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Che Guevara, il "segreto" della cattura


Sono trascorsi ormai oltre cinquant’anni da un episodio che segnò la storia del passato secolo, ma che ancora suscita interesse, stupore e ……… divisione. Si, perché anche i giovani di oggi, ma non solo loro, hanno un’ammirazione particolare per il comandante Guevara, il mitico Che che infiamma ancora i cuori dei rivoluzionari dell’universo mondo.

Ormai io che scrivo non sono più tenuto ad osservare il segreto militare, per cui ho deciso di raccontare un episodio della mia giovinezza che mi vide impegnato addirittura ….  a catturare il già mitico Comandante.

Era il 1967 quando fui convocato alla base di Fort Bragg (N. Carolina) insieme a sei sottoufficiali delle forze speciali. Senza tanti preamboli mi fu affidato l’incarico di recarmi, alla guida di quel “commando”, in Bolivia e di scovare e catturare addirittura il Che!

Il nostro paese, già impegnato nell’avventura del Vietnam, non poteva permettere che si accendessero altri focolai antiamericani, cosa che Guevara si prefiggeva con il suo bellicoso invito: “Crear dos tres …. muchos Vietnam es la consigna!”

Rientrato dal Congo dove aveva appoggiato la vittoria di Lumunba, il Comandante proponeva con insistenza la teoria del “focolaio”: per rovesciare la dittatura latinoamericana era necessario innescare un “focolaio” rivoluzionario per liberare le masse dallo sfruttamento capitalista filoamericano.

Ed in disaccordo ormai con il compagno Fidel ed anche con la la linea politica del Cremilino, il Che si era recato in Bolivia per appoggiare la lotta armata anticapitalista dei rivoluzionari locali.

Il suo arrivo fu molto apprezzato dai guerriglieri boliviani, ma non fu gradito ai dirigenti del locale partito comunista, che seguivano una linea riformista ed attendista.

Ma anche gli sfruttati campesinos non seguirono l’invito ad intraprendere la lotta armata!

Erano trascorsi due anni da quando il Comandante aveva lasciato Cuba ed aveva visitato diversi paesi portando l’invito a ribellarsi contro il capitalismo e la feroce dittatura di Barientos Ortuno. La notizia dell’autoesilio del Che fu comunicata proprio da Fidel Castro con una lettera alla nazione.

Alla fine del suo peregrinare il Che si ritrovò a combattere in una terra che in seguito sarebbe stata sempre ricordata come la sua ultima avventura.

E noi americani, essendo nemici dei comunisti, e con l’incarico di catturarne uno davvero formidabile, ci impegnammo a fondo per portare a termine il preciso compito.

Giunti nell’ottobre del 1967 nella capitale La Paz, e dopo un molto riservato incontro con alcuni generali, fummo elitrasportati fino ad una piccola base di Rangers boliviani, all’interno di una giungla afosa e infida.

E subito iniziammo la ricerca di quello che in gergo chiamavamo Leon, anche in considerazione della folta capigliatura.

Per orientarci ed avanzare in quel groviglio di verde fu prezioso l’aiuto di due nostri Berretti Verdi che avevano da poco terminato il loro turno in Vietnam, e quindi erano molto esperti nella conoscenza della giungla e delle tecniche della guerriglia.

Per interminabili dieci giorni fummo impegnati in una febbrile caccia all’uomo, incontrando soltanto silenzio e l’ostilità dei campesinos, che ci odiavano perché sgraditi ospiti al servizio degli sfruttatori capitalisti locali.

Finalmente un giovedì fummo informati che un reparto boliviano era riuscito a trovare tracce dei ribelli ed aveva avuto notizie della presenza del Che.

Appresa la bella notizia, ci rimettemmo immediatamente in cammino per raggiungere i nostri alleati e cercare di porre termine a quella missione, che stava mettendo a dura prova la nostra pur collaudata pazienza.

Orientarsi in quell’oceano di verde non era certo cosa agevole, ma ci impegnammo per giungere quanto prima all’incontro con il leggendario comandante, che i Rangers boliviani stavano portando al campo base.

Grande fu la sorpresa quando ci trovammo di fronte al Che disteso su una panca, inerme ma che ancora suscitava rispetto, nonostante fosse morto.

Il comandante boliviano ci raccontò con molti dettagli le fasi della cattura ma brevemente ci spiegò che il prigioniero era stato ucciso in un tentativo di fuga. Questa versione dei fatti sul momento ci sembrò plausibile, in seguito, ma anche oggi, personalmente nutro dei seri dubbi sull’accaduto.

Ma per noi americani, e con una precisa missione, la morte del Che costituì un insuccesso,  anche se non dipeso dalla nostra volontà o inefficienza.

La stampa e soprattutto le reti televisive mondiali dettero ampio risalto alla morte del Comandante, che divenne ancor più un mito soprattutto per i giovani che l’anno seguente avrebbero inaugurato e dato vita al ’68!

Al nostro ritorno a Forte Bragg, fatto un dettagliato rapporto sull’operazione, fummo elogiati per l’impegno profuso in una delicatissima missione i cui particolari dovevano però rimanere ancora più segreti.

E nessuna TV, né giornale né organo di informazione dette mai notizia di una presenza attiva americana nella vicenda Guevara.

Ma in tutto il mondo ci fu il sospetto che l’intera operazione fosse stata orchestrata dalla potente C.I.A.!

Cosa sarebbe accaduto se fossimo riusciti a portare il Che, prigioniero in America? Neanche chi è vissuto in quei burrascosi anni riesce ad immaginane la scena. Sarebbero intervenuti con pesanti proteste le diplomazie dei paesi comunisti, Cuba e URSS in special modo, ma credo che si sarebbe rischiato un conflitto armato, nonostante le focose manifestazioni di protesta nei vari paesi. In definitiva conveniva a tutti che il comandante Guevara fosse stato eliminato dal palcoscenico della storia, perché da vivo avrebbe rappresentato una seria minaccia alla politica degli equilibri e soprattutto ad una pace imperfetta, in cui però tutti ci ritrovavamo.

E così il Che nel corso degli anni divenne sempre più l’eroe solitario che trovò la morte in una sfida impari con il Golia del capitalismo.

Una sua foto soprattutto, che lo ritraeva con uno sguardo assorto, divenne quasi un’icona che si teneva in casa e si “portava” in processione ad ogni manifestazione studentesca, operaia o di contestatori al nostro sistema capitalistico. E quante volte nel corso degli anni mi sono trovato ad ascoltare racconti, lamenti, parole che elogiavano il Comandante e ne compiangevano la scomparsa! E quanta fatica facevo a non intervenire, correggere racconti fantasiosi e dire la vera versione di quei fatti che contribuirono a creare una leggenda.

Posso ora anche rivelare che ogni volta che mi capitava di ascoltare la malinconica melodia del canto “Hasta siempre Comandante” dovevo sforzarmi a contenere la commozione.

Come siamo strani noi uomini! Mai avrei immaginato che alla fine mi sarei trovato a simpatizzare con un pericoloso nemico a cui detti la caccia, ma che non riuscii a salvare dalle mani dei nostri alleati.

La figura del Che merita rispetto perché, pure essendo un potente personaggio nella Cuba castrista, non esitò ad abbandonare potere, onori e prestigio per realizzare quel progetto rivoluzionario che lo assillava; ed ogni anno io, americano capitalista ma soprattutto, colui che dette la caccia al Che, faccio memoria di quella epica vicenda anche elevando una preghiera per lui, anticlericale di tutto rispetto.

Non vi meravigliate per questo mio riferimento alla preghiera, perché nel corso degli anni, e soprattutto dopo il mio congedo dai Berretti Verdi, è iniziata in me una “crisi religiosa” ed un ripensamento della mia vita e delle mie scelte personali.

E da ufficiale che eseguiva gli ordini dei superiori e da questi era spesso elogiato, spero di trovare il perdono, la comprensione e soprattutto l’accoglienza del “Signore degli eserciti”.

E dato che la vita è una lotta continua contro il male e richiede un impegno quotidiano, rubando il motto del Comandante mi sento di dire, in senso cristiano, “Hasta la victoria..de cristo Rey!



 

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