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Un libro per amico

A cura di Silvano Moffa


A pochi mesi dalla scomparsa di Pietro Citati arriva in libreria per le edizioni Adelphi La ragazza dagli occhi d’oro, una raccolta di testi pubblicati su vari quotidiani da uno dei più prolifici romanzieri della moderna letteratura italiana. Fu Citati un vero esploratore della letteratura, un appassionato divoratore di libri, lettore quasi maniacale. “Se penso alla mia vita – scrive – e ai mie quasi novant’anni, non posso che esaltare la lettura. Ogni libro che leggevo era una forma dell’infinito, che inseguivo, e inseguivo, e fallivo continuamente nell’inseguire”.

Scrittore poliedrico, Citati si cimentò con straordinario successo nella saggistica e nella biografia di grandi scrittori: da Manzoni a Kafka, a Goethe. Tolstoj, Katherine Mansfield, Giacomo Leopardi. Cultore dei miti dei popoli antichi e della Grecia ha lasciato pagine mirabili in cui condensa una scrittura lineare e sopraffina ad una profonda conoscenza della storia, delle dottrine religiose e filosofiche.

Citati fu tutto questo e qualcosa di più. La sua opera letteraria non si esaurisce nella semplice esegesi delle fonti. Pe lui la lettura dell’opera letteraria è suscettibile di variazioni, varia nel tempo. E proprio questo elemento di variazione, di “adattamento” ai cambiamenti scanditi dal tempo, la rende immortale. Da qui scaturisce quel genere biografico del tutto originale che si impone negli anni Settanta, un genere che mescola biografia romanzata e romanzo biografico, dove l’interpretazione del romanzo diviene essa stessa un nuovo romanzo e l’autore assurge a personaggio di un’opera letteraria.

Si pensi alla biografia di Tolstoj, che qui riproponiamo ai nostri lettori, e che, dal nostro punto di vista, ci pare essere una delle più affascinanti avventure introspettive e letterarie di Pietro Citati. Una biografia esemplare di uno scrittore complesso, dal carattere altrettanto complesso, la cui vita viene narrata attraverso le sue più grandi e famose opere letterarie.

In Tolstoj Citati ci offre un saggio straordinario della sua capacità letteraria di penetrare nel romanzo cavando significati reconditi, segni indelebili, riflessi stupefacenti dai volti e dalle storie dei singoli personaggi che affollano la scena, personaggi che entrano ed escono dalle storie Tolstojane con perfetta sincronia.

Raccontando Tolstoj attraverso le sue opere, Pietro Citati ne esalta lo spirito letterario non concedendo alibi ai suoi critici. “Quando gli studiosi di Tolstoj – scrive – lamentano le scarse letture storiche che egli fece prima di scrivere Guerra e Pace, mi viene in mente un aneddoto raccontato da Henry James. Una narratrice inglese aveva ricevuto molte lodi per la ricostruzione che, in uno dei suoi racconti, aveva saputo dare del mondo calvinista francese. Quando le chiesero in quali libri avesse appreso tante notizie di un argomento così poco conosciuto, in quale biblioteca si fosse così scrupolosamente documentata, la scrittrice diede una strana risposta. Mentre abitava a Parigi, era passata davanti alla porta aperta della casa di un pastore: dopo aver finito di mangiare, alcuni giovani protestanti erano seduti innanzi alla tavola imbandita, con i bicchieri dove splendeva l’ultimo vino. Quella occhiata le bastò: simile a un ragno che lavorava con i fili della seta più sottile, la mente aveva afferrato lo sguardo fulmineo, il piccolo suggerimento di un istante, trasformandolo nella stoffa di un racconto. Credo che Tolstoj avrebbe amato questo aneddoto. Scrivendo Guerra e Pace, anche lui si servì (sebbene non esclusivamente) di una documentazione impalpabile, fatta di ricordi famigliari, di antiche letture, di vibrazioni dell’aria”. Secondo Citati, Tolstoj non desiderava rievocare in modo minuzioso e prezioso l’età storica dei suoi nonni, raffigurando vestiti, ambienti, figure, come avrebbe fatto un romanziere di vocazione antiquarie. Non poteva tollerare la fatale distanza che la storia avrebbe fatto scendere tra lui e i suoi personaggi: aveva bisogno di averli sotto gli occhi, in “quell’ideale presente che costituisce il tempo della sua mente”. Rispetto al “gusto olandese dei Promessi Sposi”, se doveva rievocare il tempo passato, lo scrittore russo faceva come Strevenson che “con un solo tricorno, una sola parrucca candida, una tabacchiera e dei codini incatramati risuscitò dal nulla il Settecento dei gentiluomini e dei pirati. Anche lui si accontentò di un leggero odore 1805, di un delicato profumo 1812; e, come nell’Isola del tesoro, noi siamo subito trascinati, ci sentiamo subito contemporanei di Napoleone e di quei tempi romantici”.

Tra queste leggerezze di odori e profumi, Citati offre a quest’opera di Tostoj un taglio interpretativo e letterario unico, possente, suggestivo.

“Il campo di Austerlitz è l’osservatorio più alto, che Tolstoj abbia costruito in Guerra e Pace: lo sguardo che il principe Andrej getta da esso sul mondo è più largo e vasto di quello che egli acquisterà dalla sua esplorazione del regno della morte. Non saprà più vivere a questa altezza, come aveva sperato, disteso sul campo di battaglia, sotto gli occhi vanitosi di Napoleone. Il suo destino è il medesimo di tutti i personaggi principali di Tolstij: Natasa, Pierre, Levin, Anna Karenina, i quali conoscono tutti il culmine della vita nel corso di una rivelazione estatica, di una illuminazione extratemporale, che interrompe il corso della loro esistenza e della narrazione. In quell’istante rapidissimo e fuggitivo, gustano una ‘goccia d’eternità’, che colma per sempre la loro mente e il loro cuore. Ma questi momenti non hanno alcun rapporto col tempo. Non è possibile storicizzarli. Disporli nel corso continuo e graduale di un’esistenza, come tappe di una carriera che deve condurli sempre più avanti e lontano. Essi sono folgoranti e istantanei come la luce cui Dio si manifesta ai suoi iniziati. Poi ritorna la vita, col suo tempo progressivo e le sue convenzioni; e il grande attimo si volatizza, non lascia più tracce, non viene messo a frutto, o lascia soltanto un ricordo fugace e intermittente, come il cielo di Austerlitz nella mente del principe Andrej”.

Tolstoj fu sempre attratto, racconta Citati, dall’ignoto paese della morte: sempre interrogò e bussò a quella porta, dietro la quale gli pareva risiedesse il supremo segreto dell’universo. Cosa c’è là dietro? Cosa capiamo della morte, prima di morire? Con quali sguardi ci guardano i morti? E con quali sguardi guardano sé stessi e il loro paese? Era l’unica scienza che avrebbe veramente voluto possedere: la invidiava ai defunti e ai moribondi. Fu l’unico sogno che il destino gli proibì di realizzare; e allora scrisse sempre di nuovo intorno a quel punto, come se le parole riuscissero a rivelargli quel che gli occhi non potevano contemplare. La morte era per lui, l’unico altro, che forse noi abbiamo la possibilità di conoscere: il suo interesse non era fisico, ma grandiosamente metafisico. La morte non è un vuoto, un negativo, il rovescio della vita, un’assenza: ma una realtà radicalmente diversa, qualcosa di oscuramente pieno, che occupa il posto occupato dall’esistenza. Dicevamo all’inizio che Citati rende la biografia dello scrittore una nuova opera letteraria. E, proprio nell’interpretazione di Guerra e Pace ci offre la chiave per penetrare in profondità il capolavoro di Tolstoj. “Come ogni grande libro, possiamo leggere Guerra e Pace per quello che sembra dirci. La superficie ci incanta: seguiamo il destino degli innumerevoli personaggi, entrando in un salotto, soffrendo la passione d’amore, visitando il quartier generale, conoscendo i disastri e le insensatezze della guerra, godendo le gioie dell’ironico lieto fine, attraverso una lettura orizzontale, infinitamente meticolosa. Possiamo, al contrario, considerare la superficie romanzesca come un velo, dietro il quale si cela una verità segreta: allora concentriamo la nostra attenzione su alcuni punti, che ci sembrano nascondere uno spessore più intenso; e Guerra

e Pace ci apparirà uno dei supremi romanzi simbolico-filosofici del secolo scorso”.

Tolstoj lavora con il materiale che ha saccheggiato nei libri degli storici e nelle memorie dei contemporanei; e, nel suo ingegnosissimo gioco di montaggio, si permette molte libertà, come quando attribuisce al Napoleone del 1812 delle abitudini che conosce dal Memorale di Las Cases, e che quindi risalgono al periodo di Sant’Elena. Un altro scrittore sottolineerebbe la propria parte di arbitrio, il proprio gioco rispetto alla storia reale. Tolstoj fa tutto il contrario. La “storia vera” della Russia del 1812 non è quella che racconta Thiers, lavorando mediocremente e onestamente sui documenti: ma è quella che racconta lui, con i suoi Kutuzov, coi suoi Denisov, coi suoi Nikolaj Rostov, coi suoi Lavruska. A lui appartiene non soltanto la verità poetica ma anche la verità storica. E tutta la storiografia è semplicemente tolta di mezzo.

Colpisce nella biografia dedicata a Tolstoj il giudizio che Citati ha maturato sulla catena degli avvenimenti storici. Qui l’autore si immedesima nel protagonista del saggio e ne assimila la pulsione contaminatrice. In quella catena degli avvenimenti, spiega Citati, la qualità della vita privata non rivela o rivela con minore intensità e violenza. La storia è dunque uno stretto “ordito di necessità”: un concatenarsi di infiniti fenomeni necessari, come una tempesta consiste nel concatenarsi di infinite onde, tutte mosse dal vento, che agiscono l’una sull’altra.

Attraverso le opere di questo grande scrittore Citati disegna i tratti salienti di un carattere spesso scorbutico, a volte despota nei rapporti familiari, con la moglie amorevolmente intenta a riscrivere in bella copia le narrazioni gettate giù nell’impeto creativo che assaliva lo scrittore isolandolo dal mondo esterno in un vortice di incomunicabilità nelle lunghe mattinate intense e solitarie, e le figlie verso cui nutriva una gelosia talmente eccessiva da condizionarne la vita. Da quella mente geniale, dopo Guerra e Pace, sono venute opere strutturate come Anna Karenina, Resurrezione e romanzi brevi come La morte di Ivan Il’ic, Il diavolo, Denaro falso per citarne solo alcune.

Bellissime le pagine in cui Citati, con regale maestria, affonda la penna nell’animo del grande scrittore ormai agli sgoccioli della di vita. “Come quando aveva quindici anni, Tolstoj pensava che il tempo e lo spazio non fossero che realtà sostanziali ma delle semplici forme della nostra mente.

Non le aveva mai amate. Credeva che fossero il sogno della fatale inferiorità dell’intelligenza umana, che può pensare solo attraverso di loro, e non riesce ad immaginare l’infinito. Eppure era convinto che, malgrado il carcere di queste barriere, la suprema scintilla del nostro spirito fosse extratemporale ed extraspaziale; e si sforzava di pensare senza di esse. Negli ultimi anni, aveva perduto la memoria: non ricordava il suo passato, i suoi scritti; e ne era felice, perché gli sembrava di essersi finalmente liberato dalla vecchia catena….Continuava a pensare alla morte, che dopo tanti anni gli sembrava qualcosa di paradossale e di inspiegabile. Morire era assurdo. Ora ne accarezzava morbosamente il pensiero, se ne compiaceva e se ne avvolgeva: ora temeva di morire, ora lo desiderava: ora sognava una fine dolce e soave, ora temeva che, morendo, Dio si sarebbe spento in lui; ora, guardando la natura, l’erba fresca sotto i piedi, stelle in cielo, profumo di citiso in fiore, trilli di usignolo, ronzio di scarabei, gridi di cuculo, pensava che, dall’altro lato, avrebbe trovato la stessa esuberanza vitale. Prima di andare a letto, scriveva sul diario: “Se domani sarò vivo”, “Se sarò vivo”.

E l’indomani “sono vivo”. Ogni giorno era per lui un brandello di tempo strappato alla morte; lo viveva come se fosse l’ultimo, dimenticando il passato e il futuro; lo viveva come un miracolo”.


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