Se è vero che l’autunno rappresenta il nostro reale inizio dell’anno, quello che ci spinge in qualche modo a reimmergerci nella realtà che avevamo patinato con l’arrivo dell’estate, è inutile negare che quest’anno l’impresa è assai più ardua. Torniamo col nostro sguardo meno stanco, ma più esausto, su un totale marasma da cui, in fondo, non siamo mai usciti.
Se a casa nostra le elezioni del 25 settembre ci ricordano (come se ne avessimo bisogno) la profonda crisi politica ed istituzionale che scriverà la storia italiana di questi anni, allo stesso tempo non si può non guardare con estrema preoccupazione ciò che accade fuori. Infatti, ancora più che questa scelerata campagna elettorale di Ferragosto, la notizia che più ha fatto discutere nelle ultime settimane è stata l’arrivo di Nancy Pelosi a Taiwan, lo scorso 2 agosto.
Una visita voluta dalla speaker della Camera dei Rappresentanti, che non ha potuto non scatenare un’immediata risposta aggressiva cinese.
Nei giorni successivi Pechino ha avviato numerose esercitazioni militari nello stretto di Taiwan (lo Stretto di Formosa), accerchiando di fatto l’isola e lanciando un messaggio ben chiaro agli americani.
D’altronde un avvertimento c’era già stato nella videochiamata durata oltre due ore tra Biden e Xi Jinping pochi giorni prima dell’arrivo di Pelosi sull’isola.
«Se giocate con il fuoco, finirete per bruciarvi», era stato l’avvertimento del presidente cinese, mostrando la retorica più aggressiva che la Cina abbia utilizzato negli ultimi decenni nei confronti degli Stati Uniti.
Come se non bastasse, il 14 agosto un’altra delegazione composta da cinque rappresentanti del Congresso, guidata dal senatore democratico Ed Markey è sbarcata a Taiwan per discutere delle relazioni americane con l’isola, della sicurezza regionale, di commercio, investimenti e altre questioni di interesse reciproco, come riportato in una nota dell’ufficio presidenziale.
Che fosse un tentativo del partito democratico di “annacquare” la portata della visita di Pelosi a Taipei, non è ancora chiaro.
È chiaro invece quanto il partito democratico americano stia attraversando oggi più che mai una fase critica. La Casa Bianca aveva già cercato di prendere le distanze dalla decisione della rappresentante della Camera di andare in visita a Taiwan.
Così come tiene ancora in discussione il Taiwan Policy Act, la modifica alla legge del Congresso che mira a rafforzare le capacità difensive di Taipei, a spese americane.
Ne deriverebbe l’aggancio dell’isola come principale alleato fuori dalla Nato, allontanando definitivamente gli Stati Uniti dall’ “ambiguità strategica”, la strategia usata finora nei confronti della Cina. A Biden non serve certo un ulteriore inasprimento dei rapporti con Pechino in questo momento.
Le elezioni di midterm sono dietro l’angolo, a cui per giunta arriverà fortemente indebolito a novembre, complici la difficile gestione dei fatti in Ucraina e la precedente figuraccia in Afghanistan, trauma ancora troppo fresco nell’orgoglio americano.
Tornando al viaggio di Pelosi, è chiaro che andare come rappresentante della terza carica più importante degli Stati Uniti nella zona fulcro nevralgico della tensione cinese è una mossa azzardata, seppure mossa da buone intenzioni.
Di fatto, è letta da Xi Jinping come un aperto sostegno all’indipendenza di Taiwan.
Poco importa il debole tentativo di Biden di non sostenere il viaggio. Come afferma anche Lucio Caracciolo su Limes, il rischio è di aver creato il pretesto per una nuova crisi di Cuba.
Oltretutto, Pechino guarda con sospetto l’interessamento statunitense ai colossi dei microchip taiwanesi, per cui l’isola è leader ed esportatore globale.
C’è da dire che il caso di Nancy Pelosi non è il primo nella storia. Già nel ’97 Newt Gingrich, ex speaker della Camera, aveva incontrato Lee Teng-hui, l’allora primo presidente taiwanese.
Il punto è che all’epoca trovavamo una Cina meno influente e meno potente, ma soprattutto un’altra America, meno indebolita. La sensazione ad oriente è che questo tentennamento americano, che si palesa nella crisi all’interno dello stesso partito democratico, non sia altro che lo specchio della crisi d’identità che il paese sta vivendo al suo interno. Quello che preoccupa è la vicinanza con cui si susseguono gli incontri a Taipei e le esercitazioni cinesi nello stretto.
Questa potrebbe essere l’occasione strategica ad hoc per la Cina di concludere il piano di Mao del ’49, ottenendo in un solo colpo la riunificazione con Taiwan (anche se sarebbe più corretto parlare di annessione) e l’inserimento definitivo come potenza mondiale nella partita geopolitica.
Per di più un attacco vincente di questo tipo costituirebbe un fiore all’occhiello per la politica di Xi JinPing, che mostrerebbe di essere in grado di preservare la sicurezza e l’unità nazionale.
Ma anche la Cina ha il suo tallone d’Achille. La complicata gestione dell’emergenza Covid, unita al rallentamento della crescita dell’economia cinese registrata nell’ultimo anno costringono – per fortuna – Xi a frenare le ambizioni. C’è una cosa che infatti accomuna Pechino e Washington al momento: entrambe non cercano un’altra crisi internazionale.
Biden sta puntando alle elezioni di metà mandato, e arrivarci incastrato in due conflitti con le due più grandi potenze mondiali non è un gran biglietto da visita. ù
Xi Jinping è costretto a tenere un profilo per quanto possibile basso al momento, per arrivare al XX Congresso del Partito Comunista Cinese che si terrà presumibilmente ad ottobre, in cui si gioca l’elezione per il suo terzo mandato.
Insomma, al momento un attacco a Taiwan si rivelerebbe un boomerang letale.
È oramai chiaro che la partita principale della guerra in corso si giocherà proprio con Taipei, più che con Kiev. Tuttavia, l’opzione più probabile sarà vedere uno stallo che durerà almeno fino all’autunno, in cui ognuno cercherà di testare la resistenza dell’altro in attesa della conclusione degli impegni burocratici.
Dopodiché, a meno di altre iniziative americane, potrebbe essere la Cina a voler tirare le somme.
Ed è uno scenario che non auspichiamo.
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