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Afghanistan, spettatori di un disastro annunciato

Dopo il ritiro delle truppe americane e il ritorno dei talebani il paese è allo sbando.

Il 15 Agosto scorso assistevamo allo scenario peggiore e purtroppo più probabile che avremmo potuto prevedere per l’Afghanistan.

I principali palazzi del potere a Kabul venivano definitivamente occupati dai talebani, che già da settimane avanzavano rapidamente conquistando le maggiori città del Paese, annunciando l’imminente istituzione dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan.

Proprio in quei giorni, infatti, le ultime truppe americane ancora presenti sul territorio venivano fatte rapidamente rimpatriare, a seguito della decisione della Casa Bianca, che inizialmente aveva individuato la data dell’11 Settembre come termine ultimo per il loro ritiro dall’Afghanistan – con un macabro richiamo simbolico al ventennale dell’attentato – poi anticipato al 31 Agosto dello stesso anno.

Tuttavia, se il “ritiro senza condizioni” delle forze armate americane pesa inevitabilmente e negativamente sull’immagine internazionale del nuovo presidente americano, c’è da dire che gran parte delle responsabilità vanno fatte risalire agli accordi di Doha del Febbraio 2020, fortemente voluti dall’ormai ex presidente Trump.

Questi avevano visto protagonisti di un negoziato storico nella capitale qatariota il rappresentante speciale americano e il mullah Baradar, portavoce dei talebani, oggi vice-Primo Ministro del nuovo governo ad interim, istituito lo scorso 7 Settembre dai talebani stessi.

Con l’arrivo di Biden, la conferma degli accordi presi a Doha ha portato con un effetto domino al ritiro di tutte le forze armate internazionali, lasciando così l’Afghanistan privo dell’appoggio internazionale, che oramai svolgeva principalmente una funzione di supporto psicologico.

In questo modo gli Stati Uniti hanno messo fine alla guerra più longeva della loro storia, iniziata nel lontano 2001 a meno di un mese dagli attacchi terroristici di New York e Washington DC.

Il ritiro americano dall’Afghanistan si pone come uno dei più grandi fallimenti della storia americana sia militare che diplomatica, che come spesso accade, porta le sue conseguenze lontano dall’America.

Ad oggi, l’Afghanistan è vittima di un collasso istituzionale, economico ed umanitario senza precedenti, forse secondo solo a quello di quasi trent’anni fa, quando i talebani erano riusciti ad arrivare al potere nel Paese e governare secondo le leggi della shari’a, la “buona condotta” islamica.

Ma i tempi sono cambiati, e con loro anche il nemico islamico storico.

Se inizialmente il punto interrogativo più grande riguardava la spiegazione del capitolare così rapido della resistenza afghana, preparata ed equipaggiata oramai da anni dalle forze armate statunitensi, oggi il quesito decisamente più dibattuto guarda in avanti, e coinvolge l’intera comunità internazionale.

È, ad oggi, possibile un dialogo con le forze islamiche?

È chiaro che gli studenti coranici hanno imparato dalla loro ultima esperienza, sanno che per sopravvivere come gruppo (anche) politico necessitano di una legittimità internazionale, non possono permettersi un isolamento dal contesto globale. Sanno che devono in qualche modo dimostrare al mondo che anche loro sanno adeguarsi alle novità del tempo.

Anche perché bisogna ricordare che gran parte del sostentamento economico afghano è frutto degli aiuti finanziari internazionali, oggi congelati dal Fondo Monetario Internazionale a causa della poca chiarezza sulla strategia di governo dei talebani.



Il punto chiave non è, infatti, se sia possibile o meno un dialogo.

Questo dialogo c’è stato, o perlomeno una sua parvenza.

Le forze islamiche, sotto i riflettori della comunità internazionale si sono mostrate disposte ad accondiscendere al dialogo e al compromesso, fermo restando i limiti imposti dalla shari’a islamica.

Il problema si pone nel verificare come questa “struttura” venga poi calata nella realtà afghana.

Si pensi all’obbligo del burqa per le donne, che ufficialmente non esiste, ma di cui ne è consigliato l’uso per la loro incolumità; si pensi al divieto per le stesse di lavorare, ufficialmente proposto come “consiglio”, per le suddette motivazioni.

Si pensi ai numerosi episodi di terrorismo, di cui purtroppo abbiamo sempre meno notizia, vista la scarsa presenza di testimonianze in loco.

Si pensi alle innumerevoli occasioni in cui i talebani stanno a poco a poco rimangiandosi le promesse fatte.

Oltretutto, c’è da considerare anche che se è sempre più difficile gestire gli eventi nelle grandi città, possiamo soltanto immaginare cosa succeda nelle piccole province.

Per giunta, l’Afghanistan resta un Paese mediamente giovane, con il 60% circa della popolazione che non supera i 25 anni e che non ha la minima idea di cosa voglia dire vivere sotto il regime coranico.

L’economia afghana è oramai allo sbando, e la situazione si sta trasformando di giorno in giorno in un’emergenza umanitaria sempre più grande, vista anche la stagione invernale di cui si è solo all’inizio.

Il 21 Dicembre a Washington si terrà un incontro tra il rappresentante ONU Martin Griffiths e il Sottosegretario di Stato Antony Blinken per discutere dell’emergenza in corso.

Purtroppo, nonostante gli sforzi, il rischio è che si ripetano i vecchi errori del passato e a pagarne le conseguenze sia un Paese che già per decenni è stato vittima di strategie male impostate e pedina di un gioco più grande, in cui tutti sembrano mossi da buone intenzioni, a patto che non ci siano interessi più grandi da difendere.

E nel contesto di queste nefandezze, a trarne giovamento è il “progetto sgangherato” dei talebani che, paradossalmente, in questo caos trova la sua piena realizzazione.


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