Non sono mancate le polemiche in queste due settimane di discorsi e negoziati tra i 198 Paesi (197 Stati più l’Unione Europea) che lo scorso 30 novembre si sono incontrati ad Expo City, a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, e hanno preso parte all’annuale vertice (giunto alla sua ventottesima edizione) incentrato sull’azione per il clima.
La Conference of Parties (Conferenza delle Parti sul clima delle Nazioni Unite) è oramai da anni l’appuntamento internazionale più atteso, fissato per poter tirare una riga sui risultati ottenuti in materia di lotta al cambiamento climatico e transizione ecologica globale; per poter stabilire una direzione e una strategia comune per l’impegno di tutti i Paesi, nel corso degli anni a venire, nella lotta al riscaldamento globale, con particolare riferimento all’impegno preso negli Accordi di Parigi del 2015 di contenere l’aumento delle temperature globali entro 1,5° C, rispetto ai livelli preindustriali.
Una partenza in salita quella del summit che si appena concluso. Sarà perché il 2023 è stato l’anno più caldo di sempre, sarà che il Segretario Generale dell’Onu ha ulteriormente evidenziato una prospettiva più che tetra per il futuro prossimo del pianeta, parlando di un aumento delle temperature globali che si avvia verso i 2,6 gradi (ossia quasi il doppio rispetto al limite auspicato per poter tenere a freno il cambiamento climatico).
Sarà che la leadership della conferenza di quest’anno è toccata proprio agli Emirati Arabi Uniti, che guidano la fetta di maggiore produzione di petrolio al mondo: un onere alquanto criticato tra gli attivisti e le associazioni ambientaliste. Spicca il commento di Greta Thunberg che ha infatti definito “una scelta ridicola” quella di affidare l’incarico della presidenza al Presidente Al Jaber che, tra l’altro, è CEO della Adnoc, l’azienda statale petrolifera di Abu Dhabi.
Molto scalpore è nato anche per via dell’elevata presenza di rappresentanti dell’industria petrolifera al vertice: secondo la ong Global Witness parliamo di circa 2500 su 80 mila partecipanti. Non proprio una percentuale insignificante, per un evento incentrato sull’abbandono proprio di quelle fonti che risultano nocive per il benessere del pianeta.
Oltretutto, questa “pressione” non ha potuto che confermare i timori diffusi, al momento decisivo dell’approvazione del documento finale. Il 13 dicembre infatti - con ritardo rispetto alla prevista conclusione della conferenza (fissata inizialmente per il 12 dicembre) - il Presidente Al Jaber presenta ai Paesi l’accordo per sottoscrivere i nuovi impegni contro la crisi climatica, annunciando l’approvazione di tutti i 198 Paesi per la transizione dai combustibili fossili entro il 2050, lasciando con l’amaro in bocca la maggioranza dei Paesi partecipanti che avrebbero spinto per una posizione ancora più drastica del testo approvato – in particolar modo Paesi occidentali e Paesi dell’America Latina che stanno risentendo particolarmente degli effetti del surriscaldamento globale - puntando a parlare di una vera e propria “eliminazione graduale” dei fossili (il cosiddetto phase out). Una posizione prevedibilmente ostacolata da alcuni dei Paesi arabi – capitanati dall’Arabia Saudita, non a caso il maggior esportatore di petrolio al mondo - che hanno visto in questa posizione un “attacco aggressivo” e un tentativo dei paesi occidentali di dominare l’economia mondiale attraverso il passaggio alle energie rinnovabili.
Cosa si salva allora da queste settimane? Si parla quindi di un (ennesimo) fallimento internazionale?
Sicuramente c’è da dire che a ridosso dell’appuntamento fissato dagli obiettivi dell’Agenda 2030 si poteva sperare in qualcosa in più, un approccio più drastico e meno “politico”, ma non è tutto da buttare.
Sebbene la proposta iniziale avanzasse l’ipotesi di una eliminazione netta (in termini decisionali) delle fonti di inquinamento, è interessante notare come per la prima volta un testo della Conferenza citi l’espressione “combustibili fossili” e specifichi la necessità di triplicare la capacità di energia rinnovabile a livello globale, accelerando gli sforzi verso il graduale allontanamento dalle fonti a carbonio.
Inoltre, per la prima volta viene riconosciuto il giusto contributo all’energia nucleare alla decarbonizzazione, inserendola tra le tecnologie a zero e basse emissioni su cui puntare per l’accelerazione di questi sforzi, al fianco delle rinnovabili e delle tecnologie di abbattimento e rimozione come la cattura, lo stoccaggio e l’utilizzo del carbonio nei settori cosiddetti hard to debate, ossia “difficili da abbattere”, e anche la produzione di idrogeno a basse emissioni di carbonio.
Da considerare anche l’istituzione del Loss&Damage, il fondo che grazie alla gestione dalla Banca Mondiale è volto a sostenere i Paesi più poveri che sono stati maggiormente colpiti dalla crisi climatica. Annunciato già nel primo giorno del summit, è forse il risultato più grande per l’orgoglio italiano, dopo l’annuncio della premier Meloni che ha promesso lo stanziamento di 100 milioni di euro, portando l’Italia in testa ai contributori del fondo, insieme ad Emirati, Francia e Germania.
Bene anche per quanto riguarda il settore food ed agricoltura, per cui è stato firmato un accordo da 134 Paesi per far si che il settore venga integrato nei vari piani climatici nazionali.
È da considerare infatti che questo settore contribuisce in grandissima misura alla produzione di emissioni, oltre che alla cattura del carbonio.
Insomma, due settimane intense che hanno generato pareri discordanti sull’andamento e sulla riuscita di questo incontro.
Sicuramente ciò che è mancato, ancora una volta, è un vero e proprio programma chiaro e formulato step by step che possa in qualche modo guidare in maniera capillare questo percorso di transizione energetica verso un’economia più sostenibile.
Certo è anche da considerare che, a fronte degli accordi presi, i risultati ottenuti sono da considerarsi un vero e proprio compromesso che permetterà – speriamo – di avvicinare diversi interessi apparentemente inconciliabili, coinvolgendo nel processo anche quella fetta di Paesi esportatori di petrolio che, non coinvolti, renderebbero vano ogni sforzo.
Stando ai dati, come ha affermato l’inviato americano John Kerry «questa è l’ultima Cop in cui abbiamo la possibilità di mantenere in vita l’obiettivo di contenere l’aumento delle temperature medie a 1,5 gradi centigradi». Noi ci auguriamo di aver intrapreso la strada giusta.
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