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Ucraina, guerra per procura sulla pelle dell'Europa

Siamo alle porte del quarto mese di guerra ed ogni giorno ci porta via sempre più certezze.

Sia che questa guerra sia effettivamente vicina ad una fine, sia perché diventa sempre più difficile definire il quadro politico (e di conseguenza economico) che ci troviamo a gestire.

Quando Putin ha lanciato l’offensiva contro l’Ucraina, alla fine del febbraio scorso, era chiaro a tutti quali fossero i giochi di forza: un Paese invasore che legittima un intervento offensivo attraverso l’accusa all’occidente di aver violato la (presunta) promessa di non espansione della Nato verso est.

Non che a questo punto il concetto di fondo sia mutato.

Tuttavia, le difficoltà oggettive di avanzamento delle armate russe – che hanno costretto l’offensiva ad un ridimensionamento degli obiettivi finali a partire dalla fine di questo aprile – unite al pesante contraccolpo economico che sta subendo l’economia russa a seguito delle sanzioni inflitte dall’Ue stanno chiaramente mostrando come ci troviamo sempre meno di fronte a uno “scontro tra Davide e Golia”, come ha espresso anche il nostro premier.

Tuttavia, il rischio è molto più grande. Oramai è chiaro anche all’occhio meno allenato che parlare di uno scontro tra invaso ed invasore sia una mera semplificazione degli eventi.

La guerra russo-ucraina riguarda il futuro geopolitico di tutto il mondo, che si accetti di prenderne parte o meno. Soprattutto adesso che l’amministrazione Biden ha deciso di stanziare 20 miliardi di aiuti militari a sostegno delle forze ucraine, il che mostra una posizione sempre più netta degli Stati Uniti, a favore di un sostegno concreto al popolo ucraino, con l’obiettivo non solo di vincere questa guerra, ma anche di riportare lo status del Paese a quello che era prima del 24 febbraio.

Il rischio è proprio quello di trasformare (per quanto non lo sia già) il conflitto in una “guerra per procura”, uno scontro tra Stati Uniti e Russia giocato sul suolo ucraino che riporterebbe in auge vecchi dissapori, con l’aggravante però di una minaccia nucleare sempre più palpabile.

In questo contesto, l’incontro tra Mario Draghi e il presidente americano dello scorso 10 Maggio trova una sua valenza. L’Ue si sta allineando all’interventismo americano? Non proprio.

Sicuramente l’incontro è di fondamentale importanza.

In primis per noi italiani, perché ci permette di avanzare nello scacchiere internazionale col ruolo di mediatori primari. Ma anche di rafforzare quel legame atlantico che negli ultimi anni era stato sporcato dalla nostra ambiguità, frutto di un parziale avvicinamento a Mosca e Pechino.

L’ex presidente della Bce è infatti in questo momento la personalità più affermata ed affidabile, grazie alla sua lunga esperienza ed esposizione in ambito internazionale, ed è l’unico che potrebbe avere un ascendente sulle decisioni americane.

In secundis, è importante perché salda la compattezza del blocco occidentale contro il nemico comune, che funge da collante potentissimo per le mire occidentali.

Occorre però ricordare che, sebbene questa compattezza rientri nel piano strategico antiputiniano, le due posizioni – europea e statunitense – restano il frutto di una natura politica da sempre notevolmente diversa.

Come spiega per Limes Doug Bandow (scrittore politico americano), la potenza americana si è compattata come colosso politico ed economico dalla fine del XIX secolo grazie alle due guerre mondiali e da allora si impegna ad affermare la propria presenza sulla scena internazionale, guidando di fatto il legame con il vecchio continente e macchiandosi a volte anche di insuccessi clamorosi come l’Iraq o il più recente Afghanistan.

Dall’altro lato, non dimentichiamo che l’Ue nasce come unione economica, mentre le più grandi difficoltà vengono riscontrate da sempre a livello di unità politica, soprattutto quando si tratta di individuare una linea comune in materia di politica estera.

Difatti troviamo ancora oggi l’Europa in una posizione più cauta, con Berlino che, lontana dalla guida Merkel, resta amletica.

Troviamo anche però chi strizza un occhio alla realpolitik, la politica concreta.

In questo momento mantenere aperti i rubinetti del gas è di primaria importanza, e per questo Eni ha trovato l’escamotage del doppio conto – uno in euro e uno in rubli presso la Gazprombank – per aggirare le sanzioni Ue ed assicurarsi i rifornimenti necessari.

Ricordiamo inoltre le difficoltà riscontrate con il sesto pacchetto di sanzioni presentato dalla presidente della Commissione europea, non ancora approvato a causa del veto dell’Ungheria di Orbán. Senza contare le preoccupazioni per un rallentamento sempre più evidente dell’economia, che si spera non si cristallizzi in stagflazione.

Con queste premesse, è difficile pensare di promuovere risolutezza e fermezza. E il rischio per l’Europa è quello di dover chiedere ancora una volta la spalla americana, che con la sua prima linea potrebbe portare alla luce i vecchi conflitti mai del tutto sopiti.

La necessità primaria in questo momento è vincere.

Ma, come afferma Draghi, arriverà il momento in cui ognuno vorrà la sua vittoria, e poco probabilmente queste coincideranno.

Per l’Ucraina questa significa riappropriarsi dell’identità di nazione e sconfiggere l’invasore.

Per gli Stati Uniti significa affliggere un duro colpo a Putin sia sul fronte economico che su quello militare, attraverso l’appoggio alle forze ucraine.

Per l’Ue la diplomazia rimane il mezzo più efficace per ottenere un cessate il fuoco e per evitare di commettere gli errori del passato.

Confidiamo che questa unione ritrovata generi una linea comune altrettanto compatta, e che l’Ue riesca a riconquistare il suo ruolo di attore internazionale a tutti gli effetti. Il “rischio” che ci auguriamo di non correre è inseguire il sogno di una linea comune, affidandoci a poche personalità, pensando che il momento sia eterno.

La Francia ha appena sventato il rischio Le Pen, e a casa nostra già incombono le elezioni del 2023.


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