A cura di Silvano Moffa
Già nel dicembre del 1940 un osservatore acuto come Giuseppe Bottai si poneva la domanda: “Dov’è il popolo fiero delle adunate travolgenti?” per poi rispondere: “La totalitarietà ha reciso i nervi del sistema sociale, la cui torpidità si chiama disciplina in tempi di fortuna e con la sfortuna diventa indifferenza, abulia, cinismo”. Tre anni più tardi quella domanda e quella risposta che turbavano la mente di uno dei più intelligenti gerarchi del Fascismo trovavano conferme in un’Italia tanto rassegnata alla guerra, quanto squassata, impaurita, impoverita, morsa dalla fame, stanca di far sacrifici.
Questo diffuso malumore, come è facilmente immaginabile, era perfettamente conosciuto dal regime che, come di consueto, si avvaleva delle proprie fonti per conoscere il vero pensiero dei cittadini. A distanza di ottant’anni dalle tragiche giornate che segnarono la fine del regime, l’avvento del governo Badoglio, i bombardamenti americani sulla Capitale (il primo sul quartiere San Lorenzo, il quartiere dei ferrovieri, il 19 luglio 1943, il secondo il 13 agosto e poi ben cinquantuno incursioni aere alleate, l’ultima delle quali, avvenuta il 30 maggio 1944, colpì il quartiere della Magliana), Sandro Menichelli, in un interessante e documentato volume, pone lo sguardo indagatore su quegli eventi cercando di scandagliare soprattutto il modo in cui la cittadinanza li ha vissuti, subiti e in parte vi ha anche reagito.
“In quest’ottica particolare – osserva lo studioso – le domande da porsi sono innumerevoli. Cosa stava succedendo in quei mesi estivi? Come era possibile che oltre vent’anni di martellante propaganda sulla forza morale e fisica dell’uomo nuovo fascista non si fosse davvero irradiata nelle vene e nella coscienza della popolazione? Si trattò forse di una mera opera di cosmesi esterna di quel tessuto sociale che la nuova verbosità del regime fascista volle vedere come irreversibile trasformazione delle genti italiche in generale e della popolazione romana in particolare, chiamata a riappropriarsi del suo destino e dell’orgoglio derivante dalla sua storia millenaria? Le numerosissime adunate oceaniche di folla esultante in tutta Italia e a piazza Venezia alla vista del duce e all’ascolto delle sue parole espressero un consenso reale o di facciata? Ed ancora, se quel consenso fu reale lo fu fino alla conquista dell’Impero o continuò uguale nonostante l’emanazione delle leggi razziali del 1938 e l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 a fianco della Germania contro le plutocrazie occidentali, con le successive difficoltà evidenziatesi anche nel fronte interno? Insomma, quale fu il reale impatto delle politiche avviate dal regime sui romani? Come veniva considerato il duce nel 1943?”
Del resto, annota Menichelli, in un’ottica di più ampio respiro, il regime e il suo duce agli occhi e secondo il giudizio di molti nel corso degli anni avevano fatto tanto per l’Italia. Avevano ristabilito l’ordine e la pace sociale dopo i disordini e gli scontri sanguinosi del cd. Biennio rosso, avevano fatto piazza pulita di ogni decadente espressione del vecchio potere liberale che fino all’unità d’Italia aveva governato il Paese con quello che era considerato un verboso e vuoto parlamentarismo, avevano dato sfogo e tribuna agli umori ora nazionalisti, ora futuristi, ora antisocialisti dei reduci della Grande guerra. O ancora, in modo più tangibile, avevano costruito dal nulla una prospettiva di vita a migliaia di italiani, avevano orgogliosamente messo l’Italia al livello delle altre potenze conquistando un Impero. E per Roma? Cosa era stato fatto? Ebbene, se c’è stato un luogo in cui il duce voleva lasciare la sua orma più profonda quello era stato proprio Roma. Influenzato da Margherita Grassini Sarfatti, critica d’arte di religione ebraica convertita al cattolicesimo, in Mussolini cominciò pian piano a farsi strada una concezione della città che la vedeva proiettata nel futuro sulla base della sua tradizione di forza, di organizzazione, di civiltà. Roma come faro del mondo.
Di qui il proporsi di una narrazione pubblica della grandezza di Roma e dei suoi destini che sfociò nell’adozione di tutta una serie di simboli come il saluto e il passo romano, il fascio littorio e persino il ricorso alla numerazione romana per indicare i diversi anni dell’era fascista, fino alla proclamazione dell’Impero, avvenuta tra il tripudio delle folle il 9 maggio del 1936. Per non parlare della trasformazione della Capitale sotto il profilo urbanistico, in cui furono coinvolti i migliori architetti dell’epoca come Del Debbio, De Renzi, Libera, Minnucci, Moretti, Paniconi, Pediconi, Piacentini. Con la costruzione di scuole, ospedali, la città universitaria, palazzi moderni, monumenti, fori da destinare all’attività sportiva, studi cinematografici, nuovi quartieri, come ad esempio quello che nelle intenzioni del duce avrebbe costituito un vero e proprio ponte tra la città eterna e il mare. “Questa era infatti la ratio che fino dal 1936 convinse il Governatore della città, Giuseppe Bottai, e lo stesso Mussolini a sfruttare la possibilità di ospitare nel 1942 la nuova Esposizione Universale (E42) per erigere un quartiere dall’impronta futurista, razionale, spaziosa e verde, profondamente irradiato dal mito della potenza di Roma e delle millenarie virtù delle genti italiche e che, negli anni successivi al secondo conflitto mondiale assunse il nome di EUR, acronimo di Esposizione Universale Roma”.
Su questo sfondo di modernità che illuminava una “città destinata ad un futuro radioso”, si snoda la riflessione minuziosa e certosina dell’autore tesa a scoprire quale fosse l’umore effettivo dei romani, “cosa provasse davvero la cittadinanza”. Secondo lo storico Federico Chabod già nel 1939/40 si era scavato un “abisso” tra il Paese e Mussolini. Tesi esclusa da Renzo De Felice. Nel suo poderoso studio sul fascismo, De Felice contesta questa cesura netta, preferendo parlare di un progressivo processo di delegittimazione che, in un primo momento toccò i gerarchie e solo in un secondo momento il duce, caratterizzato da un andamento intermittente a seconda delle disponibilità dei prodotti alimentari, delle regolarità della loro distribuzione, delle speranze o delle delusioni dell’adozione di alcuni provvedimenti, del diffondersi di voci allarmistiche e dell’andamento della guerra.
Menichelli è molto vicino alle tesi di De Felice. “Con l’evoluzione della situazione internazionale capace di tradursi nello scoppio di un nuovo conflitto mondiale, lo stesso Mussolini cominciò a temere seriamente un progressivo mutamento degli umori delle popolazioni tanto verso la sua persona, quanto nei confronti del regime e dei gerarchi”, annota. Di qui un’analisi attenta all’evoluzione dei fatti che determinarono l’ingresso dell’Italia in guerra al fianco della Germania fino all’esito finale del conflitto con la resa agli angloamericani.
L’atteggiamento degli italiani rispetto alla guerra, a Mussolini e al regime è una questione che ancor oggi merita di essere approfondita ed esplorata, utilizzando fonti e metodi analitici. La ricerca e lo studio dei documenti consentono di utilizzare carteggi di varia natura che aiutano a far luce su questioni importanti per la storia di quegli anni cruciali e talvolta su problemi ancora aperti nel contesto politico internazionale contemporaneo.
Si possono affacciare nuove fondate interpretazioni del rapporto tra fascismo e forze armate, della dinamica e della geografia degli scioperi del marzo/aprile 1943. In particolare, fra gli excursus dedicati alla politica estera del fascismo, si possono rintracciare le linee di molte relazioni con il mondo arabo per più di una ragione ancora di stringente attualità. Tutti elementi che si ritrovano nell’interessante volume di Menichelli.
In effetti, in Italia la guerra tese ad assumere e in parte assunse il carattere di una guerra di religione, combattuta con un animus prima ignoto e in nome di ideologie, di modelli politici che superavano i confini nazionali, cosa del resto non nuova e che aveva precedenti fin dai tempi della rivoluzione francese. Si trattava di elementi, secondo l’interpretazione defeliciana, che avevano poco a che fare con il patriottismo precedente e, a maggior ragione, col ruolo di considerare la fedeltà e il tradimento che aveva dominato quando la nazione aveva costituito il supremo principio etico e politico. Significativo per comprendere la differenza tra tale animus e quello precedente è il dibattito sulla guerra totale che si accese nei primi mesi del 1943 e investì vari e diversi ambienti giovanili e vide prendere posizione a favore della guerra totale anche personaggi come Piovani. Metterlo in chiaro è necessario, perché in sede storica bisogna anche rendersi conto che il nazionalismo ebbe nel fascismo e nel suo modo di concepire la guerra un carattere e un peso diversi da quello che ebbe in altri paesi e soprattutto nella Germania nazista.
Che il nazionalismo fosse una componente tra le più importanti dell’ideologia, della cultura e dell’atteggiamento verso la vita del fascismo e della sua voglia di affermazione e di potenza è fuori discussione.
Come fuori discussione è che il fascismo fece leva su di esso, consapevole della sua carica emotiva e della sua forza, ma soprattutto perché nel nazionalismo individuava il fattore necessario per devitalizzare ed unificare allo stesso tempo le diverse posizioni che caratterizzavano l’atteggiamento della borghesia nei suoi confronti e per accelerare la nazionalizzazione delle masse, integrando nello Stato fascista quegli strati sociali che erano rimasti estranei alla Stato liberale.
Pur tuttavia questo non è sufficiente a ritenere che il nazionalismo costituisse tout court l’elemento centrale del fascismo e neppure che tra il nazionalismo fascista e gli altri nazionalismi non ci fossero differenze.
Nell’ottica del fascismo la nazione aveva costituito il problema centrale del XIX secolo e l’aveva risolto conformemente alle esigenze etiche e politiche del suo tempo. Nel XX secolo la civiltà europea e quindi il fascismo avevano altri problemi da affrontare e risolvere, a partire da quelli dello Stato e dell’autorità.
L’inizio della Seconda guerra mondiale e ancor più l’intervento italiano, con i problemi connessi al rapporto Germania-Italia, provocarono un vasto dibattito che verteva sul futuro ordine nuovo, sui nuovi assetti geopolitici che sarebbero scaturiti dal conflitto e portarono ad un ripensamento del problema della nazione e del nazionalismo, visti nella prospettiva di varie “anime”, interessi e strategie del fascismo. La discussione fu animata in particolare dai circuiti culturali moderato-conservatori che si presentavano come paladini della “nuova civiltà”. Spuntarono critiche serrate alla cosiddetta teoria degli “spazi vitali” dei tedeschi e ci fu chi come Francesco Orestano, filosofo vicino a Mussolini, ancor prima dell’intervento italiano, parlò della inapplicabilità del nazionalismo alle regioni multinazionali e multilingue, mettendo in guardia dalle minacce dei micronazionalismi come forze disgregatrici dell’Europa.
Nella ricerca storica di Sandro Menichelli dedicata a Roma e alla terribile estate del ’43 riaffiorano nella cronaca degli eventi narrati questi elementi che offrono al lettore il clima, l’ambiente, l’umore, il fervore dei dibattiti e dei confronti politici tra i protagonisti di quelle vicende che segnarono un’epoca. Proprio a quei personaggi l’autore dedica nell’appendice del libro ritratti di assoluta efficacia che richiamano tutta l’attenzione e la curiosità del lettore.
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