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Cancellare la memoria rende poveri

Il coronavirus s’è portato via la nostra memoria.

Svanita buona parte di essa con i vecchi e gli anziani che soli se ne sono andati privi del conforto dei loro cari e di un addio religioso.

È stato e purtroppo continua ad essere l’“effetto collaterale” più crudele di questa mostruosa pandemia.

Oltre il settanta per cento dei morti tra i settantacinque e gli ottantanove anni.

Erano il sale della terra per chi sapeva vivere la loro presenza come una ricchezza.

Purtroppo, molti hanno chiuso gli occhi attaccati ad un ventilatore, attraverso uno strano tubo, semi-incoscienti, senza poter dire nemmeno una parola.

Gli occhi cercavano qualcosa dietro quella specie di vaso opaco dentro il quale era infilata la loro testa.

Molti sono morti nelle “case di cura”, gli ospizi di una volta che sembra brutto chiamarli così.

Qualcuno è stato fortunato potendo contare sulla benedizione cristiana da parte di chicchessia.

Non li abbiamo visti, naturalmente.

Soltanto le loro bare ci sono state mostrate.

I vecchi hanno chiuso gli occhi portandosi via quel che già poco era apprezzato per via dei costumi del nostro tempo: il piccolo scrigno dei ricordi che la mia generazione custodiva accogliendo i racconti che fuoriuscivano da quelle labbra arse dall’età e ancora capaci, tuttavia, di un lieve sorriso accompagnato ad una carezza.

Tra le molte oscenità imperdonabili al nostro tempo è il disprezzo della memoria, l’assoluto “ingombro” di chi possiede grani di saggezza fastidiosi da raccogliere.

Sì, è vero il cinismo che accompagna le nostre vite ha fatto dei vecchi un “problema”, tranne che per quella pensione che è d’aiuto alle famiglie e che spesso neppure si accorgono di averla ricevuta.

Ma per il resto, che volete importi delle loro antiche emozioni, dei lacerti di vita trascurati, della cantilena dei loro dolori?

Tanti vecchi se ne sono andati ed il nostro è ancor più il tempo dell’oblio.

Incontriamo sulle nostre strade segni che ci sembrano afoni perché non riusciamo ad ascoltarli.

Sono patrimoni la cui eredità nessuno reclama.

Stanno lì, ai margini dell’indifferenza, residui di epoche vicine e lontane che non hanno la forza di attrarre l’attenzione del passante ipnotizzato da un orizzonte indecifrabile.

Con le pietre del passato, ci viene detto, non si costruisce nulla: chissà se la pensavano così gli agonizzanti da coronavirus.

I materiali che si preferisce impiegare sono altri: meno resistenti, più economici, maggiormente malleabili.

Destinati a un deperimento precoce, tanto per non avere l’incombenza della custodia, del restauro, della manutenzione.

E scolora così, nella dimenticanza, il debito tramandatoci da chi ha attraversato il tempo prima di noi. Seppur s’eclissa la bellezza, resta il suo simulacro nell’abbandono cui ci dedichiamo recitando estetizzanti mantra che esaltano l’effimero come destino, tra le cui amorevoli braccia, si dice, inevitabilmente troveremo la quiete.

Neppure l’arte o la musica resistono al vento della corruzione: persistono fino a che dura il lamento, ma non si riproducono nell’aridità di anime sfinite dall’estenuante opposizione alla depredazione di ciò che le rendeva ricche, feconde, seducenti.

L’oblio sta vincendo la sua partita sulla memoria e trafuga qualsiasi cosa non abbia a durare lo spazio di un banale utilizzo.

Come i vecchi morenti.

Economizzare il piacere o il peccato, la virtù o il vizio, la gioia o il dolore è indifferente.

Ricordare è verbo da espungere dal vocabolario della modernità. Perché insopportabilmente osceno di fronte all’infinito nulla cui deve ridursi la vita affinché non abbia obblighi verso la morte e dunque nei confronti della posterità.

Uccidere la memoria equivale a svaligiare il futuro.

La sua essenza, infatti, non è tanto quella di rinnovare il passato celebrandolo nel presente, ma volgersi all’avvenire per fornire i frutti delle esperienze, delle storie, delle passioni alle generazioni future.



È «il ventre dell’anima», diceva Sant’Agostino. Mentre San Tommaso la vedeva come «il tesoro e il posto di conservazione della specie».

Non è, dunque, come si vorrebbe oggi, il retrobottega di un trovarobe di ricordi, ma è energia dinamica, vitale che accompagna l’esistenza e ne amplia la capacità di comprensione davanti al nuovo.

Tanto che Bergson osservava che la memoria «non consiste nella regressione dal presente al passato, ma al contrario nel progresso dal passato al presente.

È nel passato che noi ci situiamo di colpo».

La memoria, della quale i vecchi sono e restano i testimoni viventi, ha cominciato a svanire quando le ombre del sacro si sono ritratte alla nostra conoscenza e la rivelazione della povertà umana non ha armato le coscienze di fronte all’esposizione della sua nudità, ma ha convinto i maestri del pensiero ad ammantarla di orpelli fatui atti a dimostrare che perfino senza un passato, e dunque, senza il riconoscimento del Principio, poteva esserci un avvenire.

Ecco i risultati dell’affermazione della menzogna nel popolo degli immemori.

Le tracce del passato si sono cancellate, la didattica della Ragione non prevede l’immersione nella liquidità delle origini, il sogno del futuro è abrogato dalle consuetudini che sistemano nelle menti l’orrore della memoria soltanto come etereo simbolo di scarnificati predecessori destinati a essere dimenticati in pochi decenni.

La cultura del sepolcro, insomma, è l’alibi per sostenere la fine della storia, e quindi della continuità dello spirito.

La cultura dell’evanescenza prepara il nichilismo, l’approdo al nulla giocando sulla devastazione della memoria fino a negarla perché così l’ossessione ad afferrare ogni cosa, usarla, gettarla, farla diventare rifiuto sollecita il consumo che solo genera passioni al suo livello, cioè a dire dolori e gioie che non durano.

Finzioni, insomma.

Privi di memoria non dobbiamo fare i conti con noi stessi. Perché non dobbiamo tramandare nulla.

E, dunque, siamo esentati dal coltivare obblighi con il passato.

Negandoci questo possiamo essere liberi dall’ossessione del futuro.

Noi, prodotti della civiltà, in realtà contiamo meno di ciò che consumiamo.

ùE il fine che del tutto inconsapevolmente perseguiamo, per quanto orrendo, al punto di non ammetterlo quando ci viene fatto osservare, è la rimozione di noi stessi.

L’oblio totale, assoluto, inappellabile.

La condanna della memoria, sopraffatta dalla dimenticanza, lascia sul campo macerie di ogni tipo.

Ma il tesoro più grande che disperde è l’amore.

Se non si ricorda che l’essere umano è amore incarnato, è più facile accanirsi contro di lui, stravolgerlo fino ad annientarlo, togliergli i rimanenti attributi spirituali e ridurlo a un meccano o, nella migliore delle ipotesi, a una istanza materiale giustificata dalla voracità con cui si avventa su ciò che la natura o il mercato gli mettono a disposizione.

Ma l’amore è dono che non ammette scambio.

La memoria dell’amore è la continuità nel donarsi fino all’estasi in alcuni casi, nella sublime accensione della carnalità secondo canoni normali, nell’avvolgere di carità i bisogni degli umili e dei disperati.

L’amore della memoria è la salvezza della dilapidazione del Creato cui si dedicano con efferata cura gli innumerevoli apostoli dell’apostasia che non ammette il perdono.

La negazione della memoria è l’assassinio indecente dell’anima dei popoli, come l’aborto è il più vile degli omicidi. In entrambi i casi si celebra il trionfo dell’oblio, la fine della storia.

Disonorare i vecchi è come restare indifferenti davanti a chi si affaccia alla vita.

Sanno di andarsene pur volendo restare con chi amano, ma non possono trattenersi.

Avrebbero bisogno di un sorriso, di una stretta di mano, di una parola e magari di un segno di religiosa pietà.

Di questi tempi sono doni preziosi e impossibili.

Se ne sono andati i vecchi senza nome; diventanti numeri da elaborare e confrontare nelle sofisticate statistiche.

E con loro siamo diventati tutti più poveri di memoria, testimoni perfino indifferenti di una tragedia moderna che nessuno avrà voglia di raccontare neppure quando sulle loro sperdute tombe apparirà un fiore, una candela.



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