Leggendo un libro di storia dell'arte il pensiero corre alle ragazze di Kabul.
Gli occhi di Artemisia Gentileschi e quelli delle donne afghane. Quattrocento anni fa come oggi.
Agosto 2021. Sono sotto l’ombrellone, leggo un libro di storia dell’arte. Il capitolo che ho appena iniziato è dedicato a Artemisia Gentileschi, figlia del pittore Orazio Gentileschi, esponente di primo piano del caravaggismo romano.
La madre, Prudenzia Montone, morirà di parto quando Artemisia avrà appena dodici anni. La ragazza si dimostra prodigiosa. Nello studio paterno esercita e alimenta, al fianco dei fratelli e degli altri giovani allievi, il suo innato talento pittorico. Ma Artemisia è destinata a passare alla storia non solo per la bellezza delle sue tele.
La cronaca del tempo la vede protagonista, nel 1612, di un processo da lei stessa richiesto a seguito della violenza subita da parte di Agostino Tassi, suo maestro di prospettiva, che al tempo della vicenda era impegnato, insieme a Orazio, nella decorazione di Palazzo Pallavicini Rospigliosi a Roma. Documenti dell’epoca raccontano di come Artemisia abbia accettato di testimoniare, sotto tortura, per dimostrare la sua verginità precedente allo stupro.
La giovane viene addirittura sottoposta ad un supplizio ideato appositamente ai danni dei pittori, consistente nel fasciare loro le dita delle mani con delle funi fino a farle sanguinare. Sapete come finisce questa storia?
Dal processo il Tassi esce praticamente indenne, mentre i Gentileschi, come se le offese verbali e fisiche inflitte alla figlia non fossero abbastanza, si vedono costretti a subire pesanti condanne morali Dopo il processo il padre riesce a combinare un matrimonio per la figlia con Pierantonio Stiattesi, pittore fiorentino, che determina il trasferimento della giovane pittrice a Firenze e l’avviarsi, per lei, di nuova stagione “da solista”. Qui Artemisia viene accolta, contrariamente al marito, presso l’Accademia delle arti del disegno: è la prima donna a ottenere questo prestigioso riconoscimento. Ottiene importanti commissioni dalle famiglie fiorentine (Medici compresi) e stringe amicizia - tra gli altri - con Galileo Galilei e Michelangelo Buonarroti il giovane.
Nel 1621 va a Genova per un breve periodo, poi torna a Roma come donna indipendente, allontanandosi definitivamente dal marito, e portando con sé la figlia Palmira. Dopo Roma è a Venezia, e probabilmente vi soggiorna tra il 1627 e il 1630, alla ricerca di nuove commissioni. Successivamente approda a Napoli, e lì rimane definitivamente. La fama di Artemisia è oggi grande, i suoi quadri sono ormai famosi e apprezzatissimi, ma è probabile che la sua fortuna più recente sia legata agli aspetti drammatici e romanzeschi della sua vita, e al suo coraggio nell’affrontarli, che ne hanno fatto, naturalmente, una eroina femminista ante litteram.
Ovviamente non bisogna fare l’errore di leggere, nella sua arte tutta, un riflesso delle violenze subite e uno strumento di ribellione e rivalsa.
Artemisia va considerata come artista che, col pennello, ha saputo dare vita a onere complete e complesse, profuse di una vena poetica che va oltre il riflesso delle vicende della sua vita. Il capitolo è terminato, apro Instagram. Seguo molte pagine di informazione e vedo questa foto postata da pochi minuti.
Le immagini parlano, questo social ci ha fatto capire proprio questo. E lo sguardo di questa ragazza afghana racconta paura e richiesta di aiuto.
“I talebani hanno vinto” si legge sotto.
Facciamo un passetto indietro. Durante il regime talebano, in Afghanistan alle donne era vietato uscire di casa, se non accompagnate da un tutore maschio.
Il burqa era obbligatorio, il trucco assolutamente vietato, come anche lo smalto e l’uso di gioielli.
Le ragazze non potevano lavorare e non avevano diritto a frequentare la scuola.
Non potevano ridere. Il contatto con gli uomini veniva filtrato in ogni modo. Se gli abiti coprivano ogni parte del corpo, lo sguardo non era certo lasciato libero. Gli occhi delle ragazze non dovevano incrociare quelli di un maschio, la mano non poteva stringere quella di un individuo di sesso opposto. Dovevano diventare impercettibili, invisibili, cancellate al punto da dover limitare il rumore prodotto mentre si muovevano: il rumore dei tacchi venne vietato nel luglio del 1997.
Le limitazioni si accompagnavano a punizioni esemplari in caso di trasgressione, con amputazioni e pene di morte eseguite in pubblico.
Tantissime in quegli anni si sono tolte la vita. Con la caduta del regime nel 2001, le donne hanno ottenuto alcune progressive concessioni. Hanno potuto nuovamente rendersi visibili, indossare il burqa divenne una scelta e non più un obbligo. I loro piedi hanno ricominciato a fare rumore, i loro tacchi hanno portato musica nelle scuole, nei posti di lavoro, nelle televisioni. È stato ridato loro il diritto di voto. Ma ora? Adesso cosa ne sarà delle ragazze afghane?
Il portavoce Suhail Shaheen usa toni di rassicurazione, ma dall’Afghanistan arrivano già testimonianze che raccontano una realtà diversa.
Donne cresciute libere temono adesso di vedere offuscata quella libertà che le rende umane. Libertà di essere belle, di ridere, di ballare sui tacchi, di avere un’istruzione che possa sollevare le loro menti e le loro anime. Rimango ammirata nel vedere gli sguardi delle giornaliste di Kabul che, a volto scoperto, intervistano il dirigente talebano guardandolo negli occhi. Che continuano a svolgere il loro lavoro con un coraggio e una dignità di cui non tutti saremmo capaci.
E penso che le guerre non dovrebbero esistere, andrebbero combattute così, con l’intelletto, la conoscenza, il cuore, occhi sinceri e la parola come arma. Siamo nel 2021. Sono passati più di quattro secoli dal processo richiesto da Artemisia per condannare il suo stupratore.
409 anni in cui l’umanità ha fatto passi da gigante. 409 anni che sono ridotti ad un nulla se pensiamo che oggi giustizia non viene fatta, che in Italia, dal solo gennaio 2021, sono morte 38 donne per femminicidio. Se pensiamo - noi nati e nate nella parte del mondo giusta - che qualcosa di assolutamente pericoloso e inumano si compie sul nostro stesso pianeta, sotto i nostri occhi, noi impotenti spettatori e indiretti testimoni del coraggio di queste donne e di tanti uomini che guardano e sfidano, senza armi addosso, i kalashnikov dei miliziani talebani.
Chiudo il telefono e penso che Artemisia e questa donna si assomiglino molto, entrambe innocenti vittime destinate a un crudo destino che non dovrebbe più essere contemplato da chiunque abbia la pretesa di definirsi uomo.
Comments