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Crisi politica ed elettorale, manca un'idea condivisa di nazione

Le recenti elezioni amministrative hanno inconfutabilmente dimostrato una grave disaffezione dei cittadini verso la politica con il massiccio rifiuto del voto.

L’astensionismo, soprattutto nel turno di ballottaggio, ha messo una volta per tutte in evidenza il rifiuto da parte del corpo elettorale dei partiti, di chi li rappresenta, di come vengono composte le liste, dell’estraneità al processo formativo del consenso, al personalismo che da ventisette anni circa connota la vicenda politica italiana.

Ciò vuol dire che mettersi fuori dal contesto democratico delegittima la nazione stessa e sostanzialmente ne dichiara l’inesistenza.

La responsabilità è senza ombra di dubbio della classe politica, la più inetta del secondo dopoguerra, imbastita di equivoci connubi e di scarsa o nulla competenza.

Lo scrivevamo qualche mese fa su questo giornale: se i partiti non esistono più, o si sono trasformati in occasionali ed opportunistici cartelli elettorali, è fatale che la gente non si senta coinvolta e diserti le urne.

Le conseguenze non sono soltanto la modesta rappresentatività e la barcollante forza decisionale, a livello locale o nazionale, degli eletti, ma la distruzione del principio di partecipazione unitamente al confronto dialettico che dovrebbe animare la vita politica stessa. Insomma, la politica così come si configura in Italia è nemica della nazione. E a poco valgono i richiami retorici nell’imminenza del voto a far mutare l’indirizzo dell’opinione pubblica.

Dunque, una riflessione su democrazia e comunità nazionale, su intervento politico e rinnovamento dei partiti, con le loro liturgie, i loro riti, le loro proposte attraenti l’elettorato e la militanza (completamente sparita), andrebbe fatta se si intende mettere un freno al potere delle oligarchie. I partiti, incapaci di formare “quadri” dirigenti preferiscono investire sui personaggi “civici” per le cariche elettive, per di più in maniera abborracciata ed in breve tempo. L’esito non può che essere il rifiuto e la negazione della partecipazione democratica stessa.

Non è necessario scomodare Ernest Renan per convincersi che la nazione è un «plebiscito» di tutti i giorni.

Charles de Gaulle

Basta avere la consapevolezza che il principio stesso dell’appartenenza a una cultura e a un sistema di valori civili ci fa essere cittadini di una nazione.

Sembra, e forse lo è, una banalità, ma dopo la crisi delle ideologie che negavano in radice la nazione come comunità storicamente fondata, sono insorte forme diverse e probabilmente più subdole che la mettono in discussione, delle quali bisogna necessariamente tenere conto: il mondialismo, il pensiero unico, l’indifferentismo culturale, il relativismo etico.

Ed infine la diffidenza per le forze politiche mentre sempre più superficialmente ci si affida a nullità come rappresentanti politici e a tecnocrati come decisori.

È difficile qualificare queste tendenze come ideologie strutturate; ma è, viceversa, facile riconoscerle come «veicoli» dell’ulteriore messa in discussione della nazione che apre la strada al rifiuto del riconoscimento delle specificità e, dunque, a una sorta di «totalitarismo morbido» avente la pretesa dell’ineluttabilità dell’omologazione culturale quale fine ultimo della «guerra» alle differenze condotta soprattutto dai gruppi di potere finanziario e mediatico.

È per questo che la nazione si configura non come una ripresa degli stilemi del vecchio nazionalismo arroccato attorno ai principi dell’intangibilità dei «sacri confini» e moralmente giustificato da una improponibile «volontà di potenza» declinata in imperialismo, ma come un atteggiamento che trascende il particolarismo egoistico e afferma il diritto alla sovranità per tutti i popoli e tutti gli Stati, a prescindere dall’organizzazione giuridica di cui sono dotati. Per tale motivo, soprattutto, non si giustifica la pretesa di esportare (magari con le armi) la democrazia «all’occidentale» in aree geografiche dove popoli animati da altre culture non sono in grado di governarla e considerano chi intende promuoverla alla stregua di un colonialista.

Ritenere, in altri termini, che chiunque e ovunque debba ragionare secondo i nostri schemi mentali, desiderare ciò che noi desideriamo, essere insomma come noi o quanto meno assomigliarci è democraticamente discutibile oltre che offensivo del principio stesso di nazionalità.

La nazione è, dunque, un’idea antica che si rinnova. Ma solo dove la partecipazione democratica si manifesta e ne costituisce la linfa. Credere di poter evitare di riferirsi a essa nel difficile tentativo di modernizzare le istituzioni pubbliche è come voler attraversare un deserto privi di generi di sostentamento.

Purtroppo l’errore che spesso, e da più parti viene commesso è quello di pensare che la nazione sia un’anticaglia sentimentale, un cascame retorico e non, com’è in realtà, un «organismo vivente» i cui elementi, se non armonizzati, rischiano di produrre conflitti difficilmente sanabili. Questo errore, con tutta evidenza, è affiorato quando si è pensato di riformare il sistema costituzionale italiano senza tener conto dei valori a cui ispirare tale lavoro che, mi sembra incontestabile, non possono che essere i valori della nazione e dell’integrità dello Stato nazionale.

L’ingegneria costituzionale, senz’anima e priva di prospettive comprensibili dai cittadini, può partorire soltanto progetti velleitari; le grandi Costituzioni sono tali quando i principi che affermano sono in sintonia con lo spirito dei popoli.

Lucien Febvre

Uno degli errori del costituzionalismo moderno è consistito nel ritenere di poter fare a meno della nazione: non a caso uno dei pochi esperimenti del Novecento riusciti è stato quello del generale De Gaulle perché profondamente legato alle istanze del popolo francese.

Questa dimensione che esplicita il sentimento dell’appartenenza appena richiamato, è possibile coltivarla, difenderla, affermarla? Credo che tutte le forze politiche autenticamente popolari e innestate nella storia nazionale abbiano il dovere di rilanciarla al fine di contrastare sia le spinte disgregatrici che dall’interno operano per una rottura della comunità nazionale, sia l’invadente relativismo etico che dall’esterno si propone il fine di recidere legami culturali grazie ai quali si tiene insieme il Paese.

La prospettiva, insomma, è quella di dare vita a una «nazione condivisa», cioè accettata da tutti a prescindere dalle appartenenze, per dare un senso concreto al sentimento che sorregge l’idea di nazione: il patriottismo. Com’è facile dimostrare, esso non può essere quello della Costituzione, come pure qualcuno ha sostenuto, né quello astratto pronto a farsi supporto ideologico a scopo di sopraffazione.

Il patriottismo è il vincolo comunitario tra elementi reali che fanno parte della vita; non è escludente, ma inclusivo; non è la suprema forma dell’egoismo collettivo, ma la prova di generosità di un consapevole aggregato umano conscio che la sua sovranità finisce laddove comincia la sovranità di altri; è il rispetto che si deve ad altre culture, a tutte le culture perché manifestazioni dello spirito dei popoli e che sarebbe delittuoso cancellare.

Patriottismo e democrazia, dunque, si tengono, poiché, come osservava Lucien Febvre, il fondatore della scuola degli Annales, la patria «è una parola astratta, presa in prestito, una parola classica, certo; ma che ben presto si è riempita di sostanza umana, di sostanza individuale, di sostanza vissuta». È questa «sostanza» che la legittima, in un certo senso. Perciò l’amor di Patria, per come storicamente si è incarnato, può dirsi un’estensione dell’«amor proprio». I moralisti francesi del Settecento dicevano che ci si ama veramente soltanto amando la Repubblica e alla fine si arriva ad amarla più di se stessi.

Mi chiedo con Henry Jean-Baptiste d’Anguessau, che scriveva di politica nel Diciottesimo secolo, se davvero il patriottismo che giustifica la passione nazionale, «questo amore pressoché connaturato all’uomo, questa virtù che conosciamo attraverso il sentimento, che acquisiamo attraverso la ragione, che dovremmo seguire per interesse, davvero possiede delle radici profonde nei nostri cuori?». Per quanto possa sembrare strano di questi tempi, la risposta è assolutamente affermativa.

E le radici profonde del patriottismo sono in tante cose che riassumono la nostra identità.

Anche in quelle “anticaglie” per qualcuno che sono i partiti politici che andrebbero rianimati, ripensati, rinnovati, e con l’ausilio nelle nuove tecnologie, farne dei mezzi strutturali di un consenso consapevole.

Essi possono essere gli ingranaggi della democrazia partecipativa e decidente. In tempi rapidi prima che la sfiducia dei cittadini degeneri in un’anarchia paradossalmente governata dalla vasta tribù mondialista degli oligarchi privi di consenso, ma determinati a sottrarre al popolo il potere e a considerare la nazione una semplice ed innocua figura retorica.


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