A cura di Silvano Moffa
Nella storia millenaria di Roma, il concetto di Imperium ha un valore centrale. Ma come si è arrivati a codificarne la portata?
Come si è evoluto nel tempo?
E come è stato possibile farne convivere il peso con le progressive e, spesso, radicali trasformazioni del tessuto sociale, economico e militare della Roma antica? L’argomento continua a suscitare interesse ed alimentare studi. Tra questi colpisce per profondità di analisi e ampiezza di riflessione il recente volume di uno dei più acuti storici dell’antichità, Giovanni Brizzi.
Con il vocabolo Imperium, avverte Brizzi, si designa di solito, ai giorni nostri, un organismo politico composito, formato da entità di diversa natura, subordinate in qualche modo ad un’autorità centrale che le tiene unite.
La nozione è cambiata nel corso dei secoli. Per quanto concerne Roma, l’Urbe conobbe un’età e un regime, la repubblica, in cui, rimossa la monarchia originaria, il potere e le virtù civiche dalle quali l’impianto politico vigente traeva credibilità e autorevolezza furono sentiti a lungo come collettivi. In origine, dunque, l’Imperium trova una sua essenza nella sfera del potere soprattutto nell’ambito politico-militare, dove spettava ai magistrati di rango più alto di comandare i cittadini durante la guerra, ossia nel periodo di massima emergenza per l’Urbe.
In questo senso, l’Imperium “è in un certo qual modo l’espressione più completa della libertas, della piena libertà di espressione del cittadino romano responsabile, in quanto ne contraddistingue quel ruolo sovrano all’interno della cittadinanza che egli delega poi ai magistrati scelti da lui stesso”.
Per Giuseppe Zecchini, che riprende l’intuizione di Wieacker, a fondamento della nozione di Imperium si poneva una serie di valori cosiddetti “prestatuali”: dignitas, auctoritas, gratia. Semplificando, valori che riassumevano, in sostanza, la dignità attribuita all’uomo la cui virtus era riconosciuta dai concittadini. Tra questi requisiti ve ne era anche un altro di valore talmente importante da apparire ab origine imprescindibile: fides.
Un termine con il quale i romani designano rispetto delle regole e correttezza di comportamento, fino a divinizzarne la natura, simbolo della purità necessaria, non solo liturgica. Illuminante l’episodio di Mucio Scevola.
Durante l’assedio di Roma da parte di Porsenna, Mucio penetra furtivamente nel campo etrusco celando un’arma sotto la veste, ma pugnala per errore il tesoriere del re.
Catturato e condotto di fronte al sovrano per essere interrogato, il Romano lascia bruciare la mano destra su un braciere, per dimostrare, secondo Livio, la sua insensibilità ai tormenti. Riletto nel suon significato simbolico, il gesto leggendario dei Mucio Scevola, scrive Brizzi “è un elemento dalla valenza simbolica universale, la destra è, nella cultura romana, consacrata alla Fides, astrazione della quale la mano rappresenta il santuario corporeo”.
Dal singolo episodio è possibile risalire alla valutazione di un aspetto particolare dell’etica romana arcaica. Annota lo storico: “Sulla fides il Romano delle origini fonda l’intera sua concezione del rapporto, prima individuale, poi tra i popoli; sicché anche e soprattutto la guerra, proprio perché di questo rapporto rappresenta una fase anomala e perciò tanto più pericolosa, va assoggettata alle stesse regole”.
La fides, per i romani, ha dunque un valore etico che promana dalla res pubblica allo stesso Imperium.
Quest’ultimo si connota, nel tempo, per fattori civili, religiosi, militari, giuridici. Brizzi sembra condividere la testimonianza di Camillo, “uno dei condottieri prescelti dal fato” circa l’esistenza di un ius naturale che divinizza i valori, lasciando agli dei il ruolo di simboli, ancor prima che Cicerone provveda ad organizzare filosoficamente il concetto. Scrive lo storico: ”Antichissimo, il principio sostanziò ab origine quello ius gentiun grazie al quale il nascente Stato romano poté prima mantenere, poi estendere i rapporti gentilizi; e condusse al formarsi del primo embrionale diritto.
Precedenti il sorgere delle città, quegli originari legami superavano infatti i limiti, territoriali e di appartenenza, che solo in seguito la città stessa si sarebbe dati, continuando a saldare insieme in un’etica condivisa le aristocrazie latine all’inizio, tirreniche poi; fino a quando le gentes di questo versante d’Italia non finirono in sostanza per riconoscersi in nome di un valore che sarebbe divenuto la base stessa del più vasto e complesso diritto dei popoli e avrebbe allargato la città-Stato alla più ampia dimensione della civitas. Inquilina, secondo la tradizione del Campidoglio perché divinizzata fino dal regno di Numa, la Fides ricevette un tempio vero e proprio ad opera di un Romano acquisito, il campano A.
Attilio Caiatino al tempo della prima guerra punica; ciò che ne decretava diffusione e successo estesi ormai su scala italica. Di per sé evidenti, dimensione e portata politica del culto sono sottolineate dal fatto che all’interno del suo santuario furono raccolti via via i testi dei trattati internazionali stipulati da Roma”. Con Scipione nel dibattito circa la natura del potere comincia a insinuarsi di nuovo, in misura superiore al passato, il “tarlo di un’ambizione personale destinata a crescere fino a sfociare nella genesi dell’impero”.
Il mutamento comincia ad avvertirsi appieno con colui che, nell’immaginario collettivo, è il più grande e glorioso tra i generali dell’Urbe prima di Cesare; e che del cesarismo è, appunto, destinato a divenire una sorta di emblema e di precursore ideale.
Pur descritto da Livio per la sua amabilità, moderazione e nobiltà, Scipione aveva compreso da un lato che alla fides , al rispetto delle regole, poteva talvolta essere necessario rinunciare, poiché “non è detto che la vittoria ricompensi per forza le virtù di un popolo”, era pronto dall’altro a fare della religione un uso strumentale; anche perché era fermamente convinto del fatto che gli uomini non sono uguali tra loro, neppure quando appartengono ad una medesima couche aristocratica. Sentiva che non potevano bastare il voto dei comizi e degli auspicia degli dei a trasformare un incapace o un mediocre in un buon generale; e non si peritava di sostenerlo in pubblico e ad alta voce. Posizione, quella di Scipione, contrastata con energia da Catone il Vecchio per il quale la semplice appartenenza alla schiatta di nobilis rendeva uguali i membri dell’aristocrazia e degni di prendere i gradi di generale di un esercito. Con l’espandersi del potere romano sulle province, crebbe la necessità di moltiplicare il numero dei detentori di imperium al fine di governare le terre lontane. Si innescò così, con il moltiplicarsi dei comandi e con il proliferare delle ambizioni personali, il perverso meccanismo che portò alle guerre civili destinato a concludersi con Augusto e a segnare in via definitiva il trionfo del nuovo regime.
Un regime non a caso definito imperiale proprio in virtù della vocazione, sovente solamente pretesa, dei suoi detentori alla vittoria. Si sarebbe in effetti rovesciata allora la precedente prassi repubblicana, sostiene l’autore.
E a quell’atto che aveva per l’addietro insignito del titolo meramente onorifico di imperator un detentore che, avendo onorato il comando con insigni vittorie sul campo, aveva dimostrato il favore divino nei suoi confronti, si sarebbe sostituita, secondo una concezione e una procedura nuove, una proclamazione che riconosceva in se stessa al prescelto la vocazione alla vittoria e il possesso dell’imperium, oltretutto nella sua accezione più ampia, un potere più sostanziale.
Dei più grandi tra quanti sfiorarono il successivo potere assoluto si è detto che Silla non volle; che Pompeo non seppe; che Cesare volle e seppe. Su quest’ultima affermazione dello storico Giannelli (1965), Brizzi ritorna per individuare nel carattere e nelle azioni di questi personaggi, soprattutto di due di loro, i segni peculiari, le tappe fondamentali del percorso della storia imperiale di Roma. Silla e Cesare furono per Brizzi “simili eppure allo stesso tempo così opposti da costituire quasi le facce speculari di una divinità bifronte”.
Lucio Cornelio Silla fu una figura del tutto singolare nel panorama dell’ultima repubblica perché il corso delle sue scelte, volto a riformare gli ordinamenti nell’intento di salvarla e non di sopprimerla, procedette a ritroso, in controtendenza rispetto alle ambizioni personali di ogni altro, di Cesare in primis.
La dittatura che Silla abbandonò pur avendola saldamente in pugno non preludeva per lui alla conquista di un potere monarchico definitivo, come sarebbe stato poi per Cesare, che l’avrebbe sistematicamente rafforzata e infine irrigidita fino a renderla perpetua e a snaturarne l’ultima essenza.
Molto interessanti sono le pagine che Brizzi dedica al ruolo della filosofia nel dibattito sulla essenza della res pubblica. Se Tiberio Gracco aveva avvertito il peso dell’insegnamento di Blossio da Cuma, “cinico e votato alla dottrina che esaltava la sovranità popolare”, Cesare era epicureo; mentre gli optimates aderivano in massima parte ad un variegato stoicismo, dall’eclettico Cicerone a Pompeo, amico come lui di Posidonio, il maggior pensatore dello stoicismo medio, come era stato senza dubbio anche Catone, “il più nobile tra i repubblicani”.
Il percorso tracciato mirabilmente tra Giovanni Brizzi si snoda attraverso le tappe significative e fondamentali connotate dalla sorprendete ed eccezionale opera di Augusto, con la Pax Augusta che pone fine alle guerre civili e avvia un’epoca di grandi riforme.
Quali siano stati i dubbi e le fantasie di Augusto in alcuni momenti della vita, la via verso il potere monarchico era irrimediabilmente tracciata.
A cesellarne i contorni arriverà più tardi Marco Aurelio cui viene attribuita l’orgogliosa affermazione: “Io ho concepito l’idea di uno Stato democratico, amministrato in uguaglianza e libertà di parola, e di una monarchia che soprattutto onori la libertà dei governati”. Scrivendo il suo mirabile Encomio di Roma il retore Elio Aristide poteva allora sostenere che per merito dell’Urbs l’orbe intera era ormai una sola grande realtà, retta dall’optimus. Per lui Roma, polis essa stessa, rispettava la libertà e l’autosufficienza delle singole città, chiamate ad esserle consortes, compartecipi in piena autonomia, come membri alla pari della compagine imperiale.
Con la dinastia dei Severi il carattere sacrale dell’impero assume una caratterizzazione ancora più forte. Se Augusto era stato il principe a diis electus; se Traiano aveva voluto, nei rilievi dell’arco di Benevento e nella monetazione, apparire investito del potere direttamente da Giove; Settimio Severo era ormai il dominus, e sacra era la sua domus, famiglia e casato insieme idealmente ricollegati alla natura sovrumana della figura imperiale e destinati all’assurgere divino della dinastia.
Illuminante, nel prezioso volume, è infine, la ricostruzione delle origini del Cristianesimo e la posizione dell’apostolo Paolo.
L’idea di far discendere il potere dalla divinità era, come abbiamo visto, presente fin dall’origine nei romani. Ma lo era anche in Oriente, culla di infinite teocrazie. Del pensiero di Paolo si sono cercate di volta in volta le radici e le chiavi interpretative più diverse.
Delle tre anime, l’ebraica, la greca e la romana, “che come in un prezioso intarsio compongono la strabiliante figura dell’apostolo, è l’ultima la meno considerata”.
Tra quanti ne hanno preso in esame la personalità sotto le più diverse angolazioni del pensiero, sia egli filologo o teologo, filosofo o storico delle religioni, sembra non ricordarsi che Paolo era anche un civis romanus.
Su questa non secondaria porzione di identità, Giovanni Brizzi richiama la ricca prefazione ad una recente edizione delle Lettere, curata dal teologo e biblista Giuseppe Barbaglio, secondo cui il merito principale dell’apostolo è stato quello “di aver elaborato una teologia capace di giustificare l’apertura universalistica della Chiesa”.
“Paolo può essere definito il teorico di un universalismo cristiano centrifugo cioè incondizionato”. Intuizione senz’altro brillante, riconosce il nostro autore, ma che non tiene conto del precedente rappresentato dall’universalismo romano.
Ancor più preziosi sono per Giovanni Brizzi, gli stimoli che vengono dalla riflessione di Santo Mazzarino, cui tributa l’omaggio postumo: “a colui al quale tanto debbo, personalmente oltre che sul piano accademico”. Secondo Mazzarino “dopo Gesù (e ancor più chiaramente…dopo l’apostolo Paolo) la storia dell’impero romano è ormai segnata da due parallele: la vicenda dell’impero, di cultura ellenistico-romana, e la vicenda della comunità culturale giudeo-cristiana. Nel primo secolo, le due parallele si distinguono spesso, ma spesso si incontrano.
Dal secondo secolo in poi, le due parallele spesso si confondono: la storia romana è allora la storia di una cultura che si avvia a diventare cristiana nella sostanza (terzo secolo) e infine nella forma costituzionale (quarto secolo). Nell’affrontare il personaggio Paolo e la sua visione, Mazzarino ha saputo forse tra i primi liberarsi da un singolare pregiudizio, a lungo e assai spesso condiviso anche tra gli antichisti, e comprendere come esistesse per davvero un universalismo romano in grado di assorbire, in nome del diritto, i popoli via via conquistati. L’edificio del pensiero paolino è però infinitamente più complesso e ricco di implicazioni e di conseguenze, sottolinea Brizzi.
Con la sua costruzione, destinata a proiettarsi in aeternum, e con la vittoria della sua proposta l’apostolo ha collocato dio nella storia.
Diversamente dai Giudei, nella versione che viene dall’apostolo la teocrazia romana accetta la sovranità rappresentativa e vicariante di Dio in terra. Destinata a divenire atemporale, la formulazione dell’omnis potestas a Deo finirà col proiettarsi, immutabile in prospettiva, attraverso i secoli.
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