in un’alzata di mano collettiva di una comunità di individui isolati, e soli. Comunità che non ha uno spazio identitario comune e che fintamente partecipa non alla costruzione di un pensiero ma a un sondaggio a costo zero, per chi lo fa, e a costo di rappresentatività reale, per chi vi partecipa. Allora non è tanto la disintermediazione ad avere la meglio (parlo col mio politico di riferimento che è tanto bravo e mi rassicura) ma una mediazione invisibile, e proprio per questo pervasiva e, sul piano della tenuta intellettuale della democrazia, pericolosa.

Ulteriore conseguenza è la tendenza alla polarizzazione: nella bubble democracy, il pubblico, scrive Polano, “si frammenta in una serie di segmenti distinti, ognuno dei quali è oggetto di un flusso informativo orientato in senso ‘partigiano’: proprio perché i leader politici non si rivolgono contemporaneamente, con il medesimo messaggio, a tutto il pubblico – ossia, a tutti gli elettori potenziali – bensì solo a una specifica nicchia, l’obiettivo non sarà tanto quello di ‘convincere’ […] quanto quello di mobilitare al voto puntando su temi identitari […] magari capaci di alimentare o sfruttare i meccanismi di polarizzazione”.

Naturalmente questo scenario apocalittico non copre l’esistente nella sua totalità: è un tentativo di interpretazione che offre però interessanti prospettive di lettura e può servire a correggere il tiro, o almeno a centrare un bersaglio giusto. La consapevolezza dell’agire politico è inestricabilmente connessa alla capacità di visione; laddove manca, il plebiscito dei mi piace, che alimenta a sua volta decisioni frammentarie e poco organiche, orienta politiche locali e nazionali; laddove esiste, recupera spazi e identità, rompendo l’isolamento dei singoli utenti, trasformandoli in cittadini che mettono qualche non mi piace alle, direbbe Beale, cazzate imperanti.

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