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Cop 27 e la spinta europea

Dopo le grandi aspettative maturate nel corso del meeting di Glasgow, dove lo scorso anno si è tenuto il ventiseiesimo incontro sul clima, ecco che i grandi Capi di Stato si riuniscono nella località turistica di Sharm El-Sheik, per aprire la ventisettesima Conference of Parties, meglio conosciuta come Cop 27.

Due settimane intense, in cui si è discusso di quella che sembra sempre più una corsa contro il tempo contro gli effetti, ormai evidenti, del riscaldamento globale.

Una partecipazione di 125 cariche, tra capi di Stato e di governo, più la presenza dei diplomatici di 200 Paesi, oltre che 40 mila esponenti di ong, think tank, studiosi e settore privato. Non è sfuggita l’assenza dei presidenti di Cina, India e Russia, i tre Paesi extra-europei più responsabili per inquinamento terrestre (solo per la Cina si parla quasi del 30% di emissioni CO2, stando ai dati del 2020). Tornato ad essere presente invece il Brasile, con il neopresidente Lula, che ha già promesso di fare il possibile per la salvaguardia dell’Amazzonia, ribaltando la posizione negazionista del suo predecessore Bolsonaro.

I partecipanti sono stati suddivisi in due maxi gruppi, con i Paesi più ricchi e sviluppati da un lato – a cui di fatto va la responsabilità della maggior parte dell’inquinamento globale - capitanati dal G7, e dall’altro il G77+ la Cina, il maxi gruppo dei 134 Paesi più poveri e in via di sviluppo, guidato dall’ambasciatore del Pakistan all’Onu Munir Akram.

I due gruppi hanno preso parte a serrati negoziati nel corso della conferenza sul tema centrale del “loss and damage”, ossia nell’ottica di un impegno maggiore, da parte dei Paesi più sviluppati, a tenere fede alla promessa di istituire un fondo a titolo di risarcimento e a sostegno della transizione energetica per quei Paesi che, pur avendo contribuito in maniera proporzionalmente minore all’inquinamento globale ne stanno scontando i danni maggiori.

È stata anche la prima conferenza sul clima per la neo premier Giorgia Meloni, che nella giornata del 7 novembre ha preso parte ad una serie di incontri bilaterali: con il primo Ministro del Regno Unito, Rishi Sunak – da poco susseguito a Liz Truss – con il Ministro della Repubblica Federale democratica di Etiopia, Abiy Ahmed e con il presidente dello Stato di Israele, con cui ha affermato la volontà di costruire una collaborazione bilaterale tra Italia ed Israele anche sul tema della transizione ecologica.

Non per ultimo, l’incontro bilaterale col padrone di casa, il Presidente Abdel Fattah Al-Sisi, durante il quale si è parlato di approvvigionamento energetico, fonti rinnovabili, crisi climatica in corso ed immigrazione.

Un incontro molto importante che ha dato tra l’altro la possibilità anche di risollevare l’attenzione sui casi di Giulio Regeni e Patrick Zaki, due temi molto delicati per i rapporti tra Italia ed Egitto.

La premier, nel corso della conferenza ha ribadito l’impegno nazionale per la riduzione del 55% delle emissioni entro il 2030, così come l’impegno assunto a livello europeo del raggiungimento della Net Zero Emissions (emissioni zero) al più tardi entro il 2050. Meloni ha sottolineato infatti come l’Italia abbia triplicato il suo impegno per la lotta al cambiamento climatico.

Per questo motivo, al Padiglione italiano è stato presentato il Fondo Italiano per il clima, a fronte del piano già annunciato dall’ex Presidente del Consiglio Mario Draghi in occasione del summit G20 di un anno fa, presieduto dall’Italia. Questo prevedeva la mobilitazione di 1,4 miliardi di dollari l’anno per i successivi 5 anni per il clima, con una media di 500 milioni già registrata negli anni precedenti. Per far fronte a ciò, l’istituzione del Fondo Italiano per il clima, preso a battesimo dalla Legge di Bilancio 2022 presso il Ministero della Transizione ecologica, con una dotazione di 840 milioni di euro per finanziare tutti quegli interventi necessari al raggiungimento degli obiettivi per cui l’Italia ha già dato adesione.

Facile, nel corso di queste giornate così importanti per definire il nostro futuro e quello del pianeta, perdersi in dichiarazioni di intenti e slogan di grande impatto, lasciandosi poi sopraffare dallo sconforto e dalla negatività, soprattutto quando il riscontro internazionale è quello attuale.

Non è sicuramente di buon auspicio leggere, nonostante tutto, che soltanto 26 Paesi sui 193 che hanno accettato di intensificare le loro azioni per la lotta al cambiamento climatico hanno effettivamente presentato i loro Ndc aggiornati (i Nationally Determined Contributions, piani cimatici specifici per ogni Paese che fissano i contributi determinati a livello nazionale) o che i Paesi responsabili della percentuale più alta di inquinamento al mondo non prendano neanche parte alla conferenza.

Il Segretario Generale dell’Onu António Guterres, nel corso del suo consueto messaggio di apertura alla conferenza lo ha detto chiaramente: “Siamo su un’autostrada per l’inferno climatico con il piede ancora sull’acceleratore”. Bisognerà assolutamente creare un piano per ricongiungere il nord e il sud del mondo, tra le economie più sviluppate e quelle emergenti.

E questo può succedere soltanto quando nessuno rimarrà più indietro. Vale a dire: ulteriore impegno da parte dei Paesi più sviluppati per cercare di colmare questo divario.

Ma allora, stante tutto ciò, visti i recenti gli avanzamenti nel settore del rinnovabile, si potrebbe pensare che qualcosa non torna. È stato sovrastimato quanto fatto finora? Come collochiamo gli sforzi fatti ad esempio nel settore della trasformazione energetica, per una migrazione della produzione verso il mondo green in questo disegno allarmante? Il punto sta tutto nel bilancio delle situazioni e nelle interpretazioni del quadro generale.

Guardiamo il caso italiano, a noi ovviamente più vicino. Secondo il rapporto GreenItaly, realizzato dalla Fondazione Symbola e da Unioncamere - a cui hanno collaborato altre organizzazioni e più di 40 esperti - sono circa 531 mila le aziende che hanno scelto tecnologie e prodotti green solo nel quinquennio 2017-2021, mentre nel 2021, l’anno di ripresa post pandemia, la quota di imprese eco-investitrici è passata dal 21,4% (2020) al 24,3%, rilanciando quindi il processo di transizione verde a livello nazionale. Certo, il numero di installazioni necessarie per centrare gli obiettivi del RePowerEu non è ancora abbastanza vicino. Per raggiungere quegli obiettivi bisognerà installare altri 85 gigawatt di nuova capacità rinnovabile, e fino ad ora l’Italia ha installato in media un gigawatt l’anno.

Non ci si può nascondere.

Il grande intoppo italiano è a livello burocratico. Quello che succede, a conti fatti, è che le richieste di connessione vengono bloccate poi a livello regionale, in attesa della concessione delle autorizzazioni per le “aree idonee”. Invece, secondo Agostino Re Rebaudengo – Presidente di elettricità Futura, la principale associazione del mondo elettrico italiano – le opportunità per l’Italia sono enormi, e c’è già anche una grandissima filiera di imprese pronte ad investire, che avrebbe solo da guadagnare, una volta ripreso il mercato. «Una pubblica amministrazione più efficiente permetterebbe di avviare nuovi investimenti, ridurre le emissioni di CO2, creare posti di lavoro e tutelare il nostro Paese dalla crisi energetica», dice per il Corriere. Last but not least, come direbbero in America, la possibilità di creare nuova offerta di lavoro per figure professionali più qualificate, che ad oggi il mercato non riesce ad assorbire. Si tratta di intervenire sul sistema non soltanto più per un «sistema valoriale», come afferma Ermete Realacci, Presidente della fondazione Symbola, ma diventa «anche [una scelta] di competitività» del mercato italiano.

Soltanto snellendo i procedimenti e sbloccando i progetti ancora fermi possiamo renderci energeticamente indipendenti, e contribuire nel quadro più grande della Net Zero Emissions, di cui per ora si sente solo parlare.

Sensibilizzare da un lato, fare pressione affinché non ci si adagi sugli allori e dall’altra parte prendere coscienza che in questa negatività generale c’è un mare di possibilità che ci si presentano, a livello locale e nazionale.

Ognuno di noi può contribuire, e nell’insieme questo sforzo dovrà necessariamente produrre un vantaggio che andrà a beneficio della comunità, anche internazionale.

E chissà che da una profonda difficoltà invece non nasca anche una grande opportunità di ripresa economica.


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