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Un libro per amico

A cura di Silvano Moffa




"Totalitarismo 100", Emilio Gentile, Salerno Editrice

Fra le tante parole usate per definire i regimi politici, ce n’è una che ancora oggi appare controversa e che, per un certo lasso di tempo, tra gli anni Sessanta e Settanta, è andata in disuso. C’è stato persino chi ne ha invocato la soppressione. La parola in questione è Totalitarismo. Nel 1968 un collaboratore di un’autorevole enciclopedia di scienze sociali, Herbert J. Spiro, nella conclusione della voce Totalitarismo scritta per la seconda edizione dell’International Encyclopedia of Social Sciences, auspicava che “nella terza edizione non ci fosse una voce Totalitarismo”.

In quello stesso anno, un’analoga proposta fu fatta da uno storico inglese, Stuart J.Woolf, per il termine “fascismo”: “ Forse la parola fascismo, almeno temporaneamente, dovrebbe essere bandita dal vocabolario. Come altra parola dal significato molteplice – tipo: democrazia, reazionario, radicale, anarchia – essa è stata usata così a sproposito da aver perso il suo significato originario; se non altro, il termine fascismo è stato in tale misura caricato di accezioni nuove e più ampie che, per essere inteso nella sua accezione originaria, sembra ormai esigere dallo storico che lo si scriva tra virgolette, quasi a scusarsi”.

Emilio Gentile, autore di molti e approfonditi studi sul fascismo e sul totalitarismo, offre al lettore un acuto saggio in cui indaga sulla parola totalitarismo prendendo spunto da Misone, annoverato da Platone tra i sette saggi. Misone diceva: “Indaga le parole a partire dalle cose, non le cose a partire dalle parole”. In forza di tale insegnamento, Gentile ricostruisce la storia della parola totalitarismo partendo dalla cosa fascismo. Non senza, prima, togliersi qualche sassolino dalla scarpa: “Non risulta che mai sia accaduto, nella storiografia, che una parola e un concetto, entrambi generati da una nuova realtà storica e adoperati per definirla, abbiano indotto qualche studioso a concludere con la richiesta di messa al bando del concetto e del termine stesso, perché sono diventati oggetto di controversie perdendo un significato condiviso. Se tale condizione fosse sufficiente per decretare la messa al bando di un concetto storico, dovrebbero essere eliminati dalla storiografia concetti altrettanto controversi come dispotismo, dittatura, libertà, rivoluzione, feudalesimo, capitalismo, democrazia, repubblica, bonapartismo, liberalismo, conservatorismo, socialismo, comunismo, radicalismo, e tutti gli altri ismi della storia”.

Siffatto negazionismo concettuale, con l’incalzare della recente moda della cancel culture (‘cultura della cancellazione’), secondo Gentile potrebbe portare, per quel che attiene al “totalitarismo”, ad un’operazione di cancellazionismo storico per eliminare sostantivo e aggettivo da tutte le opere in cui compaiono perché, come asserì nel 1969, uno studioso di scienze sociali, il totalitarismo “è privo di un elemento ontologico essenziale”.

Le parole “totalitario” e “totalitarismo” fecero la loro comparsa nella storia un secolo fa, riferite e associate al fascismo dopo la sua ascesa al potere nell’ottobre del 1922. Ad usare per primi questi termini furono gli antifascisti, senza mai riferirli all’ideologia del fascismo, ma al solo fine di denunciarne l’azione pratica, compiuta come partito e come governo, per consolidare il potere conquistato, adoperando squadrismo e repressione e disponendo l’interdizione delle attività dei partiti avversari. Al contrario, successivamente, “attraverso l’adozione mussoliniana, la parola totalitario assunse un significato più ampio, perché da allora non designò soltanto un sistema, un modo di agire, un metodo, ma indicava anche un programma: ‘Il Regime, assicuratesi le leggi per la sua difesa, varerà le leggi per la ricostruzione che inseriranno nello Stato il programma totalitario della nostra Rivoluzione’.

Per “restituire il concetto del totalitarismo alla realtà storica del fascismo”, Emilio Gentile ripercorre nel saggio le fasi più importanti e incisive dell’ascesa di Mussolini al potere, analizzando alcuni momenti essenziali nel passaggio dal “fascismo movimento” al “fascismo regime”. Le varie tesi degli storici vengono sviscerate e approfondite con puntigliosità scientifica e le vicende politiche vengono narrate ripercorrendo scritti, dichiarazioni, stati d’animo, sensazioni, dubbi e chiaroveggenze dei protagonisti dell’epoca. Furono in pochi a prendere il fascismo sul serio, ricorda Gentile. E alla domanda se Mussolini e il partito fascista, quando ottennero il potere con la “marcia su Roma”, sapessero quello che volevano, domanda non banale, lo storico cita gli studi di Alberto Aquarone, Renzo De Felice, Ernesto Ragionieri, Roberto Vivarelli.

Alberto Aquarone nel 1965 affermò che il fascismo al potere mosse i “primi passi nel segno dell’incertezza”, e solo dopo il delitto Matteotti decise di imporre la “dittatura a viso aperto”. Nel 1966, Renzo De Felice affermò che dopo la “marcia su Roma” Mussolini non aveva “una chiara volontà autoritaria”; neppure il fascismo, secondo De Felice, “aveva una propria chiara alternativa “ allo Stato liberale, anche se era contro la libertà che “aveva contrassegnato lo Stato postunitario e soprattutto postbellico”, perché “i suoi capi più responsabili, in primo luogo Mussolini” chiedevano soltanto una “maggiore autorità all’esecutivo”, “senza mettere in discussione le fondamenta dell’assetto costituzionale e parlamentare”. Ragionieri confermò questi giudizi, affermando che il fascismo, dopo la “marcia su Roma”, diede inizio “ad una ristrutturazione del blocco di potere dominante in Italia: essa non ubbidì fino dal principio ad un piano preciso, quasi che avesse in se stesso, chiari ed espliciti, i fini che doveva successivamente conseguire”. Nel 2001, Roberto Vivarelli sostenne che quando giunse al potere, il fascismo non aveva “ancora assunto una sua precisa fisionomia”, tanto che nel “suo primo anno di vita come forza di governo il fascismo rimaneva ancora una nebulosa di assai incerta definizione”.

Secondo questi storici, annota Gentile, il regime e il partito unico instaurato in Italia dal fascismo furono il prodotto di decisioni improvvisate in circostanze impreviste, fortunose e fortunate, piuttosto conseguenza della debolezza degli avversari che risultato dell’attuazione di una consapevole volontà di dominio.

Il termine totalitario comparve, coniato forse per la prima volta, in un libro di Luigi Sturzo, Riforma statale e indirizzi politici, pubblicato all’inizio del 1923. Nell’introduzione, il fondatore e segretario generale del partito popolare italiano, espose i motivi dell’avversione del suo partito per la concezione e l’azione dello Stato moderno come “assoluto morale o primo etico della società”, che si era affermato nel corso dell’Ottocento, fino alla Grande guerra, “in funzione di una iper-valorizzazione statale” come sintesi assoluta di tutte le categorie. Ma è soltanto più tardi, quando sarà costretto a lasciare la segreteria del partito popolare, commentando la crisi interna del fascismo caratterizzata dal confuso contrasto ideologico fra gli intransigenti integralisti e i revisionisti di varie gradazioni, pur accomunati dalla condivisione della identificazione del fascismo con la nazione e lo Stato, Luigi Sturzo scrive :” era chiaro e logico che essi (i fascisti) vogliono un governo di partito, e intendono il loro partito come maggioranza espressa o tacita del paese, anzi ritengono che il proprio partito si confonda con il regime e con lo Stato”. “Il sacerdote siciliano – scrive Gentile – insisteva nel denunciare la volontà fascista di monopolizzare il potere sperando di scuotere i liberali e i democratici fiancheggiatori dalla loro illusione di poter esercitare un’influenza moderatrice su Mussolini, e indurre il fascismo a lasciarsi integrare nell’ordinamento costituzionale”. Nello stesso tempo, Sturzo era convinto che il persistente dualismo fascista tra costituzione e rivoluzione non avrebbe potuto reggere in un perpetuo equilibrio.

Fatto sta che per capire esattamente che cosa fosse il “totalitarismo” bisogna scorrere le pagine del libro dedicate al periodo che intercorre tra il delitto Matteotti (10 giugno 1924) e il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 con il quale il Duce rese palese il suo progetto rivoluzionario. Nell’estate e nell’autunno del 1924 quasi tutti gli antifascisti ritennero che il regime mussoliniano fosse ormai al capolinea. Filippo Turati scriveva ad Anna Kuliscioff: “Ormai il regime è minato…La baracca si sfascia”. Dello stesso parere Giovanni Amendola: “Gli avvenimenti precipitano. Il regime fascista ha ricevuto un colpo terribile”. Su “La Stampa” Luigi Ambrosini parlava di “Caporetto del fascismo” e Salvemini, con altrettanto ottimismo, riteneva che la “belva” fascista fosse ormai ferita a morte e destinata a tramontare in tempi rapidi. Si sbagliavano, evidentemente.

Nel maggio del 1926 fu pubblicato a Londra, in inglese, il libro Italia e fascismo, scritto da Sturzo all’inizio del suo esilio in Inghilterra, e subito tradotto in francese, tedesco e spagnolo. Il libro era uno dei primi tentativi di storicizzazione e di interpretazione organica del fascismo, dalle origini al 1925, esaminato nel quadro della storia dell’Italia unita. L’attenzione di Sturzo era rivolta soprattutto a mettere in risalto la novità del fascismo come partito armato che era giunto al potere con un atto insurrezionale, dimostrando che fin da allora i fascisti avevano operato per concentrare il potere statale nel partito, e imporre il loro dominio su tutto il paese: “Questa tendenza fu detta ‘totalitaria’. La teoria è che il fascismo, divenuto nazional-fascismo è tutto”

La pubblicazione del libro di Sturzo, seguita da importanti recensioni sulla stampa straniera, fu probabilmente il veicolo col quale le parole di nuovo conio, “totalitario” e “totalitarismo” entrarono in circolazione in Europa nella seconda metà degli anni Venti. Nel 1926, il giurista tedesco Hermann Martin notava la tendenza nell’opinione pubblica di vari paesi a invocare la dittatura di uomini forti per far fronte alla crisi del liberalismo parlamentare, guardando a Mussolini come modello: “I fascisti sono diventati padroni del potere in Italia, il loro sistema si chiama totalitarismo fascista”. La diffusione della parola, dopo il 1926, non fu accompagnata dalla elaborazione del concetto. Anche se i confronti fra il regime bolscevico e il regime fascista divennero sempre più frequenti negli studi sul fenomeno delle nuove dittature che proliferarono in Europa dopo l’avvento del fascismo al potere. Fu solo nel 1933, con l’avvento del nazionalsocialismo al potere e la nascita di un nuovo regime a partito unico che gli studiosi osservarono le affinità tra i tre regimi, accumunati nel corso degli anni Trenta come Stati totalitari, e iniziarono ad elaborare il concetto di totalitarismo politico. Tuttavia, con il crescere della letteratura sul totalitarismo si smarrì la conoscenza di dove, quando e come la parola e il concetto erano nati. Non era smarrimento di poco conto, sottolinea Emilio Gentile, perché non lieve è stato il danno che l’ignoranza delle origini della parola e del concetto hanno prodotto per la comprensione del fenomeno che all’una e all’altro aveva dato origine.

Nel 1968, lo storico Walter Laqueur si domandava: “C’è ora, o c’è mai stata, una cosa come il totalitarismo?”, ricordando che la rivista accademica tedesca “Neue Politische Literatur”, in una rassegna sul tema, aveva osservato che il concetto di totalitarismo era “in uno stato di agonia”. Dieci anni dopo, ricordava ancora Laqueur, la stessa rivista pubblicò una nuova rassegna sullo stesso tema, che aveva per titolo Rinascita del concetto di totalitarismo?. Laqueur, per parte sua, riteneva, con fondate ragioni, che in una prossima rassegna, il punto interrogativo sarebbe stato tolto.


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