Non era per nulla scontato, eppure alla fine è successo: il 19 giugno scorso il Presidente cinese Xi Jinping ha incontrato il Segretario di Stato americano Antony Blinken nella Grande Sala del Popolo, nello storico palazzo di piazza Tienanmen a Pechino.
È la prima visita ufficiale di un funzionario americano dal 2018, dopo l’incontro con l’ex Segretario Mike Pompeo sotto la presidenza Trump. Nonostante le visioni diametralmente opposte, non è così usuale che le visite ufficiali tra due superpotenze come Cina e Stati Uniti siano così diradate nel tempo, e la presidenza Biden rischia infatti di essere la prima a non vedere un incontro ufficiale tra i due leader mondiali durante il primo mandato del leader americano.
La visita era prevista già cinque mesi fa ma era stata poi rimandata a data da destinarsi, dopo gli attriti che sono seguiti all’incidente diplomatico del (presunto?) pallone aerostatico cinese. Ma il balloon-gate è soltanto l’ultimo degli episodi che si vanno a sommare alle varie tensioni generatesi tra i due Paesi negli ultimi anni, soprattutto sotto la presidenza Trump: prima la guerra dei dazi, poi l’era covid, la questione Taiwan – precipitata con la visita dell’ex speaker della camera Nancy Pelosi lo scorso agosto – senza dimenticare la questione dei semiconduttori. Non è oramai un segreto infatti che i rapporti diplomatici sino-americani siano ai minimi storici dal 1979: non dei grandi presupposti per una visita di Stato.
La conferma non è arrivata infatti fino a 45 minuti prima del vertice. Il Segretario di Stato americano è stato accolto in maniera decisamente asettica, senza tappeto rosso e con pochissimi funzionari ad aspettarlo: già un’idea della considerazione cinese del meeting e in generale dell’atmosfera che si respira in Cina per ciò che concerne la realtà a stelle e strisce, soprattutto se consideriamo la tradizionale cultura del rispetto dell’ospite nei codici negoziali cinesi.
Tuttavia, alla fine questo incontro c’è stato. Una durata di appena mezz’ora, in cui Blinken ha raggiunto il presidente cinese al grande tavolo a ferro di cavallo, in cui Xi era seduto al centro con il segretario americano e il ministro degli esteri cinese alle estremità – disposizione già velatamente contestata in America, dove è stata interpretata come un declassamento della figura del rappresentante americano. I toni invece sono stati inaspettatamente cordiali e la discussione si è mossa su parecchie carte che erano sul tavolo, seppure con strategica dinamicità.
Nei comunicati difatti non c’è traccia dei temi “scottanti” come la ripresa effettiva del dialogo tra militari (interrotta dopo il balloon-gate), le questioni legate ai semiconduttori e la tecnologia in generale, né tantomeno vengono aggiunte novità sulla questione Taiwan.
Nel suo intervento il giorno successivo al vertice, il ministro degli esteri cinese Wang Li si limita a liquidare la questione ribadendo che “il mantenimento dell’unità nazionale è sempre al centro degli interessi fondamentali della Cina […] e su questo tema la Cina non farà compromessi o concessioni”. Il segretario di Stato americano ribadisce in risposta che seppur non sostenendo apertamente l’indipendenza dell’isola, l’America continuerà ad assicurarsi che “Taiwan abbia la capacità di autodifendersi”. Nessuna novità insomma. Perdipiù, nell’incontro con Wang Li, quest’ultimo si rivolge al segretario americano, accusando l’America di “interferire negli affari interni di Pechino”, alimentando la “teoria di una minaccia cinese”. Chiede inoltre di eliminare i dazi commerciali e di non ostacolare lo sviluppo tecnologico cinese. Una richiesta che – allo stato attuale - difficilmente verrà accolta.
Non si può non sottolineare tuttavia una neanche troppo implicita ammissione di responsabilità da parte di entrambi i Paesi, che hanno evidentemente fatto uno sforzo per trovare una strada comune per il dialogo e si sono dette disponibili ad impegnarsi per gestire al meglio la rivalità.
Non sono mancate infatti le prime ipotesi degli analisti sulla necessità e la possibilità di definire dei principi condivisi per poter gestire le relazioni bilaterali e la competizione tra i due paesi senza che questa degeneri in conflittualità.
Fondamentalmente entrambe le potenze hanno dovuto ammettere la presenza di questioni su cui si trovano “profondamente in disaccordo”, come annunciato dallo stesso Blinken nella conferenza stampa successiva all’incontro. Dall’altra parte però, si è percepita una comune volontà di stabilizzare le relazioni diplomatiche dopo gli ultimi avvenimenti, per evitare che le varie tensione accumulate e la storica rivalità politico-commerciale sfocino presto in un conflitto, soprattutto se si guarda al tema Taiwan. Dopotutto, ricordiamo che, al netto della gravità delle conseguenze che un altro incidente diplomatico comporterebbe, gli Stati Uniti non possono permettersi un'altra escalation oltreoceano, e Pechino sa perfettamente che oltrepassare la cosiddetta linea rossa si rivelerebbe un boomerang per il Paese, anche vista la sua situazione interna tutt’altro che rosea; significherebbe chiudere troppe porte, e questo Xi lo sa. Ma tant’è.
Quel che di positivo si può estrapolare da questo vertice infatti, non sono né grandi novità né grandi promesse. Il valore dell’incontro non è altro che l’incontro stesso: la riapertura di un canale comunicativo che si era interrotto negli ultimi tempi; e si sa che tanto più si riesce a mantenere aperta una finestra di dialogo, seppur debole, tanto minore sarà il rischio che un qualsiasi “incidente” si trasformi in una chiusura irreparabile.
Si può quindi già parlare di disgelo? Non proprio. Seppur positivo il passo reciproco fatto dalle due potenze, non si possono non considerare dei dettagli fondamentali nell’incontro. Come già anticipato, la fredda accoglienza dell’ospite americano, in totale contraddizione con la tradizione cinese in ambito diplomatico: la sensazione generale era quella di un imperatore che si degna di ricevere dei funzionari minori, quasi a sottolineare la propria superiorità.
Dopodiché è da considerare anche la scarsa attenzione che questa visita ha suscitato nel paese orientale e nei media.
La notizia non ha mai raggiunto la prima pagina dei giornali e addirittura sul quotidiano del PCC era rilegata in un breve trafiletto in terza pagina. Anche questo un segnale che non passa inosservato. Infine la questione degli argomenti tabù e della mancata riapertura del dialogo tra i militari. Insomma, l’impressione generale è un po’ quella di uno scambio di convenevoli che non aspirano ad essere né più né meno.
Intanto il ministro degli esteri cinese Qin Gang ha accettato l’invito di Blinken per una visita in America, mentre Xi Jinping è andato dal cancelliere Scholz in Germania per provare a saldare un canale di comunicazione anche con l’Europa.
Questo potrebbe tanto portare a pensare ad un’intromissione della Cina nei rapporti tra le forze atlantiche, quanto invece rassicurare sulla volontà della Cina di migliorare i rapporti con l’Occidente e mantenere le porte aperte anche dell’Ue. Peseremo soltanto in seguito le “promesse” di Pechino, e una prova del nove potrebbe essere proprio il rinnovo del patto di cooperazione scientifica e tecnologica del 1979, previsto per fine anno, come l’atteso incontro tra Biden e Xi, previsto orientativamente per questo novembre. Non ci resta che attendere.
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